mercoledì 28 novembre 2012

Le "cadute del vivere"

Oltre alle cose e volti insondabili che erompono quotidianamente dal vivere, e la cui bellezza ed evanescenza desideravo appassionatamente fermare, mi ero accorta che esistevano alcune proprietà o cadute del vivere, la cui natura era altrettanto insondabile.
Una di queste, per esempio, era la immensità e sonnolenza e pace dello spazio. Tale esperienza avevo fatto in Libia, tra i nove e i tredici anni, forse: come la natura, sabbia e cielo, conosca immobilità ed estensione, nell'immobilità, di sogno.
Ma poi, varcando il mare per rientrare in Italia, durante un viaggio di due giorni, mi colpì in modo intenso il duplice moto risultante dalla nave che solca l'acqua azzurra, e dall'acqua azzurra che, pur non essendo più la medesima di un attimo prima, si presenta come la medesima. II medesimo luogo, pensavo, non vuol dire dunque l'identico tempo e situazione. Questo doppio scorrere del meccanismo — vita e luo­go nel meccanismo tempo — fu per me un'ombra. La nave correva correva, e io sempre a guardare lo stesso mare, e intanto la situazione della nave era altra: in luogo apparentemente uguale ma diverso; e quello di prima, il luogo di ieri, era irrevocabilmente sparito.
Cosi, c'era questo problema del tempo — delle dimensioni e i luoghi dove le cose passavano. Cosi, le cose passavano! E irrevocabilmente, sembrava. Perciò tutto quanto accadeva, se la sua parte seconda era il non esistere più, era cosa illusoria. Questa qualità del tempo, di formare le cose per poi cancellarle, agì in modo profondo sulla mia mente, insieme alle forme, e di continuo mi si proponeva come un enigma. Il tempo si consumava: che ne era delle forme espresse da ogni tempo?
 
Una di queste forme - per tornare al fatto che m'impedì di studiare ancora musica - era uno dei miei fratelli, che in verità conoscevo poco. Non aveva neppure lui voluto o potuto studiare, e da due anni era imbarcato su qualche nave. Ora, una sera di gennaio giunse la notizia che era morto, in un mare o un luogo lontano, e non sarebbe quindi tornato più alla casa di Napoli e alla vita familiare.
L'effetto di questa notizia, sulla casa, fu dapprima una specie d'inferno, ma successivamente uno strano silenzio. Secondo me questo silenzio, che segue tutte le scomparse anche di piccoli animali amati, corrisponde a una specie di svenimento dell'anima. Un'amputazione è avvenuta; una parte dell'anima se n'è andata per sempre. E l'anima reagisce smettendo di ascoltare qualsiasi rumore o suono o voce della circostante natura o della stessa propria vita. Questo silenzio è della stessa natura, credo, del grande e immoto AZUR dei cieli africani - o di altri estesi conti­nenti - e in questo silenzio c'è lo stesso rombo silenzioso del mare che precipita dietro la nave. Dunque, oltre l’AZUR, o anima felice del mondo, ecco i suoi eventi massimi: tempo, lo scorrere eterno e lo svanire di tutto, ed ecco la risposta della natura o dell'anima: il tacere improvviso, il piombare in se stessa,  della creatura colpita. Per cui è straordinariamente vera la raffigurazione che Dante fa di un'anima di colpo ferita, o privata di una parte di se, quando dice di Cavalcanti che, alla creduta morte del figlio, dopo aver gridato: Come? / dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?., ripiomba nell'arca ardente e non riappare mai più.
Questo silenzio, almeno per me che ero sempre sola (mia madre poteva comunicare nella fede cristiana, i miei fratelli avevano la scuola e mio padre l'ufficio), durò qualche mese, e non vedevo modo di uscirne. Alla fine un giorno — anzi una mattina —, improvvisamente pensai che, se non altro, dato che ne morivo, potevo descriverlo. E mi misi al tavolino e scrissi una lunga poesia intitolata Manuele, in cui raccontavo, parlandone all’ombra del marinaio, questo silenzio. E questa fu la mia prima poesia; ma poiché non ho scritto — poi — molte poesie, ma soprattutto racconti, fu anche la mia prima prova scritta: rendere con la parola scritta, e un sentimento calmo — rendere in modo estatico —, qualcosa di atroce e soprattutto insondabile.
Questo fenomeno apocalittico (ma anche incantatore) del vivere, essendo tanto intenso, e sfuggente a qualsiasi prova o analisi di parte — essendo l'insondabile o inafferrabile stesso —, non si può rendere che in uno stato d'animo contrario, che indicherò come: l'ammirazione o contemplazione della sua immensità e (per noi) ferocia. L'uomo colpito prenda uno strumento musicale - in questo caso il verso - e cominci a trarne alcuni suoni calmi e sorridenti: in questa calma e questo sorriso soltanto egli potrà imprigionare l'orrore che ha subìto. È il caso dello specchio. Solo una superficie gelida ed elegante - assolutamente immobile - potrà riprendere il moto scompigliato di un albero scosso dal vento, o il levarsi fresco di belva di un'onda verde del mare. Il mare non riflette il mare, né l'albero l'albero. Solo in qualcosa di natura profondamente diversa e contraria, la natura e l'animo tragico delle cose si riflettono. Questo è ciò che si dice qualità estetica. E la qualità dello specchio, che si oppone - e perciò la cattura - alla cosa specchiata. E se volete riprendere un mare in tempesta, o gli orrori di una guerra, siate calmi - e mettete tra voi e queste cose la distanza scaturita dal vostro stesso doloroso silenzio.
Queste riflessioni sorgono spontanee nell'animo, e anche disordinate, ma non avrei altro modo di rendere un'esperienza personale - e perciò limitata - come un'esperienza universale e perciò aperta a tutti. E l'averla vissuta, io, personalmente, non sarebbe di nessuna importanza, se essa non fosse accessibile a moltissime persone.
Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi, 1997 pagg.66-69