martedì 31 gennaio 2012

Deserti della nostra epoca


Anno 1986. Discorso su una mareggiata che ha investito e distrutto lunghi tratti di litorale adriatico. Dal volume Traversate del deserto, Edizioni Essegi, Ravenna, curato da Vilmes Rabboni, Gianni Celati, Luigi Ghirri, Roberto Papetti, Giovanni Zaffagnini, Guido Mazzara e altri.
Scrive Max Frisch in Stiller(1): «Quanto deserto vi è su questo pianeta che ci ospita non l'avevo mai saputo prima, l'avevo soltanto letto; né mai avevo saputo fino a qual punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d'una piccola oasi, inverosimile come la grazia».

Tra questa intuizione e la mareggiata che recentemente ha investito il litorale adriatico, facendoci scoprire ad un tratto che trenta o quaranta chilometri di costa, già devastati dal turismo e dalle speculazioni, sono un puro deserto senza ripari – tra queste due illuminazioni c'è un filo di pensiero che, se sviluppato, ci porta a vedere il deserto sulla soglia d'ogni luogo abitato, d'ogni nostra casa, e alla fine ci porta anche a vedere il carattere illusorio d'ogni addomesticamento del pianeta.

Questo filo di pensiero dice anche che noi non siamo i padroni del pianeta, benché questa sia la nostra convinzione più profonda. Ci dice che la nostra dimora è sempre precaria, benché lo sforzo delle civiltà moderne consista nel far scordare agli uomini la precarietà della loro presenza. Ci dice infine che, in questa tarda fine d'epoca, non c'è alcun lavoro di ricerca con qualche autenticità, senza riferimento all'emblema del deserto. Perché è il deserto che alla fine poeti e fotografi, narratori e filosofi, hanno sempre di fronte, quando mandano richiami verso il mondo.

Questo è un emblema non solo della nostra miseria epocale, ma anche dell'enorme sforzo immaginativo che è richiesto da ogni attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto che ci avvolge, miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si negano a vicenda: e avremo allora deserti che sono immagini di pienezza, la grazia della piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all'orizzonte, la parola ritrovata per mezzo del silenzio, gli uomini come piante, le ere mitiche come paesaggio quotidiano, e il vento volatore che attraversa la valle.

Ma quando miseria e immaginazione, deserto e pienezza, parole e silenzio, vengono forzatamente separati per operare delle «chiare ripartizioni» (cosa si chiede, infatti, agli esperti, se non di operare delle «chiare ripartizioni»?), allora inizia la devastazione senza ripari, nei terreni, nell'aria, nelle acque e nella mente.

La miseria incosciente comincia a prendere se stessa per ricchezza: e comincia a sostituire l'immaginazione con surrogati rappresentativi, in cui il deserto e il vuoto sono negati, dimenticati, man mano che cresce la desertificazione del mondo e l'esposizione a una grande precarietà – come sul litorale adriatico. Grazie a tanta incoscienza, man mano che la precarietà non è più ricordata come qualità originaria della nostra dimora, ma pensata come insufficienza momentanea e rimediabile, allora perde valore: perché «l'inverosimile grazia della piccola oasi», di cui parla Max Frisch, viene data per scontata come il funzionamento d'una lavatrice.

Sono i segni di un'epoca in cui il deserto diventa sempre più il cammino da riprendere, la via da ritrovare, il silenzio da attraversare per poter ancora parlare con gli altri. Negli scrittori e fotografi qui presentati, il deserto è questo cammino: è la via del silenzio, la celebrazione della piccola oasi, la scoperta di qualche traccia mitica baluginante, o accecante, o commovente, la presenza d'un fiore, d'un animale, d'un sasso, nell'indifferente deserto planetario – ciò che comunque si chiama Natura.

Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Ed. Quodlibet, Macerata, 2011


(1)    Max Frisch, Stiller, Mondadori, Milano, 1991

lunedì 30 gennaio 2012

Dialoghi a soggetto: Primo incontro 2 febbraio - Precario o Stabile?


