giovedì 29 marzo 2012

Dovere e volere nel corpo

Come si riflette dunque nel corpo il modo di parlare - o di scrivere - di un individuo ? E come cambia il modo di parlare quando cambia qualcosa dentro di sé ? Le parole che usiamo sono così intimamente legate ai processi psicologici e fisici che riesce difficile credere che anche un cambiamento nel linguaggio non produca, in qualche misura, una trasformazione in noi stessi, nel nostro corpo e nelle nostre relazioni. Osservando con attenzione, infatti, ogni stile di vita è caratterizzato da un linguaggio che permette il suo perpetuarsi.

Quando parlando diciamo “devo fare qualcosa” o addirittura “dovrei’ farla” stiamo perdendo il contatto col nostro desiderio, col nostro reale bisogno, col piacere che deriva dall’attività volta a soddisfarlo, e quindi col nutrimento che quest’attività può dare al corpo e all’anima. Pensare - e parlare - in termini di ‘dovere’ implica generalmente che quello che ‘dobbiamo’ fare lo facciamo per qualcun altro invece che per noi stessi, che chi trae soddisfazione o vantaggio dalla nostra azione non siamo noi. Per comprendere meglio, ci si può chiedere per esempio “Che cosa accadrebbe se non lo facessi? Chi mi costringe? Chi lo vieta?” in modo da ricostruire più consapevolmente la causa, la motivazione reale e il risultato dell’azione da compiere.
Dal punto di vista fisico (...) il dovere porta lo stato dell’organismo da una struttura più interna - collegata al piacere e ai bisogni essenziali - a una più esterna: dal centro del cervello alla corteccia, dal rene al surrene, dalla muscolatura interna a quella esterna. La corteccia controlla e contiene: noi, dal canto nostro ‘faremmo altro’. Ogni volta che diciamo ‘devo’, insieme al sistema nervoso simpatico entrano in attività le strutture più esterne del corpo, che ci costringono ad agire un po’ come se ci prendessero di peso per superare la nostra resistenza, con ripercussioni sul movimento (...). Quando diciamo ‘devo’, dunque, non consideriamo nostro il bisogno che affermiamo e ci alieniamo la spontaneità del desiderio. Dato che il bisogno, il desiderio, l’eccitazione sono tutte qualità degli organi, ovvero del nucleo energetico del corpo, pensare in termini di dovere implica per prima cosa la disattivazione di questi ultimi. Senza il sostegno degli organi, ogni azione compiuta ha la stessa pesantezza di un trascinarsi.

Quando ciò che ‘dobbiamo’ fare si trasforma in qualcosa che ‘vogliamo’ fare disponiamo di una possibilità concreta per identificarci con i nostri impulsi. Se siamo noi a fare qualcosa, se ci riappropriamo del fatto che lo facciamo per noi stessi e non per qualcun altro, i muscoli possono sciogliersi e gli organi, tornando in azione, sostenerne il movimento. E il nostro stile vita nel senso della leggerezza.

J. Tolja - F. Speciani, Pensare col corpo  Baldini Castoldi Dalai Editore

martedì 27 marzo 2012

ORECCHIO VERDE

Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo
vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi era maturato
tutto, tranne l'orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino
e potermi studiare il fenomeno per benino.
Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età
di quell'orecchio verde che cosa se ne fa?
Rispose gentilmente: — Dica pure che sono vecchio
di giovane mi è rimasto soltanto quest'orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire
le voci che i grandi non stanno mai a sentire.
Ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli,
le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli.
Capisco anche i bambini quando dicono cose
che a un orecchio maturo sembrano misteriose.
Così disse il signore con un orecchio acerbo
quel giorno, sul diretto Capranica-Viterbo.


