lunedì 10 novembre 2014

Allo Spazio dell'Anima Torna il Convivio



Mettere in comune speranze e condividere immagini di mondi possibili è una fonte inesauribile di energie e di stimoli creativi.

Il Convivio è uno spazio libero in cui i soci della Scuola popolare di filosofia e cittadinanza si ritrovano una sera al mese e affrontano una questione che sta a cuore a uno di loro in stile filosofico. Un'occasione per praticare il dialogo e l'epoché facendo fluire nel gruppo il pensiero per il puro piacere di farlo. 


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Il Convivio di Novembre si terrà oggi lunedì 10 novembre 2014 dalle 20.30 alle 23.00. 



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venerdì 7 novembre 2014

Due falchi

Un grande re ricevette in dono due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al maestro di falconeria perché li addestrasse.  
Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.  “E l’altro?” chiese il re.  “Mi rincresce, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo”. 
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì nell’impresa di far  volare il falco. Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté far muovere il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere con grande rammarico e tristezza il falco immobile sull’albero, giorno e notte.  Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con immenso stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino.  “Portatemi il fautore di questo miracolo” ordinò.  Poco dopo gli presentarono un giovane contadino.  “Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?” gli chiese il re.  Intimidito e felice, il giovane spiegò:  “Non è stato difficile, maestà: io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare”.

A volte, l’Universo permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché possiamo renderci conto di avere le ali.

martedì 4 novembre 2014

Ogni palla, una decisione

Il primo a dirmelo è stato un amico che faceva il maestro di tennis quando avevo vent’anni. Per giocare bene a tennis non bisogna essere troppo intelligenti. E’ stata una specie di rivelazione a cui ho continuato a pensare. Ma come, essere intelligenti non è sempre un vantaggio? La sua spiegazione era convincente eppure non riuscivo a capacitarmi che l’intelligenza potesse essere un ostacolo. 
Invece è proprio così. Sentite che ne dice un campione come Andre Agassi: “Pensare è il peccato capitale. Pensare, così la vede mio padre, è la causa di tutti i mali, perché pensare è il contrario di fare. Quando papà mi scopre a pensare, a sognare a occhi aperti, sul campo da tennis, reagisce come se mi avesse sorpreso a rubare dal suo portafoglio. Spesso mi chiedo come si faccia a smettere di pensare. Mi domando se mio padre mi grida di smettere di pensare perché sa che sono un pensatore per natura. O sono stati tutti i suoi strilli a fare di me un pensatore?” (…)
Torturato fin da quando era piccolissimo da un padre dispotico e ossessivo che gli impedisce di vivere una vita normale, il piccolo Andre non può giocare con i fratelli o gli altri bambini. Il padre lo obbliga a giocare nel campo da tennis che lui stesso ha costruito nel giardino della loro casa, circondata dal deserto, alla periferia di Las Vegas. Il tennis è uno sport maledettamente solitario” scrive Agassi: “Di tutti gli sport praticati da uomini e donne, il tennis è il più simile all’isolamento carcerario, il che porta inevitabilmente a parlare da soli”.
(…)
Ma (…)  E’ vero che per giocare bene a tennis bisogna essere stupidi? Agassi lo impara a sue spese nelle competizioni internazionali: “Mi supplico di non pensare a quello che può succedere. Non pensare, Andre. Spegni il cervello”. Oppure si trova a invidiare il suo più ostico avversario, Pete Sampras per la sua ottusità e per la sua “straordinaria mancanza di ispirazione”.
Per lui invece “milioni di palle” corrispondono a “milioni di decisioni” e già in questo c’è qualcosa che non va perché pensare ti rallenta. Per vincere devi essere puro istinto, una specie di automa, proprio come il drago sputapalle contro cui si allenava da bambino.
D’accordo, ma Agassi che per 21 anni è stato un numero uno, andando ben oltre quello che un campione può fare, sembra essere proprio la dimostrazione del contrario. E’ grazie alla sua straordinaria intelligenza che è riuscito a vedere i difetti dei suoi avversari e a giocare sfruttandoli a suo vantaggio: il suo gioco era frutto di una mente raffinatissima e allenata.

Tra una palla e l’altra lui si è fatto mille domande su se stesso e il senso della vita, mentre stava nel pieno della tensione tra vincere e perdere. Il segreto del suo successo non è forse in quelle milioni di palle che erano altrettante decisioni? Quelle palle sono state davvero rallentate dal pensiero o potenziate dall’intelligenza che le muoveva? Che ne dici di questo Andre? Voi che ne dite? La questione è da meditare.