"Ecco il nostro vero stato. Esso ci rende incapaci di conoscere perfettamente e d’ignorare del tutto. Noi vaghiamo sopra un centro assai vasto, sempre incerti e sempre malsicuri, sbandati da un capo all’altro. Qualche termine, a cui pensiamo talvolta di attaccarci per renderci stabili, barcolla e ci sfugge, e se noi lo seguiamo, esso si libera dalla nostra stretta per sfuggirci per sempre. Nulla si arresta per volontà nostra! Questo stato che ci è naturale è pertanto il più contrario alla nostra inclinazione: noi ardiamo dal desiderio di trovare un fondo solido e una base costante che si elevi all’infinito; ma tutto il nostro fondamento crolla e la terra si apre fino agli abissi. E’ inutile dunque cercare sicurezza e stabilità. La nostra ragione è sempre in balìa dell’incostanza e delle apparenze: nulla può stabilire il finito tra due infiniti che lo abbracciano e lo schivano" (Blaise Pascal, Pensieri).

Il cardine dell’etica classica è l’ideale della fedeltà a se stessi. L’uomo greco, in analogia con la divinità alla quale vuole rendersi simile, fa in modo di incarnare desideri, volizioni e comportamenti sempre costanti. L’inimicizia e il disaccordo con se stessi sono il sintomo di un’anima lacerata, trascinata in direzioni opposte e soggetta al tumulto di fazioni in conflitto. All’estremo pericolo della scissione del Δαίμων (anima), il saggio antico oppone l’imperativo della componibilità e dell’armonia delle proprie virtù. Con l’avvento della modernità, invece, agli ideali dell’equilibrio, della costanza e dell’armonia, si sostituisce una consapevolezza nuova: 'conoscere se stessi' significa allora dover prendere atto dell’insufficienza e della vacuità della natura umana, mostrarsi come si è, fondere, in uno stesso atto, ricerca di autenticità, coscienza della finitudine e volontà di autoaffermazione. Il mondo contemporaneo sembrerebbe riprodurre, con peso aggravato, la dicotomia tra queste due opposte concezioni del mondo. Quale, tra i due poli dialettici, è in grado di rendere conto della realtà del nostro presente? Che cosa si intende per stabilità? Essa costituisce un fine in sé? E’ sempre auspicabile? E la precarietà è necessariamente una condanna? Non potrebbe costituire il movente per un rinnovamento culturale? E quanto è fruttuoso persistere in questa dicotomia apparentemente inconciliabile?

Il 2 febbraio inizia, allo Spazio dell'Anima, il ciclo di incontri Dialoghi a Soggetto.
Quattro giovani filosofi invitano a prestare i sensi al servizio del più grande tra i beni comuni, l’alleanza che ogni persona può stringere con il desiderio di una vita piena e consapevole.

Gli appuntamenti sono: il 2 febbraio, il 1 marzo, il 29 marzo, il 26 aprile e il 24 maggio alle 20,30 sempre allo Spazio dell'anima. La partecipazione è libera.

Poichè, come chi ci conosce sa, ci piace nutrire l'anima senza dimenticare il corpo, prima degli incontri, dalle 19,30 alle 20,30 sarà possibile consumare un aperitivo trascorrendo insieme un primo momento conviviale. Per questo è richiesto un piccolo contributo: 5 euro per soci e studenti, 8 euro per chi non è socio.

