giovedì 25 luglio 2013

Psicometropoli




Che cos’è Astana? Una città utopica? Un sogno di metallo, vetro e cemento? Un incubo post-sovietico? La sede del futuro regno massonico mondiale? O ancora: Dubai sottozero proprio nel centro della steppa asiatica? Difficile dire a cosa somigli, o cosa ricordi la capitale del ricco stato del Kazakhstan dotato d’immense ricchezze sotterranee (petrolio, gas naturale, uranio, manganese, rame, oro, acciaio, carbone) e grande più dell’Europa intera. Questa Shangri-La del XXI secolo è la capitale edificata ex novo da un visionario capo dell’ex Impero sovietico, il Presidente Nazarbaev. Indipendente dal 1991, il Kazakhstan è governato dal 1994 mediante una costituzione emanata ad hoc dal suo Sovrano democraticamente eletto, che le ha imposto un nome kazako: Astana significa infatti “la capitale”. Ovvero: “il posto dove si prendono le decisioni”; in antico persiano è invece il nome del luogo dove si adora la tomba del santo.

Nel viale centrale dell’immaginifica città s’erge una torre alta alcune centinaia di metri sulla cui sommità è collocata una sfera: il globo d’oro. Disegnata da sir Norman Foster, celebre architetto inglese, rappresenta l’albero magico su cui è assiso l’uccello della felicità: Samkur. Secondo una leggenda locale il globo è il suo uovo. Il tutto in realtà appare simile a un trofeo dall’esorbitante altezza, sottile e astruso, simbolo di un potere che si vuole assoluto e soprattutto capace di produrre quella che Anthony Vidler, in Il perturbante dell’architettura (Einaudi), chiama la psicometropoli. Dall’alto dell’uovo si può osservare il panorama della città, e porre la propria mano nella “cosa”, un tavolo magico ricoperto di simboli sincretici, su cui è impressa l’impronta della mano del Presidente.

La popolazione della capitale è ancora sotto il milione di abitanti, poiché si trova in una delle zone più fredde del pianeta, con escursioni di anche 70 gradi tra estate e inverno, ma è prevedibile che presto i suoi grandi palazzi, simili ai grattacieli eretti da Stalin tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta nel centro di Mosca, saranno abitati da migliaia di persone che affluiranno dalle varie parti del paese. Astana è però una psicometropoli non solo per i suoi simboli, ma prima di tutto per l’eclettismo delle sue forme, cui non corrisponde un contenuto preciso, bensì una evidente forza psichica bizzarra e stordente. La capitale kazakha è un’utopia regressiva, una distopia, rivolta verso il passato, eretta con la volontà di stupire, affascinare, e soprattutto ammonire.

I palazzi ultramoderni, disegnati da Kisho Kurokawa, si mescolano alle riprese dell’architettura viennese del Karl Marx Hoff, ai templi sincretici che ibridano stili persiani e fantasie hollywodiane, alle cupole geodetiche, alle svettanti torri in vetro e acciaio che lasciano il visitatore a bocca aperta nella Pyongyang del capitalismo post-sovietico. Norman Foster ha progettato una gigantesca tenda, Khan Shatyr, di oltre 150 metri di altezza, che ricopre un parco, un fiume, un centro commerciale e una spiaggia. Astana è l’effetto del post-urbanesimo, che nei paesi emergenti dell’Asia si esplica nella costruzione di città-fantastiche, frutto del disegno di autocrati, come è accaduto a Singapore, prototipo delle città cinesi del XXI secolo di cui racconta Rem Koolhaas.

La città kazaka è figlia non solo delle fantasie di un sovrano cripto-massonico, che adora la forma-piramide, ma anche della volontà inconscia di creare sempre nuove città-utopiche, città impossibili, eppure esistenti, come Brasilia di Niemeyer e Chandigarth di Le Corbusier. Gli architetti europei e asiatici hanno trovato alla corte di Nazarbaev il clima giusto per produrre quella tabula rasa del nuovo che nel post-postmodernismo non ha più la preoccupazione di rispondere a forme date, a un progetto organico. Il masterplan della capitale kazaka contempla il succedersi di architetture sempre diverse.

