martedì 29 ottobre 2013

L’estasi del Tra Noi e L'oblio di lei


L’estasi del Tra Noi

È probabilmente necessario ritornare al mondo dei presocratici, per capire qualcosa del tra-noi oggi.

Entrare in quel mondo ha luogo per il tramite di una guida, un maestro. 

Egli inizia il discepolo, in un certo modo un figlio, alla verità, alla logica della verità occidentale.

Il maestro comincia generalmente il suo insegnamento con le parole: Io dico. Ossia egli pensa che la verità sia garantita dal proprio discorso e che il discepolo debba ripetere lo stesso discorso, affermando: egli dice, o egli ha detto. La verità è dunque trasmessa dal maestro al discepolo, come da un padre a un figlio. La verità è trasmessa tra uomini, secondo un ordine genealogico o gerarchico.

L'oblio di lei

È noto, come ricorda per esempio Clémence Ramnoux nel suo lavoro sui presocratici, che all'origine è una lei - natura, donna o Dea - che ispira la verità a un saggio. Il maestro però tiene generalmente segreto ciò che ha ricevuto da lei, grazie al quale, grazie alla quale, ha elaborato il suo discorso. Egli non dice granché riguardo a questa origine, perché le parole gli mancano o perché vuol tenerlo per sé - perché non può o non vuole parlare della sua relazione con lei. Questa relazione rimane quindi nascosta o rimossa dall'insegnamento del maestro presocratico.
Tuttavia, alcuni maestri, quali Empedocle o Parmenide, alludono a lei, ciascuno a suo modo. Anche Platone accenna a lei, almeno quando si tratta dell'amore, della relazione-tra. Comunque, sono uomini che evocano un'assenza o un assente, un vuoto o un'eccedenza. Fanno riferimento a qualcosa che è altro rispetto al loro discorso, a un aldilà per il quale non hanno parole, e soprattutto logica. Un qualcosa che dissimulano, al quale alludono talvolta in assenza di lei. Un qualcosa che sarà lasciato al di fuori del logos, nel bene o nel male.

A quel tempo, la memoria ancora sussiste di un non-detto, di un aldilà nel quale meraviglia, magia, estasi, crescita e poesia si mescolano, resistendo al nesso logico che viene imposto alle parole, alle frasi, al mondo. Alcune tracce ne rimangono, almeno nel discorso di alcuni maestri.

Una sorta di estasi ancora esiste riguardo a ogni discorso, ogni scambio tra uomini negli spazi pubblici o in altri cenacoli, luoghi in cui parlano, parlano soltanto fra loro. Qualcosa rimane che non riescono a esprimere, neppure a sperimentare di nuovo, perché mancano gesti o parole per dirlo, per trasmetterlo, per produrlo. Permane solo la memoria di un'esperienza - che a poco a poco sarà cancellata -, l'esperienza di un meraviglioso, inaccessibile, inesprimibile aldilà. Un aldilà che nasceva da un incontro con lei - natura, donna o Dea - a proposito del quale la maggior parte dei maestri non dicono quasi nulla e al quale non rinviano il discepolo. Il loro insegnamento dovrebbe essere autosufficiente, staccato da lei come fonte.

Certo non tutti i maestri sostengono che debba essere così, ma certi tra loro lo fanno. E, a poco a poco, il loro insegnamento introdurrà il discepolo in un universo chiuso, parallelo al mondo vivente, al mondo naturale. Tuttavia, per alcuni maestri - come Empedocle o Parmenide - la totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei - natura, donna o Dea - che rimane l'inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte. Per altri invece - Eraclito, per esempio - il discorso si richiude su di sé per mezzo di strategiche opposizioni conflittuali. Ormai diviene possibile che la conversazione e il dialogo abbiano luogo tra sé e sé, dentro o tra il(i) medesimo(i), e la verità e il linguaggio comincino a parlare a partire da loro, su di loro, senza alcuna origine in un altro o senza alcun ritorno ad un altro, un altro che è all'inizio femminile — natura, donna, Dea. L'uomo si stabilisce nella sua dimora di linguaggio, staccato dal reale e dall'altro in quanto reale. Una tautologia di parole, di verità isola i soggetti parlanti — maestro e discepolo — in un riparo, un universo, una logica che raddoppia ciò che appartiene alla loro nascita, alla loro crescita, alla loro realtà naturale. 