venerdì 27 gennaio 2012

Flânerie

(...) Non molto addietro, in sul finire d'una sera d'autunno, me ne stavo seduto davanti alla grande vetrata del caffè D., a Londra. Ero stato ammalato per lunghi mesi e, allora, appena convalescente, mentre man mano mi tornavano le forze, ero in una di quelle beate disposizioni dell'animo che hanno le caratteristiche opposte a quelle della noia, quando cioè gli appetiti morali sono ben tesi, e il velo che annebbia la mente è squarciato nel mentre che l'intelletto, come elettrizzato, supera di molto le sue giornaliere capacità, al modo medesimo che il nitido razionalismo di Leibniz vince sulla stolida e melliflua oratoria di Gorgia. Lo stesso respiro m'era un godimento senza pari. E persino le innumeri origini dei miei malanni, in quel momento, non mi davano che gioia. Provavo un sereno e pur profondo interesse in qualsiasi oggetto. Con un sigaro in bocca e una gazzetta sulle ginocchia, mi ero divertito ora a leggere gli avvisi economici, ora ad esaminare la promiscua clientela del caffè, ora a guardare al di là dei vetri appannati dal fumo della strada.
Quest'ultima era una delle principali arterie della città ed era stata affollata l'intero dì. La calca s'era ispessita all'imbrunire, ogni istante di più, sino a che, all'accendersi dei becchi, cominciò a fluire in due opposte direzioni dense e continue. Non mi ero mai trovato, in quel particolare momento della sera, nella disposizione d'animo in cui mi trovavo allora, e il mareggiare in tumulto di quella folla di teste umane mi empiva d'una deliziosa e fresca emozione. Per modo ch'io cessai affatto di prendere un qualsiasi interesse a ciò che accadeva nel caffè e mi concentrai, per contro, su quel che vedevo accadere di fuori.
Le mie osservazioni furono, da principio, astratte e generiche. Cominciai col considerare i passanti sotto il loro aspetto di massa e avendo la mente solo ai loro rapporti collettivi. Ma venni dipoi, e gradualmente, ai particolari e m'applicai in un minuto esame allo scopo di vagliare la diversità dei tipi dai loro vestiti, dall'aspetto, dall'andatura, dai volti e dall'espressione, infine, delle loro fisionomie.
(...)
E come la notte avanzava, più cresceva in me l'interesse per quello spettacolo. E non soltanto perché la folla mutava, col rarefarsi dei migliori, i suoi tratti più nobili e accentuava, col graduale eruttar delle infamie, i più volgari, ma anche perché la luce dei becchi di gaz, flebile, dapprima, nella sua lotta col giorno che moriva, andava man mano rinfrancandosi e avviluppando gli oggetti col suo spasmodico, abbagliante brillio. Tutto era nero ma tutto, insieme, riluceva, simile a quell'ebano cui fu paragonato lo stile di Tertulliano.
Edgar Allan Poe Da L'uomo della Folla

martedì 24 gennaio 2012

Verità e caricature


(...) A tavolino, lo scrittore lavorò per un’ora. Alla fine scrisse un libro che chiamò Il libro delle caricature. Non fu mai pubblicato, ma io lo vidi una volta e ne ebbi un’impressione incancellabile. C’era nel libro un pensiero centrale, molto singolare, che mi è sempre rimasto in mente. Quel pensiero mi ha permesso di capire molte persone e molte cose che prima non ero mai riuscito a capire. Il pensiero, naturalmente, non era espresso, ma una semplice esposizione di esso suonerebbe press’a poco così:

In principio, quando il mondo era giovane, c’erano molti pensieri ma non esisteva nulla di simile a una verità. Le verità le fabbricò l’uomo, e ogni verità fu composta da un grande numero di pensieri imprecisi. Così in tutto il mondo ci furono verità. Ed erano meravigliose.

Il vecchio aveva elencato nel suo libro centinaia di verità. Io non cercherò di riferirvele tutte. C’erano la verità della verginità e la verità della passione, la verità della ricchezza e quella della povertà, della modestia e dello sperpero, dell’indifferenza e dell’entusiasmo. Centinaia e centinaia erano le verità, ed erano tutte meravigliose. Poi veniva la gente. Ognuno appena compariva, si gettava su una delle verità e se ne impadroniva; alcuni, molto forti, arrivavano a possederne una dozzina contemporaneamente.

Erano le verità che trasformavano la gente in caricature grottesche. Il vecchio aveva una sua complessa teoria a questo proposito. Era sua opinione che quando qualcuno s’impadroniva di una verità, e diceva che quella era la sua verità e si sforzava di vivere secondo essa, allora costui si trasformava in una caricatura, e la verità che egli abbracciava, in una menzogna.

