mercoledì 24 aprile 2013

Comunésta



La scorsa settimana, ero in ospedale, a Bologna, nella stanza di fronte alla mia c’era una ragazza di Rimini e suo babbo, dopo avermi preso un po’ in giro perché non son tanto capace di fare le cose pratiche, non al livello che chiamo l’elettricista per cambiare le lampadine ma quasi, quando gli ho detto che era vero, ero un po’ imbranato con le cose pratiche, e dopo che mi sono sentito, inspiegabilmente, in dovere di aggiungere “Ho altre qualità”, lui, questo signore di Rimini con una ragazza all’ospedale di Bologna mi ha detto “Lo sappiamo”. E mi ha raccontato che suo fratello, quand’era stato lì in ospedale il giorno prima mi aveva riconosciuto da certi servizi che aveva visto in una trasmissione che c’era quest’inverno che si chiamava Volo in diretta e gli aveva raccontato che genere di cose faccio “L’è un comunésta” aveva detto alla fine. E l’aveva detto con un tono, come se fosse un complimento, difatti l’avevo poi detto al fratello di questo che mi aveva dato del comunésta, “Sembra un complimento”, e il fratello mi aveva risposto dicendo “Ah, be’, a casa nostra”, con un tono come per dire che era normale, a casa loro, che essere un comunésta fosse considerato un complimento. E, al di là del fatto che credo di non essere, un comunésta, soprattutto nel senso che a questa parola mi sembra desse il fratello di quel signore che ha parlato con me l’altro giorno a Bologna, mi è piaciuto questo fatto linguistico che vince le svolte della Bolognina, il tribunale della storia, mi è piaciuto scoprire una parola come intatta, che si pronuncia ancora con l’intonazione con cui la si pronunciava cento anni fa.

Paolo Nori – su Libero - venerdì 19 aprile 2013

venerdì 19 aprile 2013

Memoria



Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, nel soffio d'un vento di pioggia, nell'odor di rinchiuso di una camera o nell'odore d'una prima fiammata, ovunque ritroviamo di noi stessi quel che la nostra intelligenza, non sapendo come impiegarlo, aveva disprezzato: l'ultima riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lagrime sembrano esaurite, sa farci piangere ancora.

M. Proust - Alla ricerca del tempo perduto – La strada di Swann. Einaudi

venerdì 12 aprile 2013

Come si dice Audiobook in polacco


Dal 15 al 20 di marzo son stato in Polonia, a Cracovia, ad Auschwitz e a Birkenau, con un gruppo di 630 persone la maggioranza delle quali erano ragazzi e ragazze degli ultimi due anni delle scuole superiori della provincia di Modena. Siamo andati con un treno che partiva da Fossoli, il campo dal quale partivano, alla fine della seconda guerra mondiale, i deportati del nord Italia.

Ci abbiamo messo, a arrivare, venti ore. Il giorno dopo, nell’andare a Birkenau, sull’autobus la guida ci ha detto che la Polonia ha una forma più o meno regolare, rotonda quadrata. E tutto il giorno abbiamo camminato sulle ossa dei morti. E aspettavamo che tacesse la guida, e ci mettevamo a ascoltare il silenzio. E pensavamo che era un silenzio da registrare.

E a un certo punto è stato chiaro che è vero quello che dice una botanica che lavora al museo di Auschwitz, che dice che il senso del lavoro che, da decenni, stanno facendo gli storici per ricostruire quel che veramente è successo, comparando testimonianze e dati documentali, lavorando sui ritrovamenti di nuovo materiale sul sito archeologico e sui ritrovamenti di nuovi documenti negli archivi di mezzo mondo, un lavoro inesausto e disperato, che ha portato Franciszek Piper a scrivere: «il est évident que la reconstruction de la tragédie d’Auschwitz dans son intégralité est irréalisable», il senso di tutto questo lavoro sarebbe rivoluzionato, ha detto quella botanica, se ci si rivolgesse a dei testimoni oculari imparziali, le betulle di Birkenau, che – e ci siamo voltati tutti a guardarle – sono le stesse betulle che c’erano allora, settant’anni fa.

E il giorno dopo, alla mensa sovieticomorfa del museo di Auschwitz, quando ho ordinato un espresso, la barista mi ha chiesto «Piccolo?» e io le ho risposto «Piccolo». E il giorno dopo, a Cracovia, in un bar che dà sulla piazza, ho sentito tre tedeschi che ordinavano uno un caffè, uno un cappuccino, un altro una pizza, e ho pensato che noi italiani avevamo inventato tutto, anche la parola Ghetto. E sapevo che dieta in polacco si dice Dieta, e che farmacia in polacco si dice Apteka. E subito dopo, in una libreria di Cracovia, ho scoperto che audiobook si dice Audiobooki. E poi basta.