Tiziana Zita, Per giocare bene a tennis bisogna essere stupidi 

Open di Andre Agassi  Post Pubblicato il 30 settembre 2014


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lunedì 3 novembre 2014

Filosofia, pratica e autobiografia

Conta trovare una verità che sia verità per me, trovare l'idea per cui io voglia vivere e morire. E a che mai gioverebbe escogitare una cosiddetta verità oggettiva, misurarmi coi sistemi dei filosofi e poterli passare casomai in rassegna sì da poter svelare incoerenze entro ogni singola sfera? A che mi gioverebbe poter sviluppare una teoria politica e dai vari pezzi raccattati ovunque combinare una totalità, costruire un mondo in cui a mio turno non vivrei, ma che terrei semplicemente esposto alla vita altrui? A che mi gioverebbe poter sviluppare il significato del cristianesimo, poterne spiegare tanti singoli fenomeni, se non avesse qualche significato più profondo per me stesso e per la vita mia? (...) Non voglio negare no che ammetto ancora un imperativo della conoscenza e che mediante essa si possa anche agire sugli uomini, ma allora dev'essere assunta viva in me, ed è questa che ora riconosco come l'essenziale


Sören Kierkegaard "Dalle carte di uno ancora in vita, edite contro il suo volere da Sören Kierkegaard", a cura di Dario Borso, Morcelliana

giovedì 4 settembre 2014

Domande del nostro tempo


Cosa sta accadendo?

Una crescente e oppressiva inquietudine ha accompagnato questa estate: la confusa percezione che qualcosa stia accadendo di cui generalmente sfugge il senso e l’entità.
Su questa parte del mondo che ci appare la più protetta, logorata tuttavia da un malessere da cui non si vede uscita, si riversano, lungo le vie mediatiche da cui il villaggio planetario è attraversato, immagini feroci di guerra. Contemporaneamente, sulle spiagge che di questo nostro mondo segnano il confine, lungo un mare che torna a essere metafora dell’ignoto, a riversarsi sono persone in carne ed ossa, come a testimoniare la realtà di orrori da cui ci sentiamo al momento risparmiati.

Una terza guerra mondiale a pezzi, ha detto il Papa, dando nome a ciò che nessuno osava nominare. Consentendo così a ciascuno di misurarsi con l’incommensurabile.

Quel che si può dire è che storie diverse, con radici che talora affondano nei secoli, si sono messe simultaneamente in moto, e la loro compresenza, sulla scena di questo nostro tempo, contribuisce a dar forma all’enigma che lo avvolge. Cosa ha in comune l’inestinguibile conflitto israelo-palestinese con l’apparente follia di chi ha proclamato il Califfato? E con l’impensabile confronto diretto tra Occidente e Russia in Ucraina? A cent’anni dalla prima guerra mondiale, una nuova contesa si è aperta per il dominio planetario? E, se sì, chi sta combattendo e contro chi?

Oppure si tratta di una guerra di diverso tipo, per lo più invisibile, dentro la quale siamo già da tempo? Di cui la crisi economica è parte, come quella educativa, e anche la bioetica? Non sarà che le distruzioni che vediamo altrove si consumano anche qua, sebbene in altra forma?


martedì 29 luglio 2014

Tempo di viaggi, mezzi di trasporto e ...un padre



Negli albi illustrati per ragazzi il tema del “cammino”, inteso sia come percorso da compiere concretamente per attraversare uno spazio sia come itinerario esistenziale necessario alla crescita è frequentatissimo. Direi anzi che, sottotraccia, lo si trova, declinato attraverso modi e linguaggi diversissimi fra loro, praticamente in quasi tutte le storie per parole e immagini destinate ai bambini.

Direi anzi che, sottotraccia, lo si trova, declinato attraverso modi e linguaggi diversissimi fra loro, praticamente in quasi tutte le storie per parole e immagini destinate ai bambini. Ho in mente tre libri che svolgono questo tema in modo particolare, ossia prendendolo alla lettera, come fosse un assioma, e divertendosi poi a valutarne la tenuta, portandolo alle estreme conseguenze.  (...)


Oggi scrivo del primo di questi libri, in ordine cronologico, cioè L'uomo del camion, nel 1945. In copertina, sotto al titolo in blu, un grande pacco bianco e rosso, su cui risaltano grandi ditate scure.