Se ci si aggira tra le piramidi massoniche, centri di forza astrale, e le torri ritorte dei nuovi grattacieli, ci si rende conto che qui l’architettura “prova nostalgia per un momento proiettato in avanti verso un evento che non si è mai verificato” (Vidler). Astana c’è, esiste, ma è allo stesso tempo anche una città fantasma, la realizzazione in materiali nobili e pregiati di un sogno in 3D uscito dallo schermo cinematografico: Las Vegas e la città di Blade Runner, le città invisibili di Calvino e una nuova Brasilia nel gelo asiatico. Una città di simboli e magie, d’incubi e potenze occulte, città giardino e insieme Disneyland massonica, tentativo di concentrare su di sé un potere magico sfuggendo con le proprie simbologie alle strettoie della Storia, per entrare direttamente nel Mito.




giovedì 18 luglio 2013

Melancolia e futuro



Ritorno al futuro è il titolo di un film di successo che narra di una moderna macchina del tempo. Nel cuore degli anni Ottanta, un adolescente della classe media americana e un inventore scombinato si ritrovano nel 1964 col problema di tornare indietro, all'epoca cui appartengono. La pellicola, nella sua semplicità, dà corpo a una sensazione che nell'Occidente capitalistico durante gli ultimi decenni si è sempre più rafforzata: la storia è finita, il picco umano dell'evoluzione tecnico-economica è stato raggiunto, l'unico modo per cambiare il futuro è tornare sui propri passi. La necessità di tornare indietro e fare diversamente, sulla cui realizzazione fantastica ruota l'intera pellicola, è terreno fertile per la coltura delle passioni melanconiche. Le cito al plurale per sottolineare le molte sfumature e le vesti cangianti sotto le quali la melanconia appare: in un paesaggio serale, in una canzone senza pretese, in un odore che riporta indietro verso tempi lontani. La varietà delle forme sensoriali che travestono la melanconia stona però con un dato altrettanto appariscente: la melanconia gode oggi di una reputazione melliflua e stantia. 

Le maldicenze circa questo stato d'animo riguardano gli ambiti più diversi: dall'articolo del quotidiano al saggio filosofico, dalla teoria politica alla critica d'arte il termine "melanconia" è di solito considerato sinonimo, perlomeno parente prossimo, di "triste", "nostalgico", "bloccato nell'agire e nel dire".
Anche le ricerche che negli ultimi cinquant'anni hanno tentato di riabilitarne la storia e mostrarne la complessità hanno rischiato, loro malgrado, di peggiorare la situazione. Saturno e la melanconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964) ha contribuito a legare in modo indissolubile questa passione alla celebre incisione di Dürer con la sua protagonista alata ma immobile.

[…] mentre oggi "melanconia" è divenuto sinonimo di "depressione" e "tristezza nostalgica", alle sue radici la passione che si credeva fosse legata all'azione di una sostanza specifica, la nera bile (la mélaina cholé, da qui il termine italiano), era propria di un temperamento completamente differente. Il melanconico era colui che, messo di fronte a trasformazioni repentine, non riusciva a rendersi subito conto di quel che lui stesso era riuscito a compiere. Nel bene e nel male: nel salvare la città o nell'uccidere i propri compagni, la melanconia è protagonista di una dinamica fatta di azioni e parole volta al cambiamento di una forma di vita.


Marco Mazzeo Melanconia e rivoluzione - Antropologia di una passione perduta, Editori Riuniti, Roma, 2012, Navigazioni

giovedì 11 luglio 2013

Filosofia e mondo del lavoro si possono incontrare?



La Scuola Superiore di Filosofia in Pratica organizza a Roma il Master in Filosofia in pratica nelle organizzazioni complesse.  Inizio: 27 settembre 2013.

Il titolo di questo Corso di alta formazione può suscitare una sorta di duplice spiazzamento. Da una parte sembra veramente strano pensare a una filosofia che sia “pratica” e che si realizzi in attività pratiche e, dall’altra, ancora più strano potrebbe sembrare il fatto di accostare la filosofia alla realtà che tutti noi viviamo quotidianamente nei luoghi di lavoro. 

Ne parliamo con Myriam Ines Giangiacomo presidente della Scuola Superiore di Filosofia in Pratica e direttore didattico del percorso formativo.

VV: Puoi spiegarci prima di tutto che cos’è la “filosofia in pratica”?

MIG: In generale, l’espressione “filosofia in pratica” fa riferimento a un operare in stile filosofico – ad esempio adottando l’analisi critica e le pratiche dialogiche, riflessive e argomentative, e dando attenzione alle tonalità affettive del pensare e dell’agire - nelle situazioni problematiche della vita quotidiana, personale e professionale. Possiamo descrivere la FiP come un’attività specificamente orientata alla riflessione, all’interrogazione e al riconoscimento dei presupposti impliciti che governano la vita, il lavoro e la società. Usa uno stile di riflessione argomentativo e rigoroso per comprendere e affrontare frangenti problematici singolari, e si avvale di competenze disciplinari specifiche per intervenire nelle situazioni complesse.