Da Sherwood Anderson “Racconti dell’Ohio” Einaudi, 2000

venerdì 20 gennaio 2012

Le Vie dei Canti

In principio la Terra era una pianura sconfinata e tenebrosa, separata dal cielo e dal grigio mare salato, avvolta in un crepuscolo indistinto. Non c’erano né Sole né Luna né Stelle. Tuttavia, molto lontano, vivevano gli Abitanti del Cielo: esseri spensierati e indifferenti, dalle fattezze umane ma con zampe da emù, e capelli dorati lucenti come ragnatele al tramonto; erano senza età e perennemente giovani, poiché esistevano da sempre nel loro verde Paradiso lussureggiante al di là delle Nuvole occidentali.
Sulla superficie della Terra si vedevano soltanto le buche che un giorno sarebbero diventate i pozzi. Non c’erano né animali né piante, ma molli masse di materia concentrate intorno alle buche: grumi di minestra primordiale, silenziosi, ciechi, senza respiro né veglia né sonno: ciascuno aveva in sé l’essenza della vita o la possibilità di diventare umano.
Ma sotto la crosta della Terra brillavano le costellazioni, il Sole splendeva, la Luna cresceva e calava, e giacevano nel sonno tutte le forme di vita: il fiore scarlatto di un pisello del deserto, l’iridescenza di un’ala di farfalla, i vibranti baffi bianchi di Vecchio Uomo Canguro – assopiti come i semi del deserto che devono aspettare un acquazzone di passaggio.
Il mattino del Primo Giorno, al Sole venne una gran voglia di nascere. (Quella sera le Stelle e la Luna lo avrebbero imitato). Il Sole squarciò improvvisamente la superficie e inondò la Terra di luce dorata, riscaldando le buche in cui dormiva ogni Antenato.
Questi Uomini dei Tempi Antichi, diversamente dagli Abitanti del Cielo, non erano mai stati giovani. Erano vecchi zoppi e stremati dalla barba grigia e le membra nodose, e per tutti i secoli avevano dormito in solitudine.
Accadde così che quel primo mattino ogni Antenato dormiente sentisse il calore del Sole premere sulle proprie palpebre e il proprio corpo che generava dei figli. L’Uomo Serpente sentì i serpenti strisciargli fuori dall’ombelico. L’Uomo Cacatua sentì le piume. L’Uomo Bruco sentì una contorsione, la Formica del Miele un prurito, il Caprifoglio sentì schiudersi foglie e fiori. L’Uomo Bandicoot sentì piccoli bandicoot che fremevano sotto le sue ascelle. Ogni «essere vivente », ciascuno nel suo diverso luogo di nascita, salì a raggiungere la luce del giorno.
In fondo alle loro buche (che ora si stavano riempiendo d’acqua) gli Antenati distesero una gamba, poi l’altra. Scrollarono le spalle e piegarono le braccia. Si alzarono facendo forza contro il fango. Le loro palpebre si aprirono di schianto: videro i figli che giocavano al sole.
Il fango si staccò dalle loro cosce, come la placenta da un neonato. Poi, come fosse il primo vagito, ogni Antenato aprì la bocca e gridò: « lo sono! ». « Sono il Serpente … il Cacatua … la Formica del Miele … il Caprifoglio … ». E questo primo « lo sono! », questo primordiale «dare nome », fu considerato, da allora e per sempre, il distico più sacro e segreto del Canto dell’Antenato.
Ogni Uomo del Tempo Antico (che ora si crogiolava al sole) mosse un passo col piede sinistro e gridò un secondo nome. Mosse un passo col piede destro e gridò un terzo nome. Diede nome al pozzo, ai canneti, agli eucalipti: si volse a destra e a sinistra, chiamò tutte le cose alla vita e coi loro nomi intessé dei versi.
Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono stanchi. Di nuovo sentirono nelle membra la gelida immobilità dei secoli. Alcuni sprofondarono nel terrreno, lì dov’erano. Altri strisciarono dentro le grotte. Altri ancora tornarono lentamente alle loro «Dimore Eterne», ai pozzi ancestrali che li avevano generati. Tutti tornarono «dentro». (…)
I bianchi, cominciò Flynn, commettevano comunemente l’errore di pensare che gli aborigeni, non essendo stanziali, non avessero nessun sistema che regolasse il possesso della terra. Era una sciocchezza. La verità era che gli aborigeni non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di «vie» o «percorsi».
«Tutte le nostre parole per “paese” » disse « sono le stesse che usiamo per “via” ». Il perché si spiegava facilmente. Gran parte dell’outback australiano era costituito da aride distese di arbusti o da deserto sabbioso; là le precipitazioni erano sempre irregolari e a un anno di abbondanza potevano seguire sette anni di carestia. In un paesaggio simile, muoversi voleva dire sopravvivere, mentre rimanere nello stesso posto voleva dire suicidarsi. Il «paese natale» di un uomo era definito «il posto in cui non devo chiedere». Però, sentirsi «a casa» in quel paese dipendeva dalla possibilità di lasciarlo. Ognuno sperava di avere almeno quattro «vie d’uscita» da seguire in tempo di crisi. Ogni tribù – volente o nolente – doveva intrattenere rapporti con i suoi vicini.
«Così, se A aveva la frutta», disse Flynn «B aveva le anatre e C un giacimento d’ocra, c’erano regole formali per lo scambio di questi prodotti, e itinerari formali per metterlo in pratica».
Quello che i bianchi chiamavano walkabout era in pratica una specie di telegrafo del bush con servizio di Borsa, che diffondeva messaggi tra popoli che non si vedevano mai e che avrebbero potuto ignorare l’esistenza degli altri. «Questo commercio» disse «non era il commercio che conoscete voi europei. Non era il mestiere di comprare e vendere per profitto! Il nostro popolo barattava sempre alla pari ». Gli aborigeni, in generale, erano convinti che tutte le merci fossero potenzialmente nocive e che avrebbero danneggiato i loro proprietari a meno che questi fossero perennemente in moto. Le « merci» non dovevano necessariamente essere commestibili, né utili. Nulla piaceva di più alla gente che barattare cose inutili – o cose che poteva procurarsi da sé: piume, oggetti sacri, cinture di capelli umani.
«Lo so» lo interruppi. «Qualcuno barattava il suo cordone ombelicale». «Vedo che ti sei documentato». Le «merci », proseguì, dovevano piuttosto esser considerate fiches di un gioco gigantesco, il cui tavolo era il continente intero e i giocatori tutti i suoi abitanti. Le «merci» simboleggiavano intenzioni: commerciare ancora, incontrarsi di nuovo, stabilire frontiere, combinare matrimoni, cantare, danzare, condividere risorse e condividere idee.
Una conchiglia poteva passare di mano in mano, dal Mare di Timor alla Gran Baia, lungo «strade» tramandate dal principio dei tempi. Queste «strade» correvano lungo la linea di immancabili pozzi naturali. I pozzi, a loro volta, erano centri rituali dove si radunavano uomini di tribù diverse. (…)