In questo periodo, in cui si sente parlare spesso di padri assenti, di società senza padri, questo albo limpidissimo, che funziona come un orologio svizzero, chiarisce alcuni semplici, ma fondamentali concetti. Protagonista del libro è, come scrive Munari, “Marco, l'uomo del camion” che “vuole andare a trovare il suo bambino in occasione del suo terzo compleanno”.


Marco “prende il camion e parte. Ma al decimo chilometro il camion si ferma”. La doppia pagina mostra al lettore un signore appoggiato al cofano di un grande camion giallo; accanto a lui c'è il pacco annunciato in copertina. Il testo prosegue: “Marco resta un poco con la testa fra le mani, poi apre il camion e”. A questo punto, si volta pagina. Il pacchetto, come si nota, nel testo non è nominato, appare solo nell'immagine. E così sarà fino alla penultima pagina del libro.


Nella pagina successiva vediamo invece una bella auto verde, da cui Marco sta uscendo, tenendo il pacchetto nella mano destra. Il testo, rimasto in sospeso, continua: “tira fuori un'auto. Monta sull'auto e via. Ma al nono chilometro l'auto si ferma, Marco scende dall'auto, la smonta e tira fuori una” … fiammante moto rossa, ci mostra l'illustrazione di pagina successiva, prima ancora che leggiamo il testo.

Così, di chilometro in chilometro, in una conta alla rovescia ben segnalata al lettore dal paracarro posto lungo l'invisibile strada che accompagna il viaggio, posizionato al centro di ogni doppia pagina, il libro prosegue, con il testo che con pochissime variazioni segue il medesimo schema.



Marco, scopriamo, via via sperimenta un progressivo abbandono da parte dei mezzi su cui sale e che si ingegna di trasformare per arrivare a casa: un camion, un'auto, una moto, una bici, un monopattino, i pattini a rotelle, alla fine le scarpe. Tutti lo lasciano per strada, persino le scarpe, a cui si sciolgono i lacci, come se un incantesimo, proprio come accade nelle fiabe, gravasse sulla consegna del dono e sull'incontro dell'uomo con il suo bambino.

Il ritmo e la tensione di questa sequenza narrativa derivano dalla compresenza di cambiamento e stabilità, ripetizione e imprevisto: quello che cambia costantemente nel libro sono non solo i mezzi di trasporto, ma anche il formato delle doppie pagine che li contengono, che via via cambiano: da grandi a piccole e da piccole di nuovo a grandi, seguendo prima il rimpicciolirsi delle dimensioni dei mezzi di trasporto e poi l'aumentare della contentezza di Marco man mano che si avvicina a casa.


Quello che invece rimane sempre uguale, anche se il lettore lo trova in punto sempre diverso dell'illustrazione, è il misterioso regalo. In mezzo, a fare da trait d'union, punto di equilibrio fra cambiamento e stabilità, imprevisto e soluzione, c'è l'uomo del camion in movimento costante,  felicemente impegnato a tenere insieme l'ordine delle cose scompaginato dal caos e reimpaginato dalla sua fantasia nel trovare soluzioni, in funzione della meta finale. Il suo movimento si traduce, infatti, in una progressiva riduzione di distanza da casa, in barba ai guasti al motore, alle rotture degli assi, alle ruote forate o perse. Alla fine, infatti, Marco, a piedi nudi, arriva davanti alla porta di casa e suona alla porta.

Munari, sublime inventore di libri e conoscitore di bambini, affida al lettore il compito di aprire la porticina che si apre nella pagina.

Dietro appare il tanto atteso bambino. Il testo, nascosto dietro al battente della porta, recita:

“Oh! ciao papà!
ciao ciao
ciao ciao ciao.

E tutti furono felici.

Ma cosa c'era in quel pacchetto?”


Da cosa si misura la bravura di un autore di libri illustrati?

Dal fatto, per dirne una, che sa che il bambino protagonista del libro, in cui il lettore si immedesima, è contento, più di ogni altra cosa, di vedere il suo papà. Ma che sa anche che il bambino che sta leggendo il libro, e per cui il libro è stato scritto, è curiosissimo di sapere cosa ci sia nel pacchetto di cui sta seguendo le peripezie fin dalla prima pagina. Ed è a lui, infatti, che si rivolge la voce fuori campo in grassetto, nel testo. Perché se questa è la storia di un papà che deve farcela ad arrivare a casa in tempo per festeggiare il compleanno del figlio, è anche quella di un regalo che deve rivelare il suo contenuto, perché non c'è maggiore sorpresa, per un bambino, di quella di un regalo.