Questo gesto avviene in un modo più segreto e sottile di quello di Prometeo, e prepara a una morte per soffocamento, spossatezza, isolamento, conflitto e infine distruzione di lei — natura, donna o Dea. Lei svanisce in una cultura fondata nel medesimo, al di là della quale si estende e della quale è testimonianza la nostalgia di alcuni maestri verso un aldilà. Alludono a un «vuoto», a una «lacuna», tutt'al più a un «Essere» al di là del loro discorso per coloro che, come Parmenide, ancora si fidano di lei.



Luce Irigaray All'inizio, lei era, Bollati Boringhieri, Torino, 2013

giovedì 24 ottobre 2013

Una modesta proposta

L'altro giorno, che pensavo al normale pressapochismo economicistico dei viventi, e al triste stato in cui versa l'economia italiana, allo scopo di riaggiustare la suddetta economia avevo pensato di scrivere un articolo fortemente propositivo, e a mio giudizio anche risolutivo, dal titolo Una modesta proposta per far crescere il P.I.L. italiano e contenere il rapporto debito/P.I.L. al di sotto del 3% in modo costante. In questo articolo volevo fare i seguenti ragionamenti che vado ora a esporre.

È noto che qualsiasi attività in cui non avvenga lo scambio di un bene o di un servizio con del denaro non dà luogo a una crescita del P.I.L., mentre tutti noi sappiamo quanto sia importante che il P.I.L. italiano cresca (ce lo richiedono i parametri europei, il nostro debito pubblico, il rapporto deficit/P.I.L.). Per chiarirsi meglio: se io vado dall'ortolano e compro un chilo di mele il P.I.L. italiano cresce, e di conseguenza cresce anche il gettito fiscale, mentre se io vado nel mio orto e stacco dal mio melo cinque chili di mele, anche nel caso che le mie mele siano addirittura più buone di quelle comperate, non essendo queste mele una merce, e non essendo né vendute né comprate, il P.I.L. italiano non cresce; va più o meno allo stesso modo se io aiuto il mio anziano vicino a verniciare la facciata di casa sua e lo faccio gratuitamente, per amicizia; in quel caso io potrò sentirmi buono, forse potrò anche pensare di essermi guadagnato il mio posto in paradiso, ma prestando la mia opera gratuitamente, e per amicizia, ancora una volta io non ho fatto crescere il P.I.L. e di conseguenza non è cresciuto neanche il gettito fiscale della nazione. Quindi possiamo concludere che la mancata mercificazione di cose o atti va a discapito della crescita del P.I.L. Perché il P.I.L. cresca è quindi necessario un balzo in avanti nella mercificazione delle nostre vite.

Oggi esiste per così dire un problema di scarsa mercificazione. Ma se oggi esiste un problema di scarsa mercificazione questo significa in primo luogo che molte attività sono maggiormente mercificabili di oggi e significa anche, in secondo luogo, che attività o cose che oggi non sono mercificate in un più o meno immediato domani potrebbero esserlo.

Ci sono ambiti della nostra vita che non sono stati ancora sufficientemente mercificati? Credo di sì. Basti pensare alla mancata mercificazione del sesso all'interno della famiglia. Tutto il sesso che avviene tra i due coniugi all'interno della famiglia è un'attività di cura completamente gratuita (parlo di coniugi per comodità ma avviene lo stesso anche tra le coppie di fatto e i comuni fidanzati). Comunque, allo scopo di spiegare il problema, ammettiamo che due coniugi si sveglino alla domenica mattina e che lui gradisca che lei gli pratichi per esempio un rapporto orale (scelgo la modalità del rapporto orale in quanto apparentemente meno reciproca di un normale rapporto genitale). Credo che nella quasi totalità delle coppie italiane, attualmente, questo momento di intimità si realizzi senza mercificazione; finita la cosa il marito e la moglie si danno due bacini, e uno dei due si alza e va a preparare la colazione. Nessuno dei due consegna all'altro una banconota da cinquanta euro.

