mercoledì 30 maggio 2012

Voce del verbo "abitare"

Se passo davanti alla casa dove abito, posso dire «abito là» o, più precisamente «abito al primo piano, in fondo al cortile»; se desidero dare un senso più amministrativo alla mia asserzione, posso dire «abito in fondo al cortile, scala C, porta di fronte». Se mi trovo nella mia strada, posso dire «abito là, al 13» oppure «abito al numero 13» o «abito dall’altra parte della strada» o «abito accanto alla pizzeria».

Se a Parigi qualcuno mi domanda dove sto di casa, ho la possibilità di scegliere fra una buona dozzina di risposte. Potrei dire che «abito in rue Linné» soltanto a chi so per certo che sa dov’è la rue Linné; più spesso sono portato a precisare la disposizione geografica della suddetta via. Per esempio: «abito in rue Linné, a fianco della clinica Sain-Hilaire» (molto conosciuta dai tassisti) o «abito in rue Linné, è a Jussieu» o «abito in rue Linné, di fianco alla facoltà di Scienze» o meglio, «abito in rue Linné, non lontano dalla moschea». In alcune circostanze più eccezionali, potrei essere indotto a rispondere che «abito nel 5°» o «abito nel quinto arrondissement» o «abito al Quartiere Latino», oppure «abito sulla riva sinistra».

In qualunque parte della Francia (se non proprio a Parigi e nell’immediata periferia) ritengo di essere più o meno sicuro di farmi capire se dico «abito Parigi» o «abito a Parigi» (tra i due modi di dire una differenza c’è, ma quale?). Potrei anche dire «abito nella capitale» (non credo di averlo mai detto), e nulla mi impedisce di immaginare che potrei optare per «abito nella ville Lumière» o «abito nella città che un tempo era chiamata Lutezia», benché rassomigli piuttosto all’inizio di un romanzo che all’indicazione di un indirizzo. Invece, rischio sicuramente di non essere capito se dò informazioni del tipo: «abito a 48° 50 latitudine nord e a 2° 20 longitudine est» o «abito a 890 chilometri da Berlino, 2.6000 da Costantinopoli e 1.444 da Madrid».
Se abitassi a Valbonne, potrei dire «abito sulla Costa Azzurra» o «abito vicino ad Antibes». Ma, abitando proprio a Parigi, non posso dire «abito nella regione parigina», e neppure «abito nel dipartimento della Senna».

Inoltre non vedo bene in quali circostanze sarebbe pertinente dire «abito a nord della Loira», «abito nella Francia» o «abito in Francia»: potrei esser obbligato a dare questa informazione trovandomi in un punto qualunque situato fuori dell’Esagono, anche se ufficialmente sono in Francia (per esempio in un D.O.M – Territorio d’Oltre Mare); se dicessi «abito nell’Esagono», sarebbe solo per scherzo; mentre se fossi còrso e abitassi a Nizza o dell’Ile de Ré a La Rochelle, potrei dire «abito in continente».
«Abito in Europa»: questo tipo di informazione potrebbe interessare a un americano che incontrassi per esempio all’Ambasciata del Giappone a Canberra. «Oh, you live in Europe?» ripeterebbe, e io sarei portato senza dubbio a precisare «I am here only for a few (hours, days, weeks, mounths)».

«Abito sul pianeta Terra». Avrò mai un giorno l’occasione di dirlo a qualcuno? Se fosse un “III tipo” disceso nel nostro infimo mondo, lo saprebbe di già. Ma se sarò io a trovarmi da qualche parte nei pressi di Attarus o di KX1809B, dovrò certamente segnalare che «abito il terzo (il solo abitato d’altronde) dei pianeti principali del sistema solare nell’ordine crescente della loro distanza rispetto al sole» o «abito uno dei pianeti di una delle più giovani stelle nane gialle situate ai bordi di una galassia d’importanza mediocre designata arbitrariamente con il nome di Via Lattea». E all’inizio ci sarebbe una probabilità su centomila milioni di miliardi (ossia solamente 10 alla ventesima) che mi risponda: «Ah, sì, la Terra…»

Georges Perec, Pensare/Classificare, Rizzoli, 1989
 

lunedì 28 maggio 2012

Società Italiana per la Filosofia in Pratica


E' online il sito della Società Italiana per la Filosofia in Pratica, che volentieri segnaliamo alla pagina 
Con l’espressione filosofia in pratica si vuole evidenziare la pertinenza pragmatica della riflessione filosofica nello spazio dell’agire sociale, organizzativo e professionale.
Ci si riferisce, in generale, a un operare in stile filosofico - analisi critica, pratiche riflessive e argomentative, attenzione alle tonalità affettive del pensare e dell’agire - nelle situazioni problematiche della vita quotidiana, personale e professionale. Esempi possono essere le questioni relative all’assunzione di ruoli e responsabilità e di decisioni significative, la soluzione di problemi complessi, la ricerca di senso in situazioni difficili e ambigue, la cura delle relazioni e dei percorsi di apprendimento.

giovedì 24 maggio 2012

Lo sguardo di Valentine


Ecco un dipinto del pittore svizzero Ferdinand Hodler.