Con un colpo da maestro, infatti, Munari regala al lettore un'altra pagina, dopo avergli fatto credere che il libro si fosse concluso con l'aurea fine di tutte le storie: “E tutti furono felici”. Quello che aspetta il lettore è un secondo finale, che arriva come una inattesa, e perciò più grande, sorpresa: una pagina che in uno schema circolare riprende quella in copertina, dove campeggia il pacchetto chiuso su sfondo bianco. Anche in questo caso, il piacere concreto di aprirlo per scoprire cosa contenga è lasciato al lettore, proprio come se, fin dall'inizio, fosse stato lui il suo destinatario ideale.

Che cos'è un padre? A stare a Marco, padre non ordinario non solo per il 1945, ma anche per il 2014, è un signore che fa di tutto, anche camminare a piedi nudi, per arrivare dal suo bambino il giorno del compleanno; che esercita la funzione fondamentale della guida, non solo in senso letterale, e non solo di un camion o di una automobile, ma anche di un monopattino e sa quando è il momento di guidare gli uni e l'altro; che sa accettare il caso e gli imprevisti senza avvilirsi troppo e perdere la pazienza; che trova il modo di risolvere le cose con immaginazione; che sorride al pensiero di rivedere il suo bambino; che non pensa sia importante regalare qualcosa di grosso e costoso, ma preferisce piccoli oggetti diversi, quanti forse sono stati i pensieri che ha rivolto al bambino mentre era lontano; che non teme di mostrarsi al figlio come è, senza camion e stringhe, perché sa che quello che conta per il bambino è la sua presenza; che sa che una sorpresa è una cosa molto seria per un bambino; che sa che un bambino quando è felice dice ciao sei volte, preceduti da un Oh e seguiti da tanti punti esclamativi; che a un lieto fine ne sa fare seguire subito un altro, ancora più sorprendente, perché sa che la felicità è una cosa importante che grandi e piccoli costruiscono insieme, vicini e lontani, legati dalla fiducia reciproca.



di Giovanna Zoboli  su Doppiozero

mercoledì 9 luglio 2014

Diario Londinese di un piccolo genio


Il tutore ha dichiarato bancarotta e io mi sono ritrovata a Londra senza una lira, buttata fuori da una pensione alla quale avevo detto che avrei ricevuto certamente i soldi. Non avevo neanche i soldi per mangiare. Un giorno sono entrata in un ristorante e ho detto che avrei lavorato se mi davano da mangiare. Così ho trovato un lavoro da lavapiatti. Dopo un po’, visto che la notte leggevo e disegnavo, ho pensato che il mio futuro non poteva essere quello di lavare i piatti e che forse potevo andare all’università. Sono andata in un’accademia d’arte dove sapevo che ci andavano i più grandi pittori e scultori. Sono arrivata lì ma non mi hanno accettato perché ero arrivata il giorno prima che aprisse, bisognava fare un esame di ammissione, riempire dei moduli. Io ho urlato tanto che è venuto fuori un signore. Doveva essere un uomo delle pulizie perché era in maniche di camicia con sopra le bretelle. Lui ha chiesto: “Ma che cosa succede?”
“Io voglio parlare col direttore”: gli ho detto:
“Perché vuole parlare col direttore?”
“Perché gli voglio far vedere i miei disegni e perché vorrei frequentare questa università”.
“E come mai?”
“Perché io sono un genio!”
Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto di seguirlo. Ha guardato i miei disegni e mi ha detto: “Va bene, da domani può essere nostra alunna”.
“Sì, ma vorrei sapere che cosa dice il direttore”.
“Ma sono io il direttore!”
“In Italia un direttore non si presenta in questo modo”.
“E come si presenta?”
“Con una bella giacca a doppio petto, con i bottoni…”
E lui ha detto: “Ma in Italia un direttore non assumerebbe una come lei in due minuti senza riempire i moduli, fare l’esame d’ammissione e senza conoscere bene la lingua”.