Immaginiamoci invece una società completamente diversa dalla nostra ed economicamente più matura: la situazione si ripete, il marito ha voglia che lei gli pratichi un rapporto orale, finita la cosa lui le dà cinquanta euro. Ipotizziamo che la cosa si ripeta almeno due volte alla settimana, in questo caso il reddito della moglie aumenta di cento euro a settimana, 400 euro al mese, quasi cinquemila euro all'anno. E qui qualcuno potrebbe però dire che il reddito della femmina aumenta a discapito del reddito del maschio. Ma basta ipotizzare che la domenica mattina della settimana seguente questa volta sia la donna che si alza con il desiderio che sia lui a praticarle un rapporto orale, o qualsiasi altra forma di rapporto che lei desidera, per capire che questa volta sarà la moglie a fine rapporto a dare i cinquanta euro al marito. Quindi è facile capire che questo foglio di cartamoneta da cinquanta euro, invece di giacere immobile in uno dei due portafogli, senza creare nessuna forma di ricchezza, adesso si muove all'interno della coppia producendo nuovo reddito. Come abbiamo stimato questa banconota potrebbe produrre qualche migliaia di euro di reddito in più, circa diecimila euro per ogni famiglia, la metà circa per i cosiddetti single, i fidanzati, le coppie di fatto e gli irregolari.

È chiaro però che il prelievo fiscale andrebbe a danneggiare il sistema, perché sul reddito proveniente da ogni rapporto sessuale mercificato ci sarebbe un prelievo all'incirca dal 20 al 40% da parte dello stato. Ogni volta che quei cinquanta euro passerebbero dalla moglie al marito e contrario lo stato italiano se ne prenderebbe almeno 10. Ma basta rendere fiscalmente esenti tutti i redditi provenienti da attività di cura sessuale, ipotizzando su Unico uno speciale riquadro in cui i redditi sessuali vengano dichiarati nella loro totalità, pur non venendo tassati, per avere un grande aumento del reddito delle persone fisiche. Il tutto senza che lo stato italiano sborsi neanche mezza lira. A parità di deficit il P.I.L. italiano, calcolando una media di due o tre rapporti sessuali settimanali per cittadino, incrementerebbe il suo P.I.L. del 7% secondo le stime più pessimistiche. In questo modo il rapporto P.I.L./debito resterebbe costantemente al di sotto del 3% per i prossimi dieci anni. Inoltre bisogna dire che questo nuovo stimolo introdotto dalla mercificazione potrebbe aiutare le coppie italiane a avere un maggior numero di rapporti sessuali, andando così anche ad incrementare il buonumore medio della nazione, il che non sarebbe un male.