«Vuoi dire che un itinerario degli scambi passa sempre per una Via del Canto?». «L’itinerario degli scambi è la Via del Canto» disse Flynn. « Perché sono i canti, non gli oggetti, il principale strumento di scambio. Il baratto degli “oggetti” è la conseguenza secondaria del baratto dei canti». Prima dell’arrivo dei bianchi, continuò, in Australia nessuno era senza terra, poiché tutti, uomini e donne, ereditavano in proprietà esclusiva un pezzo del canto dell’Antenato, e la striscia di terra su cui esso passava. I versi erano come titoli di proprietà che comprovassero il possesso di un territorio. Si poteva prestarli a qualcuno, e in cambio si poteva farsene prestare degli altri. L’unica cosa che non si poteva fare era venderli o sbarazzarsene.
Se per esempio gli Anziani di un clan del Pitone variegato decidevano che era tempo di cantare il loro ciclo di canti dall’inizio alla fine, inviavano messaggi lungo la pista, a nord, a sud, da tutte le parti, e convocavano nel Gran Posto i proprietari dei canti. Allora, uno dopo l’altro, tutti i proprietari cantavano il loro pezzo di orme dell’Antenato. Sempre nella sequenza esatta!
«Invertire l’ordine dei versi» disse cupamente Flynn «era un delitto. Di solito veniva punito con la morte ».
«Sfido» dissi. «Sarebbe l’equivalente musicale di un terremoto». « Peggio» disse accigliandosi. «Sarebbe distruggere il Creato ». «Un Gran Posto,» proseguì «ovunque fosse, era probabilmente il punto d’incontro di altri Sogni. Perciò ai tuoi corroboree partecipavano magari quattro clan totemici diversi, appartenenti a varie tribù, e tutti si scambiavano canti, danze, figli e figlie. e si concedevano “diritti di passaggio” reciproci ».
«Quando avrai girato un po’ di più» disse, e si voltò verso di me «sentirai parlare di uomini che “apprendono la conoscenza rituale”». Questo significava semplicemente che l’uomo stava estendendo la mappa del suo canto; stava ampliando le sue opportunità, tramite il canto stava esplorando il mondo.
« Immagina due aborigeni» disse «che si incontrano per la prima volta in un pub di Alice Springs. Uno proverà con un sogno, l’altro proverà con un altro. Poi scatterà di sicuro qualcosa … ». «E segnerà l’inizio di una bella amicizia bevereccia» esclamò Arkady. Alla battuta risero tutti tranne Flynn, che contiinuò a parlare. Il passaggio successivo, mi disse, era capire che ogni ciclo di canti scavalcava le barriere linguistiche, a dispetto di tribù e frontiere. Magari una Pista del Sogno iniziava a nord-ovest, nei pressi di Broome; si faceva strada tra venti o più lingue, e proseguiva fino a raggiungere il mare vicino a Adelaide.
«E tuttavia» dissi «è sempre lo stesso canto ».
« Il nostro popolo» continuò Fiynn «dice di riconoscere un canto dal “gusto” o dall’ ”odore” … e ovviamente vuol dire dalla melodia. La melodia rimane sempre quella, dalle prime battute al finale». «Le parole possono cambiare» si intromise di nuovo Arkady «ma la musica resta uguale». «Vuoi dire che un giovane in walkabout, purché sappia cantare la melodia anche senza le parole, potrebbe attraversare cantando tutta l’Australia?» domandai. «In teoria sì» convenne Flynn.
Da Bruce Chatwin, Le vie dei Canti, Adelphi)

