mercoledì 9 luglio 2014

Diario Londinese di un piccolo genio


Il tutore ha dichiarato bancarotta e io mi sono ritrovata a Londra senza una lira, buttata fuori da una pensione alla quale avevo detto che avrei ricevuto certamente i soldi. Non avevo neanche i soldi per mangiare. Un giorno sono entrata in un ristorante e ho detto che avrei lavorato se mi davano da mangiare. Così ho trovato un lavoro da lavapiatti. Dopo un po’, visto che la notte leggevo e disegnavo, ho pensato che il mio futuro non poteva essere quello di lavare i piatti e che forse potevo andare all’università. Sono andata in un’accademia d’arte dove sapevo che ci andavano i più grandi pittori e scultori. Sono arrivata lì ma non mi hanno accettato perché ero arrivata il giorno prima che aprisse, bisognava fare un esame di ammissione, riempire dei moduli. Io ho urlato tanto che è venuto fuori un signore. Doveva essere un uomo delle pulizie perché era in maniche di camicia con sopra le bretelle. Lui ha chiesto: “Ma che cosa succede?”
“Io voglio parlare col direttore”: gli ho detto:
“Perché vuole parlare col direttore?”
“Perché gli voglio far vedere i miei disegni e perché vorrei frequentare questa università”.
“E come mai?”
“Perché io sono un genio!”
Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto di seguirlo. Ha guardato i miei disegni e mi ha detto: “Va bene, da domani può essere nostra alunna”.
“Sì, ma vorrei sapere che cosa dice il direttore”.
“Ma sono io il direttore!”
“In Italia un direttore non si presenta in questo modo”.
“E come si presenta?”
“Con una bella giacca a doppio petto, con i bottoni…”
E lui ha detto: “Ma in Italia un direttore non assumerebbe una come lei in due minuti senza riempire i moduli, fare l’esame d’ammissione e senza conoscere bene la lingua”.

Così sono entrata alla Slade School of Art, dove c’erano insegnanti e allievi interessanti. Gli studenti erano vestiti in modo originale e le ragazze erano bellissime, con dei vestiti a fiorellini e le scarpette da ballo.
Poi un giorno, girovagando per l’università, vedo tante porticine, ognuna con una scritta sopra: club di tennis, di swimming pool, di scacchi. Sull’ultima porticina c’era scritto “Film Club”. Ho aperto e ho visto del materiale che brillava come un tesoro: la macchina da presa, le pizze, i cavalletti, le luci. C’era tutto quello che serve per fare un film. Un po’ alla volta ho rubato tutto. Mi sono portata tutto nella mia stanza e poi ho fatto un film. Non avevo soldi per cui ho girato per la strada, dove ho trovato le persone adatte. Michael Andrews, un mio compagno che era un pittore bellissimo, giovanissimo e molto delicato, è diventato l’eroe del film.
Nella mia stanza avevo appeso un’immagine di Franz Kafka perché come me aveva uno sguardo terrorizzato. Ed è su La metamorfosi di Kafka che ho fatto il film. Naturalmente ho dovuto stampare, sviluppare, fare la musica, il sonoro. Così sono andata in un laboratorio lì vicino e ho detto che dovevano stampare tutto per l’università. L’uomo del laboratorio mi ha detto: “Ma questo costa un sacco di soldi!” Gli ho detto che avrebbe pagato l’università e ho dovuto firmare un bel po’ di fogli. Poi sono andata a ritirare il film.
In seguito quei soldi sono stati chiesti al direttore dell’università.
Lui ha protestato: “Ma noi non abbiamo fatto nessun film! Chi ha firmato tutte queste carte?” “Una ragazzina italiana che parla inglese con la erre moscia”.
Perciò il direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se intendessi pagare. Mi ha detto che a Londra si va in prigione per queste cose. Gli ho risposto che non avevo una lire, che facevo la cameriera.

“Allora devi andare in prigione”: mi ha detto lui.

“Va bene, vado in prigione”: ho detto io e me ne sono andata.
Lui allora mi ha rincorso e mi ha detto: “Ora facciamo vedere questo film a tutta la scuola nell’aula magna. Se applaudono paghiamo noi, se fischiano vai in prigione”.

E’ stato deciso un giorno. Io ho passato tutto il tempo a vomitare, attendendo quel momento e intanto riguardavo il film che mi sembrava bruttissimo. L’aula magna era piena. Mi ero messa in alto, nascosta dietro a una colonna, quando le luci si sono accese e ho sentito che applaudivano. Non solo. Avevano anche chiamato il direttore del British Film Institute, Denis Forman, che alla fine è venuto su e mi ha chiesto:
“Vuole fare un film senza andare in prigione?” Io ho risposto di sì.

“Venga domani al British Film Institute con un’idea scritta su una paginetta. Bastano poche righe. Alle cinque le offro una tazza di tè”. Il giorno dopo alle cinque mi sono precipitata all’appuntamento e in effetti c’era un tavolinetto davanti alla scrivania, con sopra il tè, la teiera fumante e dei biscottini. Ma quando lui mi ha chiesto di dargli la paginetta ero così emozionata che ho urtato il tavolino e il tè bollente è caduto sulla sua gamba. Ho visto la gamba che fumava. Ero paralizzata e ho cominciato a urlare di scusarmi, ma lui mi ha detto sorridendo: “Non si preoccupi, la gamba è di legno”. “Ho lasciato la mia gamba a Cassino”. Allora l’ho abbracciato forte.


Lorenza Mazzetti è tra i fondatori del Free Cinema, di cui sono espressione i suoi film K (1953) e Together (1956). Regista e scrittrice, la sua vicenda personale è narrata nei libri Il cielo cade del 1961 e Diario londinese, pubblicato da Sellerio.