Ugo Cornia, Scritti di impegno incivile, Ed. Quodlibet, Macerata, 2013

giovedì 17 ottobre 2013

I Tre Talismani di Calvino di Marco Belpoliti

Calvino è l’unico scrittore italiano della seconda metà del XX secolo a essere passato dall’età giovanile direttamente alla vecchiaia, saltando a piè pari l’età adulta, così che l’idea che abbiamo conservato di lui, a quasi trent’anni dalla scomparsa, è quello di un puer senex, un saggio dall’intramontabile aspetto giovanile. Nel lasso di tempo che è trascorso da quel giorno del 1985, in cui fu ricoverato nell’antico ospedale di  Siena, per essere operato alla testa, lui che possedeva una delle teste più sottili e fini della cultura europea, è accaduto di tutto o quasi.
Quasi niente però che lo scrittore ligure non avesse già previsto, dalla peste linguistica dell’italiano scritto, corrispondete alla decadenza culturale e sociale del Paese, all’avvento del software informatico o al trionfo dell’immateriale. Nei trent’anni che ci separano dalla sua improvvisa dipartita abbiamo potuto registrare ciò che era vivo e ciò che era invece caduco nella sua opera: Calvino no, Calvino sì, a seconda dei cambiamenti di prospettiva e di orizzonte culturale, e persino politico. Una polemica che è continuata anche per qualche tempo, ma che adesso è finita nella poubelle, la pattumiera del è-stato, insieme ai fogli accartocciati di cui Calvino stesso raccontava in un proverbiale testo sulla dissipazione dello scrivere, e a tante altre cose del nostro passato prossimo.
Ma come sarebbe stato Calvino novantenne? Nel 1981 Alberto Sinigaglia era andato a bussare alla sua porta per chiedergli previsioni per l’anno 2000, memorabile intervista ora raccolta in quel tesoro di riflessioni, oltre che di autobiografie, che è Sono nato in America. Interviste 1951-1985, curato da Luca Baranelli e introdotto da Mario Barenghi (Mondadori 2012). Non ancora sessantenne, Calvino rispondeva alla domanda se ci sarebbe ancora stata la vecchiaia nel 2000, ribadendo che la diversità tra i vecchi e i giovani, il loro rapporto, “è uno degli aspetti che meglio definiscono una civiltà”. Arrivava a ipotizzare che nel cambio di millennio i vecchi potessero risultare i soli giovani e i giovani si sentissero già come vecchi. Evocava le città per anziani costruite in America come un esempio deleterio di separazione tra le generazioni.
La corsa alla giovinezza, la giovinezza prolungata di adulti e anziani, era già cominciata all’inizio degli anni Ottanta, ma la preoccupazione prevalente di Calvino non era anagrafica; gli stava a cuore la trasmissione dell’esperienza. Parlando come un suo personaggio, il signor Palomar, spiegava a Sinigaglia il paradosso: “La cosa che potrebbe avvicinare di più le generazioni è il confronto degli errori compiuti, ma è una esperienza che non si può trasmettere perché ogni generazione deve fare i suoi errori.
Quello che distingue di più è la parte positiva che ogni generazione porta con sé, ma questo è per sua natura incomunicabile, perché appena si cerca di enunciarlo diventa retorica”. Oggi che il paese è guidato da un Presidente coetaneo di Calvino, un quasi novantenne, che il nuovo papa è un quasi ottantenne, che in molti posti chiave dell’establishment ci sono ultrasettantenni (con l’eccezione del nuovo presidente del Consiglio, insidiato qualche giorno fa da un ultrasettantenne), è divertente leggere cosa dice del sé futuro, di anziano, lo scrittore ligure: “Chissà che la migliore soluzione non sia diventare un vecchio molto antipatico. Io credo che ci potrei riuscire senza molto sforzo, magari anche accentuando i caratteri di repulsività della vecchiaia, diventando un vecchio astioso, malefico, un po’ ripugnante, un po’ bieco. In questo modo potrei provocare nei giovani una reazione di bellezza, pulizia, di allegria.
Forse sarebbe l’unico modo di raggiungere un risultato socialmente positivo, che nessuna pedagogia può sognarsi d’ottenere”. La pedagogia, come si capisce leggendo lo straordinario testo autobiografico Sono stato stalinista anch’io? (1979), è uno dei rovelli di Calvino, scrittore ben poco scolastico, ma molto preoccupato della trasmissione del sapere, del saper fare, del già fatto, tra adulti e ragazzi, tra giovani e vecchi. Lui che aveva ipotizzato in un romanzo non finito (La decapitazione dei capi) l’uccisione rituale dei capi politici appena invecchiano, non poteva che constatare il fatto che le grandi potenze fossero allora governate da vecchi, così come in Italia prevalesse una eccessiva lentezza nel rinnovo dei ceti dirigenti.
Il suo ideale, enunciato in vista dell’anno 2000, era quello di un giusto, eppure difficile equilibrio, tra “potere di repressione” e “potere di liberazione”, perché l’educazione, a suo dire, ha come scopo proprio quel potere di liberarsi dalle autorità. Ma senza autorità non c’è società. L’aspirante vecchio Calvino proponeva al suo intervistatore la figura di un uomo colto del 2000 che sa cucinare, pulire la casa e fare la calza; poi si congedava proponendo tre talismani per il nuovo millennio: imparare molte poesie a memoria, anche da vecchi; preferire le cose che richiedono sforzo, diffidare della facilità; “sapere che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro”.

Un bel programma per il futuro, il suo stesso futuro. Anche se Calvino non è diventato vecchio, quel vecchio antipatico che si proponeva paradossalmente, possiamo festeggiare i suoi virtuali novanta segnandoci bene le tre chiavi suggerite per il prossimo millennio. In particolare l’ultima, molto utile per i tempi che ci attendono.