Di Gianni Rodari - in Stefano Panzarasa L'orecchio verde di Gianni Rodari, Edizione Nuovi Equilibri, Viterbo, 2011, 

venerdì 23 marzo 2012

L'attimo fuggente

«Se una fotografia deve comunicare il soggetto in tutta la sua intensità, le relazioni formali devono essere rigorosamente stabilite. La fotografia implica il riconoscimento di un ritmo  nel mondo delle cose reali.
Ciò che fa l'occhio è cercare e concentrare l'attenzione su un particolare soggetto nel grande insieme della realtà; ciò che fa la macchina fotografica è semplicemente registrare sulla pellicola la decisione presa dall'occhio.
Noi guardiamo e  percepiamo una fotografia, così come un dipinto, nella sua totalità e in una sola occhiata.  In  una fotografia, la composizione è il risultato della simultanea coalizione e dell'organica organizzazione degli elementi visti dall'occhio. Non si deve aggiungere la composizione  come se fosse una riflessione successiva sovrapposta al soggetto di partenza, poiché è  impossibile separare il contenuto dalla forma. La composizione deve avere una sua  necessità.
 Esiste in fotografia un nuovo tipo di plasticità, prodotta dalle linee istantanee create dai  movimenti del soggetto. Noi lavoriamo all'unisono con il movimento, come se fosse un  presentimento del modo in cui si svolge la vita stessa. Ma dentro il movimento c'è un  momento nel quale gli elementi che si muovono sono in equilibrio. La fotografia  deve coglier questo momento e fermarne l'equilibrio.
 L'occhio del fotografo compie un continuo lavoro di valutazione. Il fotografo può far  coincidere le linee semplicemente spostando la testa di una frazione di millimetro. Può  modificare la prospettiva con un leggero piegamento delle ginocchia. Ponendo la macchina  più vicino o più lontano dal soggetto può disegnare un dettaglio - e questo può essere  subordinato oppure tiranneggiare l'immagine. Compone una fotografia quasi esattamente  nello stesso tempo che è necessario a schiacciare il pulsante, alla velocità di un riflesso condizionato.
A volte accade di temporeggiare, indugiare, aspettare che qualcosa accada. A volte si ha l'impressione che tutti gli elementi dell'immagine siano presenti - tutti tranne uno che sembra mancare. Ma quale? Magari una figura entra improvvisamente nell'inquadratura.
Segui il suo procedere nel mirino. Aspetti, aspetti ancora, e alla fine schiacci il pulsante - e te ne vai con la sensazione (anche se non sai perché) di avere davvero colto qualcosa.  Dopo, come verifica, puoi prendere la stampa di quella immagine e rintracciare su di essa le figure geometriche che si evidenziano all'analisi ; osserverai che, se lo scatto è avvenuto nel momento decisivo, avrai istintivamente fissato una struttura geometrica in assenza della quale la fotografia sarebbe stata senza forma e senza vita (...) »             
Henri Cartier-Bresson, Images a la sauvette

lunedì 19 marzo 2012

Il senso comune


Vi è una realtà esterna, e tuttavia data immediatamente al nostro spirito. Il senso comune ha ragione […].
Questa realtà è mobilità. Non esistono cose fatte, ma solo cose che si fanno; non stati che si conservano, ma solo stati che mutano. La quiete non è mai che apparente o, piuttosto, relativa. La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all’interno della realtà sul cui modello dobbiamo rappresentarci le altre.

Ogni realtà, dunque, è una tendenza, se si conviene di chiamar tendenza un mutamento di direzione allo stato nascente.
Il nostro spirito, che cerca punti di appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino […] alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede per percezioni solide da un lato e per concezioni stabili dall’altro: parte dall’immobile e non concepisce e non esprime il movimento se non in funzione dell’immobilità; si installa in concetti già fatti e si sforza di prendervi, come in una rete, qualcosa della realtà che passa […] [per] servirsene, dato che ogni concetto è una domanda pratica che la nostra attività pone al reale, a cui il reale risponderà […] con un sì o con un no. Ma con ciò essa si lascia sfuggire ciò che, del reale, è l’essenza medesima. “
[…]
“Ma […] il nostro spirito può seguire il cammino inverso. Può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione continuamente mutevole, coglierla, insomma, intuitivamente. Per questo occorre che si faccia violenza, e inverta il senso dell’operare con cui si pensa di solito, e rovesci o, piuttosto, rifondi senza tregua le sue categorie. Esso metterà capo, così, a concetti fluidi, capace di seguire la realtà in tutte le sue pieghe e di adottare il movimento stesso della vita interna delle cose.”
“Per mezzo di fermate, per quanto numerose, non si farà mai della mobilità; mentre, se ci si dà la mobilità si potrà trarne col pensiero quante fermate si vorrà. In altri termini, è comprensibile che concetti fissi possano dal nostro pensiero essere estratti dalla realtà mobile; ma non v’è alcun mezzo per ricostruire con la fissità dei concetti la mobilità del reale.”
Henri Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Roma-Bari 1987