Così sono entrata alla Slade School of Art, dove c’erano insegnanti e allievi interessanti. Gli studenti erano vestiti in modo originale e le ragazze erano bellissime, con dei vestiti a fiorellini e le scarpette da ballo.
Poi un giorno, girovagando per l’università, vedo tante porticine, ognuna con una scritta sopra: club di tennis, di swimming pool, di scacchi. Sull’ultima porticina c’era scritto “Film Club”. Ho aperto e ho visto del materiale che brillava come un tesoro: la macchina da presa, le pizze, i cavalletti, le luci. C’era tutto quello che serve per fare un film. Un po’ alla volta ho rubato tutto. Mi sono portata tutto nella mia stanza e poi ho fatto un film. Non avevo soldi per cui ho girato per la strada, dove ho trovato le persone adatte. Michael Andrews, un mio compagno che era un pittore bellissimo, giovanissimo e molto delicato, è diventato l’eroe del film.
Nella mia stanza avevo appeso un’immagine di Franz Kafka perché come me aveva uno sguardo terrorizzato. Ed è su La metamorfosi di Kafka che ho fatto il film. Naturalmente ho dovuto stampare, sviluppare, fare la musica, il sonoro. Così sono andata in un laboratorio lì vicino e ho detto che dovevano stampare tutto per l’università. L’uomo del laboratorio mi ha detto: “Ma questo costa un sacco di soldi!” Gli ho detto che avrebbe pagato l’università e ho dovuto firmare un bel po’ di fogli. Poi sono andata a ritirare il film.
In seguito quei soldi sono stati chiesti al direttore dell’università.
Lui ha protestato: “Ma noi non abbiamo fatto nessun film! Chi ha firmato tutte queste carte?” “Una ragazzina italiana che parla inglese con la erre moscia”.
Perciò il direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se intendessi pagare. Mi ha detto che a Londra si va in prigione per queste cose. Gli ho risposto che non avevo una lire, che facevo la cameriera.

“Allora devi andare in prigione”: mi ha detto lui.

“Va bene, vado in prigione”: ho detto io e me ne sono andata.
Lui allora mi ha rincorso e mi ha detto: “Ora facciamo vedere questo film a tutta la scuola nell’aula magna. Se applaudono paghiamo noi, se fischiano vai in prigione”.

E’ stato deciso un giorno. Io ho passato tutto il tempo a vomitare, attendendo quel momento e intanto riguardavo il film che mi sembrava bruttissimo. L’aula magna era piena. Mi ero messa in alto, nascosta dietro a una colonna, quando le luci si sono accese e ho sentito che applaudivano. Non solo. Avevano anche chiamato il direttore del British Film Institute, Denis Forman, che alla fine è venuto su e mi ha chiesto:
“Vuole fare un film senza andare in prigione?” Io ho risposto di sì.

“Venga domani al British Film Institute con un’idea scritta su una paginetta. Bastano poche righe. Alle cinque le offro una tazza di tè”. Il giorno dopo alle cinque mi sono precipitata all’appuntamento e in effetti c’era un tavolinetto davanti alla scrivania, con sopra il tè, la teiera fumante e dei biscottini. Ma quando lui mi ha chiesto di dargli la paginetta ero così emozionata che ho urtato il tavolino e il tè bollente è caduto sulla sua gamba. Ho visto la gamba che fumava. Ero paralizzata e ho cominciato a urlare di scusarmi, ma lui mi ha detto sorridendo: “Non si preoccupi, la gamba è di legno”. “Ho lasciato la mia gamba a Cassino”. Allora l’ho abbracciato forte.


Lorenza Mazzetti è tra i fondatori del Free Cinema, di cui sono espressione i suoi film K (1953) e Together (1956). Regista e scrittrice, la sua vicenda personale è narrata nei libri Il cielo cade del 1961 e Diario londinese, pubblicato da Sellerio. 


venerdì 4 luglio 2014

Buon Gusto


Sta cominciando una cosa, a Parma, che si chiama Taste of Future, e che vuole accreditare, come si dice, Parma come «Città del buon gusto». Siccome la cosa la fanno a Parma, ed è pubblicizzata dal comune di Parma, a me sembrerebbe una cosa di dubbio gusto il fatto di dire di sé «Noi siamo la città del buon gusto», se non fosse che io, ogni volta che sento parlare di Buon gusto, mi viene in mente, a parte quel fincipit che dice «Una rotonda sul mare, è mia sorella che nuota», a parte quello, quando sento parlare di Buon gusto mi viene in mente un saggio di Gleizes e Metzinger del 1912, se non ricordo male, che si intitola Du cubisme, Sul cubismo, se non ricordo male, e in quel saggio lì i due pittori cubisti Gleizes e Metzinger scrivevano che era finita l’era del buon gusto e del cattivo gusto e che c’era solo il gusto. Nel 1912, 102 anni fa.