Quando tempo fa mi è cascato sotto agli occhi, grande è stato il mio disinteresse: un paesaggio spoglio e convenzionale, esteticamente scialbo, ancor più se considerata la data d’esecuzione, 1915. All’epoca c’erano già le avanguardie, i collages, il cubismo e sulla Svizzera stava per abbattersi la tempesta dada che spazzerà via l’idea di arte in voga sin dal Rinascimento. (...)

Per caso o per serendipità qualche settimana fa ritrovo lo stesso dipinto. Identico il mio sentimento di sufficienza, ma questa volta guardo meglio e leggicchio qualcosa. È così che Coucher de soleil sur le lac Léman (conservato al Kunsthaus di Zurigo) diventa uno dei paesaggi più straordinari, potenti e toccanti che conosca.

(...)

25 gennaio 1915, cinque del pomeriggio, davanti a Hodler il lago Lemano, alle sue spalle Valentine. Non emette più alcun suono inarticolato, che della vita costituiva perlomeno il disco rotto. “Valentine non c’è più” si dice Hodler, ma questa frase non genera sofferenza. Il dolore, lungi dall’essere istintivo e irriflesso, dal lacerare con un colpo di sferza il tessuto emotivo, è un lungo esercizio e verrà con il tempo e con la memoria, con un amalgama di abbandono, lucidità, lâcher prise. L’evento traumatico è ora differito. Valentine non è più in quel corpo, in quel letto, in quella stanza. Hodler non sa se è possibile fare un ritratto di questa “cosa” che era Valentine, di questa “cosa” dentro cui c’era Valentine, non sa se questa “cosa” porta ancora il suo nome o se questo nome è ormai solo il brusio dell’esistenza senza esistente. Per tre mesi l’ha dipinta a letto, il suo sguardo fisso su di lei. Un modo per trascorrere il tempo, ma anche per prendere le distanze dalla malattia e dalla morte, per frapporre tra lui e l’amata una superficie vuota da riempire, la texture spianata della tela che rimuove la pelle increspata di Valentine.

Hodler distoglie lo sguardo e si affaccia alla finestra, l’unica feritoia che spezza l’uniformità anonima della sala ospedaliera. Quello che era presente negli ultimi tre mesi e che resterà per chissà quanti secoli ancora è lì fuori: è il solito paesaggio svizzero che ha dipinto per una vita, l’ottuso imperituro saliscendi delle montagne, il lago smaltato e sordo, la terra aspra. Per esistere non ha bisogno del nostro sguardo. Vive in una temporalità, vive di una temporalità a noi estranea. È un paesaggio indifferente, senza reciprocità, non più simbolicamente legato all’uomo e al suo posto nell’universo. Ciononostante, mai come oggi è un paesaggio necessario. Hodler lo conosce così bene che non ha neanche bisogno di guardarlo, può dipingerlo a occhi chiusi. Un paesaggio realizzato da un cieco, da chi guarda senza mettere a fuoco alcun particolare, in cui tra l’umano e il reale risuona solo una comune indifferenza. Lascia fare la mano, senza accenti, senza drammatizzazione. Hodler si fa cieco come Valentine. Questo è del resto il paesaggio che Valentine ha visto negli ultimi tre mesi.

E come noi prendiamo in prestito lo sguardo di Hodler, Hodler prende in prestito lo sguardo di Valentine. Oggi, 25 gennaio 1915, per la prima e unica volta, Hodler non dipinge Valentine. Né dipinge il tramonto sul lago Lemano. Si spinge là dove non aveva ancora osato spingersi, un gesto tanto più estremo che rischia di passare inosservato, come è capitato a me che con gli occhiali della storia dell’arte non vedevo più niente e mai avrei sospettato che Maurice Blanchot mi sarebbe stato più d’aiuto.

Oggi Hodler dipingerà lo sguardo stesso di Valentine.


