martedì 29 luglio 2014

Tempo di viaggi, mezzi di trasporto e ...un padre



Negli albi illustrati per ragazzi il tema del “cammino”, inteso sia come percorso da compiere concretamente per attraversare uno spazio sia come itinerario esistenziale necessario alla crescita è frequentatissimo. Direi anzi che, sottotraccia, lo si trova, declinato attraverso modi e linguaggi diversissimi fra loro, praticamente in quasi tutte le storie per parole e immagini destinate ai bambini.

Direi anzi che, sottotraccia, lo si trova, declinato attraverso modi e linguaggi diversissimi fra loro, praticamente in quasi tutte le storie per parole e immagini destinate ai bambini. Ho in mente tre libri che svolgono questo tema in modo particolare, ossia prendendolo alla lettera, come fosse un assioma, e divertendosi poi a valutarne la tenuta, portandolo alle estreme conseguenze.  (...)


Oggi scrivo del primo di questi libri, in ordine cronologico, cioè L'uomo del camion, nel 1945. In copertina, sotto al titolo in blu, un grande pacco bianco e rosso, su cui risaltano grandi ditate scure.

In questo periodo, in cui si sente parlare spesso di padri assenti, di società senza padri, questo albo limpidissimo, che funziona come un orologio svizzero, chiarisce alcuni semplici, ma fondamentali concetti. Protagonista del libro è, come scrive Munari, “Marco, l'uomo del camion” che “vuole andare a trovare il suo bambino in occasione del suo terzo compleanno”.


Marco “prende il camion e parte. Ma al decimo chilometro il camion si ferma”. La doppia pagina mostra al lettore un signore appoggiato al cofano di un grande camion giallo; accanto a lui c'è il pacco annunciato in copertina. Il testo prosegue: “Marco resta un poco con la testa fra le mani, poi apre il camion e”. A questo punto, si volta pagina. Il pacchetto, come si nota, nel testo non è nominato, appare solo nell'immagine. E così sarà fino alla penultima pagina del libro.


Nella pagina successiva vediamo invece una bella auto verde, da cui Marco sta uscendo, tenendo il pacchetto nella mano destra. Il testo, rimasto in sospeso, continua: “tira fuori un'auto. Monta sull'auto e via. Ma al nono chilometro l'auto si ferma, Marco scende dall'auto, la smonta e tira fuori una” … fiammante moto rossa, ci mostra l'illustrazione di pagina successiva, prima ancora che leggiamo il testo.

Così, di chilometro in chilometro, in una conta alla rovescia ben segnalata al lettore dal paracarro posto lungo l'invisibile strada che accompagna il viaggio, posizionato al centro di ogni doppia pagina, il libro prosegue, con il testo che con pochissime variazioni segue il medesimo schema.



Marco, scopriamo, via via sperimenta un progressivo abbandono da parte dei mezzi su cui sale e che si ingegna di trasformare per arrivare a casa: un camion, un'auto, una moto, una bici, un monopattino, i pattini a rotelle, alla fine le scarpe. Tutti lo lasciano per strada, persino le scarpe, a cui si sciolgono i lacci, come se un incantesimo, proprio come accade nelle fiabe, gravasse sulla consegna del dono e sull'incontro dell'uomo con il suo bambino.

Il ritmo e la tensione di questa sequenza narrativa derivano dalla compresenza di cambiamento e stabilità, ripetizione e imprevisto: quello che cambia costantemente nel libro sono non solo i mezzi di trasporto, ma anche il formato delle doppie pagine che li contengono, che via via cambiano: da grandi a piccole e da piccole di nuovo a grandi, seguendo prima il rimpicciolirsi delle dimensioni dei mezzi di trasporto e poi l'aumentare della contentezza di Marco man mano che si avvicina a casa.


Quello che invece rimane sempre uguale, anche se il lettore lo trova in punto sempre diverso dell'illustrazione, è il misterioso regalo. In mezzo, a fare da trait d'union, punto di equilibrio fra cambiamento e stabilità, imprevisto e soluzione, c'è l'uomo del camion in movimento costante,  felicemente impegnato a tenere insieme l'ordine delle cose scompaginato dal caos e reimpaginato dalla sua fantasia nel trovare soluzioni, in funzione della meta finale. Il suo movimento si traduce, infatti, in una progressiva riduzione di distanza da casa, in barba ai guasti al motore, alle rotture degli assi, alle ruote forate o perse. Alla fine, infatti, Marco, a piedi nudi, arriva davanti alla porta di casa e suona alla porta.

Munari, sublime inventore di libri e conoscitore di bambini, affida al lettore il compito di aprire la porticina che si apre nella pagina.

Dietro appare il tanto atteso bambino. Il testo, nascosto dietro al battente della porta, recita:

“Oh! ciao papà!
ciao ciao
ciao ciao ciao.

E tutti furono felici.