lunedì 30 giugno 2014

Filosofia d'estate allo Spazio dell'Anima

Nel mese di luglio 2014 per tre lunedì - il 7, il 14 e il 21 alle 19,30 allo Spazio dell'anima  - in via Carlo Denina 72 - la Società Italiana per la Filosofia in Pratica e la Scuola popolare di filosofia e cittadinanza ospitano tre autori che appassionatamente praticano la filosofia. 
Arcangela Miceli con Ludosofia,  Moreno Montanari con Vivere la filosofia e Nicoletta Poli con Vite contro vento.

se sei interessato contattaci info@spazidellanima.it



mercoledì 11 giugno 2014

Vagueness e razionalità


La razionalità, etica e storica, della quale ha bisogno il XXI secolo, non è più soltanto quella della "precisione" (Peirce) che delimita costantemente per meglio definire, che misura e commisura. Il semiologo Peirce ha anzi suggerito, nel XIX secolo, che una «indeterminazione» iniziale è più comprensiva della precisione: si tratta di affinare una vagueness capace non solo di dedurre ma anche di antivedere; vagueness dunque e «chiaroveggenza» sono l'orizzonte del nostro comprendere e giudicare, agire rispettando ed eludendo, in un'«agilità dell'immaginazione creatrice» che sembra davvero prossima ai Six memos di Italo Calvino.

Ogni razionalità, secondo Peirce, implica, mette in gioco. e si fa responsabile di futuro: "La conclusione di un vero Ragionamento deve rinviare al Futuro. Dal momento che la sua significazione rinvia all'agire e poiché si tratta di una conclusione ragionata  essa deve rinviare a un comportamento meditato, che è una condotta controllabile» (Peirce, Issues of Pragmaticism)".

Da Carlo Ossola "L'imprecisione ha la sua Forza" Domenica 24, 24 giugno 2014


martedì 3 giugno 2014

La storia dell'ego



Un giorno Dio fu sorpreso di ricevere dall’Ego la richiesta di un incontro. Essendo amorevole e compassionevole, gli concesse un appuntamento.
Quando l’Ego fu alla Sua presenza, prima che parlasse, Dio gli chiese: “Perché sei così triste e angosciato? Cosa ti turba?” L’Ego rispose: “Santità, come posso non essere triste quando tutti, su Vostro comando, cercano di eliminarmi? Vi prego, aiutatemi!” Dio ebbe compassione e chiese: “Cosa posso fare per te?” L’Ego rispose: ”Santità, comandate che smettano di farlo!” Dio disse: “Mi spiace davvero, ma non posso, perché non sarebbe bene per te. Fammi piuttosto un’altra richiesta”. L’Ego disse: “Maestà, se non volete esaudirmi, allora fatemi questo dono: qualsiasi metodo, qualsiasi farmaco le persone creino per eliminarmi, diventi cibo per la mia sopravvivenza”. Dio, essendo amorevole e compassionevole, acconsentì a quella richiesta, ma aggiunse: “Ricordati che, nel momento in cui le persone smetteranno i loro sforzi per eliminarti, allora morirai”.

L’Ego, soddisfatto, ritornò sulla terra. Divenne molto forte e potente. Ogni metodo escogitato per eliminarlo diveniva per lui cibo, perciò era invincibile. Finché le persone si sforzavano di eliminarlo, non aveva motivo alcuno di preoccuparsi, e se ne stava sereno e indisturbato. Invece coloro che avevano cercato invano in ogni modo di ucciderlo, e vivevano una grande frustrazione, chiesero infine udienza a Dio, che la concesse immediatamente. Quando furono alla Sua presenza, chiese loro: “Perché siete tutti tristi e preoccupati? Cosa vi turba?” Ed essi risposero: “Santità, ci avete comandato di eliminare l’Ego: abbiamo provato con tutti i mezzi, ma senza successo. Al contrario, più ci proviamo, più diviene forte. Non sappiamo più cosa fare: per favore, aiutateci!” Dio ebbe compassione di loro, e disse: “ I vostri metodi e i vostri sforzi producono nuova vita per l’Ego e lo rendono sempre più forte. D’ora in poi non praticate alcun metodo e non fate alcuno sforzo per eliminarlo. Si estinguerà da sé”.