Tratto dall’articolo su Domenica 24 del 13-10-2013

mercoledì 2 ottobre 2013

La Zecca e Kant

«Il confronto con le ricerche di Uexküll è una delle cose più fruttuose che oggi la filosofia possa far propria dalla biologia». 
M. Heidegger 
(Concetti fondamentali della metafisica)








Chiunque viva in campagna, o sia andato in giro tra i boschi con il proprio cane, avrà fatto la conoscenza di un minuscolo animale che, appeso tra i rami dei cespugli, attende la preda (sia umana che animale) per lasciarsi cadere sulla vittima e nutrirsi del suo sangue. A quel punto l'animale, lungo da uno a due millimetri, si gonfia fino a raggiungere la grandezza di un pisello.

La zecca non è pericolosa, ma costituisce un ospite fastidioso sia per i mammiferi che per l'uomo. Studi recenti sono riusciti a far luce su molte particolarità della sua vita, tanto che ora è possibile tracciarne un quadro quasi completo.

Quando l'uovo si schiude, la zecca non è del tutto formata poiché le mancano ancora un paio di zampe e gli organi sessuali. In questo stadio, però, è già capace di attaccare animali a sangue freddo come le lucertole, che attende sulla punta di uno stelo d'erba. Dopo diverse mute, nel parassita si sviluppano gli organi mancanti. A questo punto può dedicarsi anche alla caccia di animali a sangue caldo.

Dopo l'accoppiamento, la femmina sale su un cespuglio fino alla punta di uno dei rami sfruttando le otto zampe di cui è dotata. Poi si lascia cadere da una altezza sufficiente a raggiungere qualche piccolo mammifero di passaggio o a farsi portare via dal contatto con animali di taglia più grande.
La zecca, priva di occhi, raggiunge il punto in cui appostarsi grazie alla sensibilità della sua pelle alla luce. Questo brigante di strada, sordo e cieco, si avvicina alla vittima attraverso l'olfatto. L'odore dell'acido butirrico, prodotto dai follicoli sebacei di tutti i mammiferi, agisce sulla zecca come un segnale che la spinge ad abbandonare il luogo in cui è appostata facendola cadere in direzione della preda. Se cade su qualcosa di caldo (proprietà individuata dall'animale grazie a un acuto senso della temperatura), ciò vuol dire che la zecca ha raggiunto la sua preda, ovvero un animale a sangue caldo: per trovare un posto il più possibile privo di peli e infilare la testa nel tessuto cutaneo ha bisogno solo del suo senso tattile. A quel punto comincia a succhiare lentamente il sangue.

Esperimenti condotti con membrane artificiali e liquidi diversi dal sangue hanno mostrato che la zecca è del tutto priva del senso del gusto; dopo aver perforato la membrana, infatti, il parassita succhia qualunque liquido presenti la giusta temperatura.
Se la zecca invece, stimolata dall'acido butirrico, cade su un corpo freddo, ciò vuol dire che ha mancato la preda e che deve risalire fino al luogo nel quale era appostata.

Per il parassita, un'abbondante bevuta di sangue costituisce il suo primo e ultimo pasto, perché dopo aver mangiato non le resta altro da fare che lasciarsi cadere a terra, depositare le uova e morire.
Il modo nel quale si svolge la vita della zecca ci fornisce la pietra di paragone per mettere alla prova la solidità di un approccio propriamente biologico, del tutto diverso dallo studio puramente fisiologico della vita animale, che è stato fino ad oggi quello usuale. Per il fisiologo, qualunque essere vivente è un oggetto, situato in un mondo che è sempre lo stesso, quello umano. Egli ne scruta gli organi e il modo in cui si coordinano tra loro come un tecnico esaminerebbe una macchina sconosciuta. Il biologo, al contrario, si rende conto che ogni essere vivente è un soggetto che vive in un proprio mondo di cui l'animale costituisce il centro. Non è possibile dunque paragonare l'animale a una macchina, ma solo al macchinista che la conduce.

È bene, dunque, porsi direttamente la domanda: la zecca è una macchina o un macchinista, è un semplice oggetto o un soggetto?