Tratto da "Lo sguardo di Valentine"  di Riccardo Venturi 

mercoledì 23 maggio 2012

Le Voci dei Libri

Se non temessi di scomodare i paradigmi eminenti del metodo, nel tentativo di dare una dignità non pertinente alla vicenda dimessa dello studio quotidiano, direi che la ricerca è, in prima battuta, una lettura di testi che lascia andare le cose quasi per proprio conto, come un girare delle sfere che non trova la propria regola se non alla fine, quando tutto si è messo a posto (il che è poi, almeno in parte, un inganno, perché vuol dire che si è trovato il modo di far tornare i conti in un discorso che all'inizio sembrava senza dimensione).

 Il punto di partenza di questa avventura del senso, l'unico ancoraggio possibile, è la biblioteca, cui sempre si ritorna. Da questo punto di vista si è come il personaggio mitico che ritraeva forza dal toccare terra; la biblioteca è la terra del ricercatore: essa ridà forza, ridà idee, è l'umanità convenuta per servirti, per darti una mano. Solenne e domestica, la biblioteca sta a metà fra un tempio e una cucina.

Ezio Raimondi, Le Voci dei Libri, Il Mulino, Bologna, 2012

venerdì 18 maggio 2012

Ascoltare con l'anima

Ascoltate la musica con l’anima.
Non sentite un essere interiore che vi si risveglia dentro?
È per lui che la testa si alza, le braccia si sollevano.

Isadora Duncan



Certo, non occorreva la musica più eccelsa per le favole del balletto classico, ma per esprimere la religione, la morte, la passione o l’eroismo, Bach, Chopin, o Beethoven erano indispensabili: tramite loro le angosce o le certezze potevano “prendere corpo”, e questo corpo glielo dava Isadora Duncan.

Da questo corpo, perché lasciasse passare il messaggio, bisognava alla fine sprigionare il movimento; liberarlo dai modelli classici, dalle regole prefissate, perché potesse esprimere tutte le emozioni umane. Bisognava che questo movimento invadesse tutto il corpo e non solo le gambe.

A Isadora Duncan non piaceva né la formazione della danza classica né quella della ginnastica svedese, perché, diceva, lo sviluppo del corpo o di un determinato movimento è fine a se stesso. Anche nell’allenamento alla danza, prima con la ginnastica che prepara il corpo ad obbedire a qualunque comando, poi con la danza stessa, nessun esercizio deve essere astratto dal significato vitale dello spirito che lo anima: nessun esercizio, diceva, deve essere solo un mezzo per arrivare a un fine, ma un fine in sé, fine che era quello di fare ogni giorno della vita un’opera completa e felice.

Lo sforzo principale era uno sforzo di spogliamento: perché l’espressione raggiunga il massimo di intensità bisogna epurarla da tutto ciò che è aneddotico e individuale. È così che le opere delle arti plastiche raggiungono la monumentalità e irradiano al di là del quotidiano i grandi simboli della vita.

da Roger Garaudy, Danzare la vita, Cittadella 1999

martedì 15 maggio 2012

Onde e Nuvole

Gli oceani al di sopra e al di sotto dell'orizzonte sono intimamente collegati. Come si legge nel libro della Genesi, quando Dio diede origine alla vita per prima cosa mise in moto i mari: In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Il giorno dopo «separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento». In altre parole, Dio divise gli oceani in basso dalle nuvole in alto tramite una distesa d'aria.

L'affinità tra cielo e mare, addirittura la discendenza comune, implica che, a sua insaputa, un contemplatore di nuvole sia anche un osservatore di onde, poiché spesso le nuvole nascono su onde d'aria.
 (...)
Nuvole e onde marine non hanno in comune solo l'occasionale somiglianza. L'infrangersi delle onde svolge un ruolo delicato nella formazione delle nuvole. Quando le creste si riversano sulla spiaggia, la turbolenza genera infinite bollicine che scoppiano, liberando nell'aria una sottile bruma di goccioline d'acqua. Mentre l'acqua evapora, le microparticelle di sale che fluttuano nell'aria e che possono raggiungere l'atmosfera sono tra i più efficaci «nuclei di condensazione» da cui dipende gran parte della formazione delle nuvole. Fungono infatti da semi su cui il vapore acqueo invisibile presente nell'aria può cominciare a condensarsi e a formare le goccioline che noi vediamo come nubi basse. Non dico che l'infrangersi delle onde generi direttamente le nuvole sovrastanti, ma garantisce che i nuclei di condensazione, importanti elementi della formazione delle nubi, aleggino sempre nella bassa atmosfera.