martedì 17 gennaio 2012

Parole come immagini



Progetto di Ji Lee, designer e direttore creativo di Facebook.

giovedì 12 gennaio 2012

Elogio dei piedi di Erri del Luca

Perché reggono l’intero peso.
Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi.
Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare.
Perché portano via.
Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali.
Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica.
Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare.
Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura.
Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Pushkin.
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante.
Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio.
Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo.
Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi.
Perché sono stati crocefissi.
Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere di qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio.
Perché, come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.

martedì 10 gennaio 2012

Silenzio

Infatti in questa nuova musica non accade nulla oltre ai suoni, quelli scritti e quelli non scritti. Quelli non scritti compaiono nella partitura come silenzi, aprendo le porte della musica ai suoni dell’ambiente circostante. È un’apertura che riscontriamo anche nel campo dell’architettura e della scultura moderne. I palazzi di vetri di Mies van der Robe riflettono l’ambiente circostante e offrono allo sguardo squarci di nuvole, alberi o prati, a seconda della situazione. E mentre ammiri le strutture in fil di ferro dello scultore Richard Lippold, è inevitabile che nel reticolo tu scorga altre cose, persone comprese, se si trovano lì in quel momento preciso. Non esistono cose come lo spazio vuoto o il tempo vuoto. C’è sempre qualcosa da vedere, qualcosa da udire. Anzi, per quanto ci possiamo sforzare di creare un silenzio non ci riusciremo mai. In certe circostanze tecniche potrebbe essere auspicabile ottenere una situazione la più silenziosa possibile, cioè l’ambiente chiamato camera anecoica, sei pareti di materiale insonorizzato allestito in modo da ottenere una camera priva di echi. Parecchi anni fa a Harvard sono stato in uno spazio del genere e ho sentito due suoni, uno alto e uno basso, e quando li ho descritti al tecnico incaricato questi mi ha spiegato che il suono ad alta frequenza era il mio sistema nervoso in funzione, quello basso era la circolazione del sangue. Sino alla fine dei miei giorni ci saranno suoni, e seguiteranno anche dopo la morte. Non c’è nulla da temere riguardo al futuro della musica. Però puoi arrivare a questa mancanza di timore soltanto se al bivio, nel punto in cui comprendi che i suoni ci sono che tu lo voglia o no, svolti nella direzione dei suoni che non intendi ascoltare. È una svolta psicologica, e all’inizio sembra una rinuncia a tutto quanto appartiene all’umanità, per un musicista la rinuncia alla musica. Questa svolta psicologica ti porta al mondo della natura, in cui vedi, gradualmente o di un tratto, che l’umanità e la natura non sono separate, ma combinate in questo mondo, e capisci che non hai perso nulla quando hai rinunciato al tutto. Anzi, hai guadagnato tutto. Per dirla in un linguaggio musicale, può presentarsi qualsiasi suono in qualsiasi combinazione e in qualsivoglia continuità.

John Cage, Silenzio, Milano Rimini, Shake, 2010

mercoledì 4 gennaio 2012

Diversamente vive

Fu la falsa notizia di una sua prematura scomparsa a costringere lo scrittore Mark Twain a definire ironicamente «oltremodo esagerate» le voci sulla sua morte. La frase in sé potrebbe benissimo essere ribaltata per attagliarsi alla situazione di Maria di Nazareth, sulla cui morte il senso comune dei fedeli ha avuto sempre la certezza opposta: la madre di Gesú in realtà non è mai morta.

Questa convinzione non dipende dal fatto che nel Nuovo testamento non c'è scritto che lo sia; neanche la morte di san Giuseppe è stata raccontata nei Vangeli, ma per lui non si è sentito il bisogno di inventare dogmi e narrazioni suppletive. È piuttosto una questione di sensibilità dello spirito religioso popolare: passi la morte di Cristo, che era necessaria al nostro riscatto, ma che anche Maria debba morire è cosa che il devoto nei secoli non ha mai potuto nemmeno immaginare. Sulla morte di Maria è calato da tempo un velo di nebbia anche dal punto di vista dottrinale. Da un lato la teologia non ha mai negato che la madre di Cristo fosse defunta, e del resto se è morto Gesú perché non sarebbe dovuta morire Maria? Ma dall'altro i predicatori e i pastori si son sempre guardati dall'offendere la sensibilità popolare rilasciando una troppo esplicita certificazione di decesso.

Dalla concezione immacolata fino alla nascita, dall'annunciazione fino all'assunzione, sul calendario gregoriano esiste una ricorrenza liturgica per ogni momento della vita di Maria tranne che per la sua morte; persino il dogma che ne sancisce l'assunzione al cielo, avvenuta senza dubbio post mortem, non dice mai esplicitamente che la Madonna è deceduta, preferendo affermare con prudenza che l'assunzione ebbe luogo solo dopo che ebbe «terminato il corso della sua vita terrena». Comunque la si voglia presentare, Maria per il cattolicesimo risulta, piú che morta, diversamente viva.

Sebbene la tradizione popolare posizioni la presunta tomba di Maria a Gerusalemme, le agenzie specializzate in turismo religioso la inseriscono tra le mete facoltative nei tour devozionali. Non è tanto la non storicità il motivo del disinteresse - altrove prosperano culti di ben piú imbarazzante infondatezza - quanto la scarsa attrazione verso un luogo dove, almeno nella percezione dei fedeli cattolici, Maria di Nazareth non è in realtà mai stata seppellita.
P
er i cristiani ortodossi la questione è se possibile ancora piú radicale, perché della teorizzazione della non morte della madre di Gesú sono state proprio le Chiese d'Oriente a dare la poetica definizione di Dormitio Mariae, assimilando lo stato di morte al massimo grado di passività che sia possibile raggiungere restando in vita: il sonno. Per questo anche in Italia tutti i territori che sono stati a lungo sotto l'influenza bizantina venerano la Madonna Assunta in posizione orizzontale, dormiente, incoronata come una regina e distesa su un letto sontuoso vegliato discretamente da angeli oranti.