venerdì 16 marzo 2012

La storia di un fiume

Nata sulla cima di una montagna, la piccola sorgente danza giù per la sua strada. Il ruscello canta mentre scorre. Vuole andare veloce. Non è capace di andare piano. Correre, affrettarsi è l’unico modo per lui, forse persino volare. Vuole arrivare.  Arrivare dove? Arrivare all’oceano. Ha sentito del profondo, bell’oceano blu. Diventare un tutt’uno con l’oceano: è questo che vuole.
Scendendo verso le pianure, cresce e diventa un giovane fiume. Serpeggiando in mezzo ai bei prati, deve rallentare.
“Perché non posso correre come quando ero un torrente? Voglio raggiungere il profondo, bell’oceano blu. Se vado avanti così piano, come potrò davvero arrivarci?” Quando era un torrente, non era contento di quello che era. Voleva proprio diventare un fiume... Ma come fiume, non è felice lo stesso. Non può sopportare di andare così piano.
Così, mentre rallenta, il giovane fiume comincia a notare le belle nuvole riflesse nell’acqua. Sono di differenti colori e forme che fluttuano nel cielo, e sembrano essere libere di andare dove vogliono. Desiderando di diventare una nuvola, comincia ad inseguirle, una dopo l’altra. “Non sono felice come fiume, voglio essere come te, altrimenti soffrirò. La vita non vale davvero la pena di essere vissuta.”
Così il fiume si mette a giocare. Insegue le nuvole. Impara a ridere e a piangere. Ma le nuvole non stanno nello stesso posto a lungo. “Loro si riflettono nella mia acqua e poi se ne vanno. Nessuna nuvola sembra affidabile. Ogni nuvola che conosco mi ha lasciato. Nessuna nuvola mi ha dato mai soddisfazione e felicità. Odio il loro tradimento.” L’eccitazione di inseguire le nuvole non valeva la pena della sofferenza e della disperazione.
Un pomeriggio, un vento forte spazzò via tutte le nuvole. Il cielo diventò disperatamente vuoto. Non c’erano più nuvole da inseguire. La vita diventava vuota per il fiume. Si sentiva così solo che non voleva più vivere. Ma come può morire un fiume? Come fai a diventare niente? Come fai a diventare nessuno? E’ possibile?
Durante la notte, il fiume ritornò in sé. Non riusciva a dormire. Ascoltava il suo pianto, lo sciabordio dell’acqua sulle sue rive.
Era la prima volta che ascoltava profondamente se stesso, e in questo modo scoprì qualcosa di molto importante: la sua acqua era fatta di nuvole. Aveva rincorso le nuvole e non sapeva che le nuvole erano nella sua natura. Il fiume si accorse che l’oggetto della sua ricerca era dentro di lui. Trovò la pace. Improvvisamente, si poteva fermare. Non sentiva più il bisogno di correre dietro a qualcosa fuori di lui. Era già quello che voleva diventare. La pace che provava era davvero soddisfacente e gli portò un profondo riposo,  un sonno profondo.
Quando il fiume si svegliò il mattino seguente, scoprì qualcosa di nuovo e meraviglioso riflesso nella sua acqua: il cielo blu. ”Come è profondo e calmo. Il cielo è immenso, stabile, accogliente e completamente libero.” Sembrava impossibile credere che fosse la prima volta che il fiume rifletteva il cielo nella sua acqua. Ma era vero, perché in passato, era interessato solo alle nuvole, e non aveva mai fatto attenzione al cielo. Nessuna nuvola poteva lasciare il cielo. Sapeva che le nuvole erano lì, nascoste da qualche parte nel cielo blu. Il cielo  deve contenere in sé tutte le nuvole e tutte le acque. Le nuvole sembrano impermanenti, ma il cielo è sempre lì, come la casa affidabile di tutte le nuvole.
Contattando il cielo, il fiume contattò la stabilità, Toccò il punto di arrivo. In passato aveva contattato solo il venire, andare, esserci e non esserci delle nuvole. Ora poteva contattare la casa di tutte i venire, andare, esserci e non esserci. Nessuno poteva più portar via il cielo dalle sue acque. Che meraviglia era fermarsi e essere in contatto! Il fermarsi e l’essere in contatto portò a lui vera stabilità e pace. Era arrivato a casa.
Quel pomeriggio, il vento smise di soffiare. Le nuvole tornarono una ad una. Il fiume era diventato saggio. Era capace di accogliere ogni nuvola con un sorriso. Le nuvole di differenti colori e forme sembravano le stesse, ma questa volta non erano le stesse per il fiume. Non sentì il bisogno di impossessarsi o di inseguire nessuna nuvola in particolare. Sorrise a ciascuna nuvola con equanimità e gentilezza amorevole. Gioì dei loro riflessi nella sua acqua. Ma quando svanirono, il fiume non si sentì abbandonato. Le salutò dicendo “Arrivederci, buon viaggio”. Non era più legato a nessuna delle nuvole.
Fu un giorno felice. La notte, quando il fiume aprì tranquillamente il suo cuore al cielo, ricevette la più splendida immagine mai riflessa nella sua acqua: una bella luna piena, una luna così luminosa, ristoratrice, sorridente.