Il processo funziona anche in senso contrario perché le nuvole, quelle temporalesche almeno, svolgono un ruolo di rilievo nella formazione delle onde. Potrà sembrare sorprendente, quando si osservano le onde che lambiscono dolcemente la spiaggia di un luogo di villeggiatura esotico. Dall'ombra di una palma ondeggiante sembrano placide e tranquille, come il respiro pacato del mare in cui ogni sinuosa espirazione segue incessantemente la precedente. Il loro arrivo leggiadro, però, nasconde la crescita travagliata delle onde. Queste serene visitatrici sono spesso nate nel bel mezzo del caotico subbuglio ventoso di un temporale al largo, che ormai si è dissipato da tempo.

Come fanno le onde a formarsi in un temporale? E come fanno inoltre a passare dalla confusione increspata alla processione ordinata di creste che si riversano sulla spiaggia dinanzi a noi? Per avere le risposte occorre studiarne il viaggio nel mare, seguire ogni fase del loro progresso, dalla nascita al largo fino alla morte spumosa sulla riva.

Da GavinPretor-Pinne, Wave Watching - Una guida illustrata per l'osservatore di onde, Guanda, Parma, 2011

mercoledì 9 maggio 2012

Inferno e paradiso

Un sant'uomo ebbe un giorno da conversare con Dio e gli chiese: «Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l'Inferno». Dio condusse il sant'uomo verso due porte. Ne aprì una e gli permise di guardare all'interno. C'era una grandissima tavola rotonda. Al centro della tavola si trovava un grandissimo recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Il sant'uomo sentì l'acquolina in bocca.

Le persone sedute attorno al tavolo erano magre, dall'aspetto livido e malato. Avevano tutti l'aria affamata. Avevano dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle loro braccia. Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po', ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio non potevano accostare il cibo alla bocca.
Il sant'uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro sofferenze. Dio disse: "Hai appena visto l'Inferno".

Dio e l'uomo si diressero verso la seconda porta. Dio l'aprì.
La scena che l'uomo vide era identica alla precedente. C'era la grande tavola rotonda, il recipiente che gli fece venire l'acquolina. Le persone intorno alla tavola avevano anch'esse i cucchiai dai lunghi manici. Questa volta, però, erano ben nutrite, felici e conversavano tra di loro sorridendo. Il sant'uomo disse a Dio: «Non capisco!» - E' semplice, - rispose Dio, - essi hanno imparato che il manico del cucchiaio troppo lungo, non consente di nutrire sé stessi.... ma permette di nutrire il proprio vicino. Perciò hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! Quelli dell'altra tavola, invece, non pensano che a loro stessi...Inferno e Paradiso sono uguali nella struttura...La differenza, la portiamo dentro di noi!

Storia trovata in rete

sabato 5 maggio 2012

Fare la storia

Non è accessibile alla ragione umana la conoscenza delle cause dei fenomeni, ma è insita nello spirito dell'uomo l'esigenza della ricerca. E la mente dell'uomo, che non è capace di penetrare la complessità e le infinite condizioni dei fenomeni, ognuno dei quali, preso isolatamente, potrebbe apparire come una causa, afferra il primo e più comprensibile accostamento e dice: la causa è questa. Negli eventi storici (nei quali le azioni degli uomini costituiscono oggetto di osservazione) si presenta, quale primitivo accostamento, la volontà degli dèi, poi la volontà di quegli uomini che occupano i posti più in vista nella storia, cioè degli eroi. Ma è sufficiente penetrare nella sostanza di ogni avvenimento storico, ossia nell'attività di tutta la massa degli uomini che hanno preso parte all'avvenimento stesso, per convincersi che la volontà dell'eroe storico non solo non guida le azioni delle masse, ma ne è essa medesima continuamente guidata.
Sembrerebbe indifferente capire il significato di un avvenimento storico in un modo o in un altro. Eppure tra l'uomo che afferma che i popoli dell'occidente mossero verso l'oriente perché tale fu la volontà di Napoleone e quello che afferma che ciò è avvenuto perché doveva avvenire, esiste la stessa differenza che esiste tra coloro che sostenevano che la terra è immobile e i pianeti si muovono attorno a essa e coloro che dicevano di ignorare su che cosa la terra si regga, ma di sapere che esistono leggi che regolano sia il movimento della terra sia quello degli altri pianeti. Non ci sono e non ci possono essere cause di un evento storico all'infuori dell'Unica Causa di tutte le cause. Ci sono tuttavia leggi che regolano tali eventi, leggi che in parte conosciamo e in parte cerchiamo di scandagliare. La scoperta di tali leggi sarà possibile soltanto quando avremo rinunziato a cercare le cause nella volontà di un solo uomo, così come la scoperta delle leggi del movimento dei pianeti è stata possibile soltanto quando gli uomini desistettero dall'idea di considerare la terra immobile.

Lev N. Tolstòj, Guerra e Pace