Ma cosa c'era in quel pacchetto?”


Da cosa si misura la bravura di un autore di libri illustrati?

Dal fatto, per dirne una, che sa che il bambino protagonista del libro, in cui il lettore si immedesima, è contento, più di ogni altra cosa, di vedere il suo papà. Ma che sa anche che il bambino che sta leggendo il libro, e per cui il libro è stato scritto, è curiosissimo di sapere cosa ci sia nel pacchetto di cui sta seguendo le peripezie fin dalla prima pagina. Ed è a lui, infatti, che si rivolge la voce fuori campo in grassetto, nel testo. Perché se questa è la storia di un papà che deve farcela ad arrivare a casa in tempo per festeggiare il compleanno del figlio, è anche quella di un regalo che deve rivelare il suo contenuto, perché non c'è maggiore sorpresa, per un bambino, di quella di un regalo.



Con un colpo da maestro, infatti, Munari regala al lettore un'altra pagina, dopo avergli fatto credere che il libro si fosse concluso con l'aurea fine di tutte le storie: “E tutti furono felici”. Quello che aspetta il lettore è un secondo finale, che arriva come una inattesa, e perciò più grande, sorpresa: una pagina che in uno schema circolare riprende quella in copertina, dove campeggia il pacchetto chiuso su sfondo bianco. Anche in questo caso, il piacere concreto di aprirlo per scoprire cosa contenga è lasciato al lettore, proprio come se, fin dall'inizio, fosse stato lui il suo destinatario ideale.

Che cos'è un padre? A stare a Marco, padre non ordinario non solo per il 1945, ma anche per il 2014, è un signore che fa di tutto, anche camminare a piedi nudi, per arrivare dal suo bambino il giorno del compleanno; che esercita la funzione fondamentale della guida, non solo in senso letterale, e non solo di un camion o di una automobile, ma anche di un monopattino e sa quando è il momento di guidare gli uni e l'altro; che sa accettare il caso e gli imprevisti senza avvilirsi troppo e perdere la pazienza; che trova il modo di risolvere le cose con immaginazione; che sorride al pensiero di rivedere il suo bambino; che non pensa sia importante regalare qualcosa di grosso e costoso, ma preferisce piccoli oggetti diversi, quanti forse sono stati i pensieri che ha rivolto al bambino mentre era lontano; che non teme di mostrarsi al figlio come è, senza camion e stringhe, perché sa che quello che conta per il bambino è la sua presenza; che sa che una sorpresa è una cosa molto seria per un bambino; che sa che un bambino quando è felice dice ciao sei volte, preceduti da un Oh e seguiti da tanti punti esclamativi; che a un lieto fine ne sa fare seguire subito un altro, ancora più sorprendente, perché sa che la felicità è una cosa importante che grandi e piccoli costruiscono insieme, vicini e lontani, legati dalla fiducia reciproca.



di Giovanna Zoboli  su Doppiozero

mercoledì 9 luglio 2014

Diario Londinese di un piccolo genio


Il tutore ha dichiarato bancarotta e io mi sono ritrovata a Londra senza una lira, buttata fuori da una pensione alla quale avevo detto che avrei ricevuto certamente i soldi. Non avevo neanche i soldi per mangiare. Un giorno sono entrata in un ristorante e ho detto che avrei lavorato se mi davano da mangiare. Così ho trovato un lavoro da lavapiatti. Dopo un po’, visto che la notte leggevo e disegnavo, ho pensato che il mio futuro non poteva essere quello di lavare i piatti e che forse potevo andare all’università. Sono andata in un’accademia d’arte dove sapevo che ci andavano i più grandi pittori e scultori. Sono arrivata lì ma non mi hanno accettato perché ero arrivata il giorno prima che aprisse, bisognava fare un esame di ammissione, riempire dei moduli. Io ho urlato tanto che è venuto fuori un signore. Doveva essere un uomo delle pulizie perché era in maniche di camicia con sopra le bretelle. Lui ha chiesto: “Ma che cosa succede?”
“Io voglio parlare col direttore”: gli ho detto:
“Perché vuole parlare col direttore?”
“Perché gli voglio far vedere i miei disegni e perché vorrei frequentare questa università”.
“E come mai?”
“Perché io sono un genio!”
Allora lui si è messo a ridere e mi ha detto di seguirlo. Ha guardato i miei disegni e mi ha detto: “Va bene, da domani può essere nostra alunna”.
“Sì, ma vorrei sapere che cosa dice il direttore”.
“Ma sono io il direttore!”
“In Italia un direttore non si presenta in questo modo”.
“E come si presenta?”
“Con una bella giacca a doppio petto, con i bottoni…”
E lui ha detto: “Ma in Italia un direttore non assumerebbe una come lei in due minuti senza riempire i moduli, fare l’esame d’ammissione e senza conoscere bene la lingua”.