La luna-piena del Buddha viaggia
nel cielo più vuoto.
Se i fiumi degli esseri viventi sono calmi,
la luna ristoratrice si rifletterà
meravigliosamente nella loro acqua.

Tutto lo spazio sembrava essere lì per la gioia della luna, e lei pareva completamente libera. Il fiume rifletteva la luna nella sua acqua e godeva della stessa libertà e felicità.
Che meravigliosa notte di festa per ognuno – il cielo, le nuvole, la luna, le stelle e l’acqua. Nello spazio senza limiti, il cielo, le nuvole, la luna, le stelle e l’acqua gioivano nel camminare in meditazione insieme. Essi camminavano senza bisogno di arrivare in nessun posto, nemmeno all’oceano. Potevano già essere contenti nel momento presente.
Il fiume non aveva bisogno di arrivare all’oceano per diventare acqua. Sapeva di essere acqua per natura, e allo stesso modo la nuvola, la luna, il cielo, le stelle e la neve.
Come avrebbe potuto sfuggire a se stesso? Chi sa di un fiume che non scorre? Un fiume scorre, sicuro. Ma non ha bisogno di affrettarsi.

giovedì 8 marzo 2012

Le Cicale di Ermanno Cavazzoni

La cicala effettivamente passa l'estate a cantare (in greco si dice achete per questo), ed è falso che poi d'inverno vada a chiedere il cibo alla formica, sia perché la cicala si nutre di rugiada, dice Plinio (Nat. hist., XI, 32), sia perché non ha la bocca, ma una specie di piccola lingua con cui lecca la rugiada. Poi se la cicala si presentasse alla porta della formica il primo problema sarebbe quello della comunicazione, perché è noto che le formiche non parlano, o se parlano, parlano talmente piano che nessuno finora, anche con degli apparecchi acustici, è riuscito a sentirle. Mentre la cicala è abituata ad urlare, ed urla sempre la stessa canzone, che può avere diverse intonazioni da soggetto a soggetto o da luogo a luogo, ma fondamentalmente ripete sempre lo stesso concetto, che è un'affermazione, una specie di sì ripetuto, sì sì sì sì, che è anche il suo modo di pensare, che cioè tutto va bene, su tutti i fronti, e che al mondo ci vuole dell'ottimismo, e l'ottimismo ridà vigore ai mercati, la gente spende, i consumi aumentano, le industrie producono, è un circolo, e quindi si dimostra che l'ottimismo alla fine produce le condizioni per essere ottimisti. Infatti la cicala succhia la rugiada al mattino presto, poi quando non ce n'è più e si entra in una fase di depressione economica che gli analisti giudicherebbero nera, di lunga durata, perché è estate, c'è caldo e il sole potrebbe restare in cielo fermo e asciugare tutto per dei mesi, quindi chi avesse ancora della rugiada dovrebbe fare come la formica e metterla via, risparmiarla; ecco che invece la cicala salta su un ramo e si mette a dire di sì: sì sì sì sì, cioè a esprimere sinteticamente l'ottimismo, che la rugiada adesso manca ma tornerà, i mercati riprenderanno vigore, per dirla con il linguaggio degli analisti, e tutta la mattina la passa a dir sì, e questo è comprensibile, perché è ancora sazia e contenta, ma a mezzogiorno e nelle prime ore del pomeriggio, quando brucia di più il solleone e ci si aspetterebbe un prevalere della sfiducia, cioè la classica caduta dei titoli azionari e dell'indice