Obbedendo alle istruzioni di Dio, le persone smisero di sforzarsi per eliminare l’Ego. L’assenza di sforzo consentì alla mente di rilassarsi e condusse al completo silenzio. Quel silenzio fece comprendere all’Ego che la sua fine era vicina ed ebbe paura. Immediatamente chiese di essere ricevuto da Dio, che lo accolse prontamente.
Quando fu al Suo cospetto, Dio gli chiese:” Ego, cosa ti preoccupa?” L’Ego rispose: “Maestà, la mia vita è in pericolo. Le persone non stanno facendo più alcuno sforzo per eliminarmi. Temo che la mia fine sia vicina. Per favore, aiutatemi!” Dio gli chiese: “Cosa posso fare per te?” L’Ego rispose: “Santità, non voglio morire. Dite a tutti di sforzarsi in ogni modo di eliminarmi, così che io possa sopravvivere!” Dio disse: “Mi spiace, non posso, perché non sarebbe bene per te. Fammi piuttosto un’altra richiesta”.  L’Ego disse: “O Dio pietoso e compassionevole, il mio unico desiderio è di vivere permanentemente. Concedimi la vita eterna!” Dio ebbe compassione e gli disse: “Ego, non temere. Quando le persone non fanno alcuno sforzo per eliminarti, esse realizzano che ciò che tu stai in realtà cercando sono Io, la Vita Eterna; solo che Mi stai cercando nella direzione sbagliata. Anche tu comprenderai che la tua reale vocazione è servire Me, e non i tuoi scopi. Solo morendo all’ignoranza potrai scoprire la tua vera vocazione, cioè la Vita Eterna. Rinuncia all’ignoranza e abbandonati a Me; in questo modo diverrai il Mio veicolo. Il tuo desiderio di divenire giungerà alla fine e potrai manifestare in te e attraverso te la Mia vita, così come la Luna manifesta la luce del Sole. Questo modo di vivere si chiama dispiegamento. Significa manifestare le Mie qualità nelle relazioni. In questo modo tu vivrai in eterno, servendo Me”.

L’Ego era davvero felice e ritornò sulla terra. Ora tutti si accorsero che  era silenzioso, ma senza di lui si ritrovarono incapaci di relazionarsi nel mondo. Essi avevano bisogno dell’Ego. Perciò chiesero nuovamente di essere ricevuti da Dio, che subito acconsentì. Quando furono al Suo cospetto, Egli chiese loro: “Cosa vi preoccupa?” E loro risposero: “Maestà, abbiamo scoperto di aver bisogno dell’Ego per operare nel mondo. Senza Ego siamo come una stanza senza porta. Per favore, aiutateci!” Dio rispose: “Scopo dell’Ego è servire Me, dispiegare la Mia vita, non il divenire. Dialogate con l’Ego, rendetelo capace di comprendere la sua vera vocazione e aiutatelo ad abbandonarsi a Me”.

Tutti furono felici e tornarono sulla terra a dialogare con l’Ego. L’Ego, che già conosceva la sua vocazione, rinunciò all’ignoranza e si abbandonò a Dio. Egli divenne il veicolo di Dio e ricevette il dono dell’immortalità: la Vita Eterna.


http://www.interdependence.eu/newsletter/88-testi/riflessioni/471-tre-parabole.html

venerdì 30 maggio 2014

L'erba è verde


Dicono che certi batteristi rock degli anni Settanta si rinchiudessero intere settimane nei magazzini della Zildian o della Paiste per scegliere i piatti migliori. Mi immagino, che so, quel matto di John Bonham (Led Zeppelin) o Ginger Baker (Cream) giornate a provare i piatti, a farli cantare per scegliere la fusione più riuscita, quella dal suono perfetto. Poi, alla fine, tutto viene scartato, rimane solo il piatto, il suono.

Come i batteristi anche Goffredo Parise con i Sillabari è andato alla ricerca del suono migliore, perfetto, nel quale la realtà si compie. Lo ha fatto dopo un lungo percorso, anzi una complessa peregrinazione che lo ha portato ad “ascoltare” tanti suoni, dai romanzi non neorealisti in epoca neorealista, ai grandi reportages dai mondi socialmente e politicamente più impervi del pianeta, alle polemiche civili in cui, se partecipavi, farsi male era un rischio concreto, sino a giungere all’individuazione delle essenze quasi minerali dei Sillabari. Quando uscì il primo, 1972, era un’epoca di turbolenze in ogni piano della realtà, ma un giorno, scrive Parise, “nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l’erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel l’erba è verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia. Pensai a Tolstoj che aveva scritto un libro di lettura non soltanto per bambini e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini, pensai che essi avevano scordato che l’erba è verde,che i sentimenti dell’uomo sono eterni e che le ideologie passano”. Di qui nascono quelle piccole prose fatte di versi, tratti lievi e nitidissimi, con cui Parise racconta le emozioni più complesse e sottili. È il suono perfetto che si produce quando percuote il mondo, toccandolo o sfiorandolo appena, e ne fa scaturire una sorta di sintesi assoluta. Come alla ricerca dell’armonico naturale, sempre per restare nella metafora musicale, quel suono che scaturisce dallo sfiorare appena la corda della chitarra con la mano sinistra, un suono lungo e calmante, usato spesso come conclusivo e definitivo, “un amalgama in cui al suono fondamentale se ne aggiungono altri più acuti e meno intensi” (Wikipedia).