[…]

L'intero, ricco mondo che circonda la zecca si contrae su se stesso per ridursi a una struttura elementare, che consiste ormai essenzialmente di tre sole marche percettive e tre sole marche operative: il suo ambiente. Ma è proprio questa povertà dell'ambiente a determinare la sicurezza del suo comportamento: e la sicurezza è più importante della ricchezza.
Questo esempio mette in evidenza i tratti fondamentali della struttura dell'ambiente, tratti che valgono per qualunque animale.
La zecca possiede, però, una capacità ancora più sorprendente, in grado di darci un'idea più precisa di che cosa sia un ambiente animale. È palese che l'eventualità fortunata che un mammifero si trovi a passare sotto il ramo sul quale è appostata la zecca, o che addirittura la urti, è straordinariamente rara. 
Per assicurare la continuità della specie, questo svantaggio non è adeguatamente compensato neanche dal grande numero di zecche che si trovano nella boscaglia. Ad aumentare le sue possibilità di imbattersi nella preda è una capacità straordinaria: la zecca può sopravvivere per un tempo lunghissimo senza nutrirsi. Presso l'Istituto zoologico di Rostock, sono state tenute in vita delle zecche che erano a digiuno da diciotto anni.
Gli esseri umani non possono di certo attendere diciotto anni come fa la zecca: il nostro tempo è composto da una serie di istanti, cioè da segmenti temporali molto brevi, all'interno dei quali il mondo non presenta alcun cambiamento. Durante quell'intervallo che è l'istante, il mondo è fermo. Per la specie umana, l'istante ha la durata di un diciottesimo di secondo. Vedremo più tardi che la durata dell'istante cambia da specie a specie, ma a qualunque lasso di tempo corrisponda l'istante della zecca, non è possibile resistere per ben diciotto anni in un ambiente assolutamente statico. Dobbiamo supporre, dunque, che la zecca durante la sua attesa si trovi in uno stato simile a quello del sonno, che anche negli esseri umani interrompe per ore la scansione temporale. Nell'ambiente della zecca, però, il tempo non è sospeso solo per qualche ora: il periodo d'attesa può protrarsi per diversi anni, fino a che il segnale dell'acido butirrico non sveglia la zecca riportandola in attività.
Il caso della zecca ci fornisce un insegnamento molto importante. La nostra impressione è che il tempo faccia da contenitore per qualunque avvenimento e che, di conseguenza, sia l'unico elemento stabile nel continuo fluire degli avvenimenti. Abbiamo visto, invece, che è il soggetto a dominare il tempo del suo ambiente. Mentre fino ad ora avremmo detto che senza tempo non può darsi un soggetto vivente, ora sappiamo che occorre dire il contrario: senza soggetto vivente, il tempo non può esistere.

Nel prossimo capitolo vedremo che la stessa cosa accade con lo spazio: senza soggetto vivente non si danno né spazio né tempo. È in questo modo che la biologia si collega alla filosofia di Kant: la utilizza per un fine scientifico, cioè per evidenziare quanto sia decisivo il ruolo giocato dal soggetto nella teoria dell'ambiente.

Jakob von Uexküll, Georg Kriszat [illustrazioni]: Ambienti animali e ambienti umani - Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili  Edizione Quodlibet, Macerata, 2013   pagg. 41 e 51



Per me la terra è un gigantesco riccio di mare, tutte le parti viventi dipendono le une dalle altre.
Jakob von Uexküll

Dalla Prefazione

Dopo quarant'anni, viene ripubblicato in italiano, con traduzione e apparati completamente rinnovati, un classico del pensiero europeo del Novecento, l'opera matura, sicuramente la più godibile e chiara, di uno dei maggiori biologi del secolo appena trascorso.

Quel che oggi costituisce un luogo comune teorico che ha dato origine a una branca separata e relativamente autonoma della ricerca scientifica, l'ecologia, è stato imposto all'attenzione del pensiero contemporaneo da un personaggio energico ma dal carattere difficile, un barone prussiano nostalgico dei bei tempi andati ma che, spesso suo malgrado, ha dischiuso le porte alle più diverse forme di innovazione scientifica e culturale. Jacob von Uexküll (1864-1944) è il quinto figlio di una famiglia aristocratica. Nato in Estonia ma di lingua e cultura tedesca, è colui che ha utilizzato per primo in biologia la nozione di «ambiente» in modo sistematico e rigoroso.