MIB, più che mai la cicala grida il suo ottimismo, mentre la formica laggiù in terra con una diversa teoria di mercato fondata sull'accumulo dei beni primari nella prospettiva che tutto inevitabilmente a un certo punto andrà male e crollerà l'agricoltura, la zootecnia, la meteorologia sarà avversa eccetera, la formica come è noto lavora e risparmia, e non compera titoli in Borsa né fa mutui a tasso variabile o tenta di speculare su consiglio della sua banca che dice di far gli interessi del cliente ma in realtà fa i suoi, esclusivamente. Dal punto di vista della cicala, quella della formica è un'economia primitiva, che non tiene conto degli aspetti psicologici del mercato, e di come la ricchezza sia svincolata dall'effettivo possesso, quindi continua a gridare sì per tutto il pomeriggio, da tutti gli alberi, per chilometri e chilometri di campagna; questo sì, che fa venire mal di testa, si chiama frinire, il frinire delle cicale, che è come dire la loro scienza economica, la quale forse è più giusto chiamarla ideologia, tanto è ostinata e sincera, contro tutte le constatazioni di fatto, che cioè arde il sole, tutta la rugiada è evaporata e chi può dire se mai tornerà? Finché a forza di cantare a turno o in coro, confermandosi reciprocamente, e in modo che quando una smette un'altra attacca, e non ci sia mai calo dell'ottimismo economico, viene la sera, attaccano i grilli, che come è noto fanno cri cri, che significa crisi, i grilli sono obiettivi, si riferiscono alla giornata, che è crollata, la luce è crollata, le fonti di calore crollate, sono catastrofisti e gridano tutta la notte perché si faccia qualcosa o dal buio non si uscirà. Ma le cicale nel frattempo sono cadute addormentate (per la fatica di sostener l'ottimismo) e non sentono.
Le formiche dal canto loro hanno chiuso le porte e son là tutta notte che contano.
Poi viene l'aurora, poi l'alba, e su tutti gli alberi, sull'erba eccetera, c'è la rugiada, la quale è venuta in seguito all'ottimismo, senza ottimismo non ci sarebbe stata questa nuova euforia dei mercati (dove per mercati intendono l'erba) e la fiducia degli investitori (che non si sa chi sono), è un fatto psicologico, dicono le cicale, o pensano, perché quanto a dire, dopo aver mangiato e bevuto, riprendono a dire il loro perpetuo sì.
E così tutto luglio, agosto, un po' di settembre se fa ancora caldo, e ai primi freddi muoiono tutte; una catastrofe (dicono le formiche), un'ecatombe. Ma le cicale non lo vengono a sapere di questa loro ecatombe; non c'è uno storiografo, un Tucidide ad esempio, che sopravviva; e se ci fosse a chi lo racconterebbe?
Quindi mentre la formica rabbrividisce col metabolismo ridotto e rosicchia al buio i suoi sacchi di grano, nessuna cicala viene a bussare alla porta. Loro continuerebbero a dir sì anche nell'aldilà, ce l'avessero, ma è improbabile. E in ogni caso le cicale, prima di morire, nei pochi attimi di pausa dal sì, credendo di fare i loro bisogni escrementizi, con l'ovidotto hanno deposto sotto terra le uova; le quali aspettano tranquille che sia finita la grande depressione economica per ricominciare a giugno da capo col loro ottimismo inguaribile.