Così sono entrata alla Slade School of Art, dove c’erano insegnanti e allievi interessanti. Gli studenti erano vestiti in modo originale e le ragazze erano bellissime, con dei vestiti a fiorellini e le scarpette da ballo.
Poi un giorno, girovagando per l’università, vedo tante porticine, ognuna con una scritta sopra: club di tennis, di swimming pool, di scacchi. Sull’ultima porticina c’era scritto “Film Club”. Ho aperto e ho visto del materiale che brillava come un tesoro: la macchina da presa, le pizze, i cavalletti, le luci. C’era tutto quello che serve per fare un film. Un po’ alla volta ho rubato tutto. Mi sono portata tutto nella mia stanza e poi ho fatto un film. Non avevo soldi per cui ho girato per la strada, dove ho trovato le persone adatte. Michael Andrews, un mio compagno che era un pittore bellissimo, giovanissimo e molto delicato, è diventato l’eroe del film.
Nella mia stanza avevo appeso un’immagine di Franz Kafka perché come me aveva uno sguardo terrorizzato. Ed è su La metamorfosi di Kafka che ho fatto il film. Naturalmente ho dovuto stampare, sviluppare, fare la musica, il sonoro. Così sono andata in un laboratorio lì vicino e ho detto che dovevano stampare tutto per l’università. L’uomo del laboratorio mi ha detto: “Ma questo costa un sacco di soldi!” Gli ho detto che avrebbe pagato l’università e ho dovuto firmare un bel po’ di fogli. Poi sono andata a ritirare il film.
In seguito quei soldi sono stati chiesti al direttore dell’università.
Lui ha protestato: “Ma noi non abbiamo fatto nessun film! Chi ha firmato tutte queste carte?” “Una ragazzina italiana che parla inglese con la erre moscia”.
Perciò il direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto se intendessi pagare. Mi ha detto che a Londra si va in prigione per queste cose. Gli ho risposto che non avevo una lire, che facevo la cameriera.

“Allora devi andare in prigione”: mi ha detto lui.

“Va bene, vado in prigione”: ho detto io e me ne sono andata.
Lui allora mi ha rincorso e mi ha detto: “Ora facciamo vedere questo film a tutta la scuola nell’aula magna. Se applaudono paghiamo noi, se fischiano vai in prigione”.

E’ stato deciso un giorno. Io ho passato tutto il tempo a vomitare, attendendo quel momento e intanto riguardavo il film che mi sembrava bruttissimo. L’aula magna era piena. Mi ero messa in alto, nascosta dietro a una colonna, quando le luci si sono accese e ho sentito che applaudivano. Non solo. Avevano anche chiamato il direttore del British Film Institute, Denis Forman, che alla fine è venuto su e mi ha chiesto:
“Vuole fare un film senza andare in prigione?” Io ho risposto di sì.

“Venga domani al British Film Institute con un’idea scritta su una paginetta. Bastano poche righe. Alle cinque le offro una tazza di tè”. Il giorno dopo alle cinque mi sono precipitata all’appuntamento e in effetti c’era un tavolinetto davanti alla scrivania, con sopra il tè, la teiera fumante e dei biscottini. Ma quando lui mi ha chiesto di dargli la paginetta ero così emozionata che ho urtato il tavolino e il tè bollente è caduto sulla sua gamba. Ho visto la gamba che fumava. Ero paralizzata e ho cominciato a urlare di scusarmi, ma lui mi ha detto sorridendo: “Non si preoccupi, la gamba è di legno”. “Ho lasciato la mia gamba a Cassino”. Allora l’ho abbracciato forte.


Lorenza Mazzetti è tra i fondatori del Free Cinema, di cui sono espressione i suoi film K (1953) e Together (1956). Regista e scrittrice, la sua vicenda personale è narrata nei libri Il cielo cade del 1961 e Diario londinese, pubblicato da Sellerio. 


venerdì 4 luglio 2014

Buon Gusto


Sta cominciando una cosa, a Parma, che si chiama Taste of Future, e che vuole accreditare, come si dice, Parma come «Città del buon gusto». Siccome la cosa la fanno a Parma, ed è pubblicizzata dal comune di Parma, a me sembrerebbe una cosa di dubbio gusto il fatto di dire di sé «Noi siamo la città del buon gusto», se non fosse che io, ogni volta che sento parlare di Buon gusto, mi viene in mente, a parte quel fincipit che dice «Una rotonda sul mare, è mia sorella che nuota», a parte quello, quando sento parlare di Buon gusto mi viene in mente un saggio di Gleizes e Metzinger del 1912, se non ricordo male, che si intitola Du cubisme, Sul cubismo, se non ricordo male, e in quel saggio lì i due pittori cubisti Gleizes e Metzinger scrivevano che era finita l’era del buon gusto e del cattivo gusto e che c’era solo il gusto. Nel 1912, 102 anni fa.