La sensibilità popolare ha idee molto chiare in merito allo stato di questa particolare tipologia di bella addormentata. Nel mio paese d'origine, dove la chiesa patronale è dedicata proprio a questa specifica raffigurazione dell'Assunta, la preghiera popolare afferma senza tentennamenti che «morta no, ma ses dormída, santamente reposende». Dormída, cioè addormentata. Non esistono raffigurazioni artistiche di Maria morta che abbiano mai avuto qualche fortuna popolare. Quando Caravaggio provò a rompere il tabú, dipingendo il capolavoro Morte della Vergine, che la leggenda vuole ispirato al corpo esanime di una prostituta annegata nel Tevere, si vide rimandare indietro l'opera dai frati committenti, offesi dal realismo blasfemo di quel corpo gonfio e livido. L'assunzione al cielo di Maria ha infatti nella devozione popolare, o anche solo nell'immaginario culturale, una raffigurazione del tutto diversa, che nega implicitamente che la Vergine sia mai dovuta passare attraverso l'umiliazione del decesso corporeo: viva e vegeta, Maria sale al cielo incoronata in una profusione di luce, circondata da angeli e santi in una solenne cornice di nubi.

Laddove Cristo ancora oggi muore simbolicamente mille volte al giorno su tutti i muri delle nostre scuole, nell'intimità delle nostre case di credenti, dietro i banchi dei tribunali e sui petti siliconati delle soubrette, la morte di Maria è stata cancellata e sottratta alla rappresentazione, cristallizzando per tutte le donne un modello divinizzato a cui nessuna può accostarsi con qualche speranza di identificazione.

Nell'iconografia dominante, quella che ha fondato il nostro immaginario collettivo, la madre di Cristo ha con la morte un rapporto di sola contemplazione: è la Mater Dolorosa ai piedi della croce, icona del dolore permanente al capezzale della fine di un altro. Questo silenzioso Stabat è la pietra miliare della costruzione dell'idea di Maria come vestale afflitta e funzionale, predestinata a divenire il modello ferreo per la femminilità di quasi venti secoli. La donna ai piedi della croce non è solo l'eterna testimone della morte altrui.

Una Madonna che non conosce la propria fine offre alle donne credenti un patto di mimesi insostenibile, perché stipulato con un soggetto simbolico dal corpo intangibile, sottratto al tempo e in definitiva privo di limite. Se la «Maria che non muore» rappresenta la perfezione a cui non giungeremo mai, se è lei - l'Eternamente giovane - l'obiettivo a cui tendere, significa che in questo gioco siamo destinate a perdere comunque, a meno di non ricorrere a espedienti per ridurre la distanza dal modello. Per questo l'ossessione sociale del «restare in forma» deve spingerci a domandarci nella forma di cosa (o di chi) viene chiesto di riconoscersi. La chirurgia estetica in continuo sviluppo, la cosmetica antiage che ci lusinga dagli scaffali e la maniacale manutenzione da palestra a cui ci sottoponiamo non sono solo l'effetto del martellamento pubblicitario che denigra le nostre normalità, ma sono segnali di un desiderio di trasformare il corpo in santuario immutabile, l'indizio dell'incapacità di fare pace con la morte, la nostra.

Il processo di riappropriazione della propria complessità per le donne deve passare attraverso la costruzione di un sano immaginario del limite. È una questione di sopravvivenza, e non solo in rapporto a se stesse, perché la donna rappresentata da Maria offre anche all'uomo un modello inaccessibile e frustrante con cui rapportarsi. Impossibile da possedere, intangibile al tempo e alla sua consunzione, la donna-santuario resta un mistero davanti al quale o ci si inginocchia o si bestemmia.

Michela Murgia, Ave Mary -  Einaudi, Torino, 2011