Ermanno Cavazzoni, Guida agli animali fantastici, Guanda, Parma, 2011



mercoledì 7 marzo 2012

Odori ... attimi

Gli odori possono essere molte cose. Gradevoli o repellenti, SENSAZIONI prodotte dalle emanazioni sottili di alcuni corpi sufficientemente volatili, AGENTI CHIMICI della percezione olfattiva, dell'emozione, della confusione e dunque degli incontri, MESSAGGERI INVISIBILI della memoria, delle premonizioni, dei gusti, dei disgusti, dei tentativi d'amore e degli imprevisti, gli odori glissano dal più intimo sentire al caos del mondo, aggirandosi vorticosamente dallo spazio al tempo e dalle cose agli esseri.

Li si può immaginare rutilanti e ciechi come gli atomi di Lucrezio. Oppure come scintillanti mediatori tra la Terra e il cielo.

E se gli odori fossero – come lo sono la Terra, il cielo e gli astri – Angeli? Dopo essermi forse illuso di aver lasciato i demoni alle spalle, non vorrei adesso affliggervi con gli Angeli. Ma, lettori cari, talvolta si ha l'impressione, lasciando la realtà virtuale ed odorando un fiore, di non essere più nel tempo. E nella gioia che sorge alle "porte della percezione", la Terra sembra un giardino da attraversare, un luogo splendido nell'immaginazione. Questi attimi forse non sono nel tempo: è come il fuori tempo di una coscienza che esplode e salta insieme agli Angeli. Che sono i messaggeri, gli arcobaleni, i ponti vuoti sui quali tuttavia passa l'annuncio dei mutamenti.

Gianni De Martino, Odori, Apogeo, Milano 2006

lunedì 5 marzo 2012

C'era una volta...un'idea

Vagava in una testa, dopo esser spuntata da una scarica elettrica tra due neuroni.

Nel suo vagabondare non sapeva di correre un grave rischio: altre scariche sarebbero arrivate e lei sarebbe scomparsa nel nulla, per sempre, senza nessuno che l’aiutasse a uscir fuori da quello strano luogo e a trovare un posto sicuro dove stare.

A un tratto da una penna scaturì un filo d’inchiostro grazie al quale la nostra piccola idea poté planare su una grande distesa di carta.

Finalmente, un attimo di pace…

Se ne stava lì tranquilla e diceva a sé stessa “che fortuna che ho avu…” e senza che ebbe finito di dirlo ecco che iniziarono a pioverle intorno altre idee e tutte si lasciavano scivolare sulla carta lungo fili e fili d’inchiostro, un acquazzone di idee!

La nostra piccola idea non si perse d’animo e andò incontro alle sue simili per capire chi fossero e che intenzioni avessero.

Quale fu lo stupore nello scoprire che poteva andare d’accordo con alcune e con altre no!

E tutte, come lei, cercavano in quello spazio bianco la giusta compagnia di altre idee con le quali potersi legare!

Così in breve tempo, muovendosi lungo la carta le idee formarono delle famiglie e ogni volta che una nuova idea si aggiungeva al gruppo esse iniziavano tutte insieme una danza per far posto alla nuova arrivata, a volte anche cambiando tutte di posto per trovare un modo più comodo di stare insieme!

Ma ahimè, alcune idee, pur affannandosi per tutto il foglio alla ricerca della propria famiglia, alla fine restarono da sole e una grande tristezza riempiva il loro cuore: emarginate da tutte le altre si fermavano in attesa della striscia nera d’inchiostro che scendeva a eliminarle per sempre.

Eppure ogni idea cancellata sa che il suo sacrificio non è vano ma consente alle altre di proseguire più speditamente…

Le idee superstiti, compresa la nostra piccola amica, furono trasferite su una piccola scala e ognuna si trovò il gradino migliore su cui stare.

Sembrava il cast di un grande show in preparazione!

Tutte si cambiarono d’abito, ognuna si agghindò per apparire al meglio abbigliandosi con le parole più adatte alla sfilata finale, dove le idee, vestite di tutto punto, poterono essere ammirate dai lettori…