Quando fu pubblicato Sillabario n.1 l’autore fu maltrattato, agli intellettuali “in lotta” lui appariva come un inutile gagà, un personaggio dei romanzi di Maugham, uno che amava le lenzuola di seta del Ritz di Parigi. E lo diceva pure. E scriveva di cose evanescenti, sfumate, impercettibili, di sentimenti, di atmosfere inutili e vaghe. I suoi personaggi e i paesaggi in cui si muovevano erano dei disadorni un uomo, una donna, un bambino, una città italiana, una località di mare, dei campi, i tempi erano un giorno, un inverno. D’altro canto lo aveva dichiarato, il suo programma “non politicizzato” era di “scrivere dei racconti e dei libri possibilmente buoni, fare con estrema coscienza e sincerità e amore il mio lavoro. Tendere sempre con tutte le mie forze alla tanto disprezzata ‘poesia’, cioè a quella parte ‘alta’ dell’uomo in cui credo e su cui ho fondato la mia vita, perché essa è servita a lenire tanti dolori nella passata e presente storia dell’uomo” (“Il Gazzettino”, 31.10.1972).


È molto probabile che diversi tra quegli intellettuali che “militavano” leggessero Parise sotto le coperte per non farsi vedere da nessuno, è possibile che quel richiamo alle cose fondamentali degli uomini non sfuggisse proprio a tutti, non è pensabile che un tale amore per le delicatezze degli esseri umani passasse e andasse così stupidamente perduto. Ma non si poteva dire, non si poteva sostenere, quella di cui parlava Parise semmai era la strategia, il fine, il che cosa a cui tendere, ma in quel momento, nel fuoco sociale dei Settanta, era la tattica a dominare, il come “battere il nemico di classe”. C’è voluto almeno un decennio prima che i Sillabari fossero capiti. Così Giovanni Giudici, un poeta, non per caso, di Sillabario n. 2,“testo non labile in un’era dominata dalla labilità”, diceva: “Niente [...] è più ‘bello’ di una scrittura (e quella di Parise mi sembra tale) che nel mare della lingua umiliata dalla chiacchiera, mortificata dalla retorica, ridicolizzata dalla muscolarità dei mattatori, riesca a carpire, a ‘tradurre’, a incidere nel cuore del lettore il segno delle sue pur lievissime unghiate. Quanto meno pretende di ‘dire’, anzi ‘stradire’, tanto più essa ‘è’” (“L’Espresso”, 27.6.1982).

Tratto da Moretti e Parise, cercatori di suoni di Mauro Portello

www.doppiozero.it

mercoledì 28 maggio 2014

Pietre che cadono


L’universo tutto intero non è che una massa compatta di obbedienza. Questa massa compatta è disseminata di punti luminosi. Ciascuno di questi punti è la parte soprannaturale di un’anima di una creatura ragionevole che ama Dio e che consente ad obbedire. 

Il resto dell’anima è prigioniero della massa compatta. Gli esseri dotati di ragione che non amano Dio sono soltanto frammenti della massa compatta ed oscura. Anch’essi sono tutti interi obbedienza, ma solo al modo di una pietra che cade. Anche la loro anima è materia, materia psichica, sottoposta a un meccanismo altrettanto rigoroso quanto quello della forza di gravità. Anche la loro credenza nel proprio libero arbitrio, le illusioni del loro orgoglio, le loro sfide, le loro rivolte, tutto ciò non sono che fenomeni altrettanto rigorosamente determinati quanto la rifrazione della luce. Considerati in tal modo, come materia inerte, i peggiori criminali fanno parte dell’ordine del mondo e di conseguenza della bellezza del mondo. 

Tutto obbedisce a Dio, e di conseguenza tutto è perfettamente bello. Sapere questo, saperlo realmente, è essere perfetti come il Padre celeste è perfetto.


Simone Weil, Discesa di Dio, in La Grecia e le intuizioni precristiane, ed. it. Borla, Torino 1967, pp. 249-250