Paolo Nori – articolo su Libero 22 marzo 2013

mercoledì 10 aprile 2013

Punti di vista

Gli esseri umani sono cose di dimensioni variabili.

I più piccoli lo sono talmente che se altri esseri umani più grandi non li portassero dentro un piccolo veicolo, non tarderebbero a essere calpestati.
I più alti raramente superano i 200 centimetri di lunghezza. Un dato sorprendente è che quando giacciono distesi misurano sempre stranamente lo stesso.

Alcuni hanno baffi, altri barba e baffi. Quasi tutti hanno due occhi, che possono essere situati nella parte anteriore o posteriore della testa, secondo da che parte li si guarda.

Deambulando si spostano da dietro in avanti, per la qual cosa devono controbilanciare il movimento delle gambe con un vigoroso sbracciamento. I più frettolosi rinforzano lo sbracciamento mediante borse di pelle o di plastica o valigette denominate Samsonite, fatte di materiale proveniente da un altro pianeta.

Il sistema di spostamento delle automobili (quattro ruote accoppiate piene d’aria fetida) è più razionale, e permette di raggiungere velocità superiori. Non devo volare né spostarmi a testa in giù se non voglio esser preso per un eccentrico.

Nota bene: mantenere sempre in contatto col terreno un piede – uno qualsiasi dei due – o l’organo esteriore denominato culo.


Da Eduardo Mendoza “Nessuna notiza di Gurb”, Feltrinelli 2003



venerdì 5 aprile 2013

Arabeschi


La noia è un caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori. In questo panno ci avvolgiamo quando sogniamo. Allora siamo di casa negli arabeschi della fodera. Ma sotto quel panno il dormiente sembra grigio e annoiato. E quando poi al risveglio vuol narrare quel che ha sognato, non comunica in genere che questa noia. E chi mai potrebbe infatti con un gesto rivoltare la fodera del tempo? Eppure ricordare dei sogni non significa altro che questo.
W. Benjamin

mercoledì 3 aprile 2013

Bramosia di futuro


Tale era l’abbondanza di frutta, specialmente lamponi, fragole, more e mirtilli, che da fine giugno a metà agosto la casa padronale si tramutava decisamente in una fabbrica, dove da mane a sera s’effettuava la lavorazione della frutta. Perfino nelle stanze di gala, tutti i tavoli erano carichi di mucchi di frutti; attorno sedevano le ancelle a mondarli, suddividendoli per sorta; riuscivano appena a venire a capo d’un mucchio, che già un altro gli dava il cambio.

Al giorno d’oggi, questa sola operazione costerebbe di per sé un sacco di soldi. A quel tempo, invece, all’ombra di un enorme tiglio centenario, sotto la diretta sorveglianza di mia madre, su mattoni sistemati a forma di quadrangolo, si cuoceva la marmellata, per cui venivano scelti i frutti più grossi e le bacche più belle. Il resto veniva utilizzato per i liquori, gli elisir, gli estratti, ecc.

Da notare che frutti e bacche fresche venivano consumati con discrezione persino dai padroni, quasi nel timore che non ce ne fosse abbastanza per le provviste. Alle «servacce» poi non se ne dava affatto (ricordo la preoccupazione di mia madre, al momento della raccolta dei lamponi «che quelle villanzone non abbiano a rimpinzarsene!»). E anche quando di frutta ce n’era, come si dice, a bizzeffe, bisognava immancabilmente aspettare che, a causa del prolungato soggiorno nelle cantine, cominciasse a muffire. Quella massa di leccornie attirava nelle stanze orde innumeri di mosche, che avvelenavano decisamente l’esistenza.

A cosa servissero quegli ammassi, non l’ho mai potuto capire. Il fenomeno può essere definito col termine inusitato di «bramosia del futuro». Grazie ad essa, anche quando una persona ha sotto gli occhi un’intera montagna di cibarie, le sembra sempre poca cosa. Il ventre umano ha dei limiti, ma l’avida immaginazione gli attribuisce misure incolmabili, e in pari tempo minacciose prospettive si profilano all’orizzonte.

Nel corso dell’anno le provviste venivano consumate con parsimonia, con avarizia quasi. Sebbene non fosse ancora giunta, si pensava che «l’ora» sarebbe suonata sicuramente e in quel momento si sarebbe spalancato un abisso misterioso che senza posa avrebbe inghiottito tutto quello che si era accumulato. Di tanto in tanto si procedeva a una revisione delle cantine e delle dispense, e sempre risultava che la metà o quasi delle provviste era andata a male.

Michail Saltykov-Ščedrin, Fatti d'altri tempi nel distretto di Pošechone, Macerata, Quodlibet 2013, pp. 20.21]