La FiP ha un ruolo cruciale nello spazio dell’agire sociale, organizzativo e professionale e una generale vocazione “politica” che prende corpo nell’ideale di comunità di ricerca, un ambiente relazionale in cui il dialogo filosofico si propone come esercizio di cittadinanza attiva e responsabile e come via per dare corpo e sangue alla “democraticità” nella sua doppia determinazione etica ed epistemologica.

VV: E in che modo, secondo te, e con quale utilità la “filosofia in pratica” può entrare in organizzazioni di natura diversa come aziende, istituzioni, associazioni, cooperative, ecc?

MIG: Gli ambienti di lavoro oggi sono “contesti a elevata complessità” caratterizzati da una molteplicità di relazioni intra e inter-organizzative in cui il clima di incertezza e la pressione sui risultati hanno accentuato l’enfasi sul “fare” e reso la comunicazione ipertrofica ma nei quali ci si trova, spesso, davanti a un vuoto di senso. Quando tutto appare imprevedibile e impalpabile, diventano necessari approcci diversi e mentalità nuove e nuove organizzazioni animate da leader e manager capaci di visione e di pensiero critico e in grado di “generare senso” e di integrare in chiave evolutiva i saperi.

Attraverso un approccio trasversale e multidisciplinare, la FiP favorisce lo sviluppo della capacità di costruire ampie cornici di senso nelle quali gli individui possano inscrivere la loro esperienza, gestire situazioni complesse, analizzare i saperi, le “teorie in uso” e i modelli mentali messi in campo nell’affrontare la realtà, e apprendere dall’esperienza. La FiP si realizza mediante pratiche grazie alle quali è possibile affrontare le implicazioni filosofiche della vita organizzativa senza dimenticare temi - centrali per la teoria e la pratica manageriale - che presentano una evidente natura filosofica quali i presupposti del management, i suoi concetti chiave come leadership, sense-making, efficacia, strategia, ecc., i suoi miti e rappresentazioni, le metodologie adottate per il decision-making e il controllo, per l’analisi e la progettazione organizzativa, per la definizione degli obiettivi e la misurazione delle performance, ecc, i temi etici e quelli legati ai diritti dei lavoratori.
Rispetto a temi come questi, l’impiego di tecniche e metodi specificamente filosofici può aiutare a creare i presupposti teorici e pratici dell’agire, a problematizzare i concetti fondamentali, a elaborare la visione che i manager hanno di se stessi e delle organizzazioni e a strutturare specifiche metodologie. Tutto questo nella direzione dell’apprendimento individuale e organizzativo insieme.

VV: Mi sembra di capire, stando a quello che hai detto fino ad ora, che la FiP possa dare a chi lavora in un’organizzazione, magari in posizioni manageriali, competenze “filosofiche”, che tu hai descritto molto bene, che vanno ad affiancare altre competenze più specialistiche. Mi piacerebbe però sapere se il master forma alla professione del “filosofo pratico” e, se sì, cosa andrà a fare quindi il filosofo pratico in un’organizzazione?

MIG: Il master è nato per rispondere a due esigenze potenzialmente complementari. La prima: aiutare chi già opera nelle aziende e ha una competenza di base filosofica – o più in generale umanistica – a utilizzare appieno una tale formazione universitaria nel contesto organizzativo in cui si trova, coniugandola con le proprie competenze specialistiche, anche ampliandole. La seconda: offrire, a chi ha questa formazione universitaria e desidera candidarsi per l’inserimento all’interno di una organizzazione, una formazione di base in general management per poter essere rapidamente operativo.
In via generale il “filosofo pratico” potrebbe essere definito come un “consulente di processo” (il riferimento è certamente a Schein) anche laddove, dentro un’organizzazione, si ponga come fornitore interno di un cliente interno. La nozione di consulenza di processo implica che il consulente, chiamato a operare in un’organizzazione, non sia visto come un esperto di contenuti ma come un professionista in grado di facilitare il compiersi di un percorso che vede come attore primario il cliente il quale, avendo una conoscenza migliore del proprio problema rispetto al consulente, sarà anche in una posizione migliore per individuare e valutare le diverse possibilità di azione. Il “filosofo pratico” agisce quindi nella relazione, facendola diventare un'opportunità di crescita professionale e personale per i singoli e per l’organizzazione nel suo complesso, in modo da far emergere le soluzioni dal contesto stesso vincendo le resistenze e le difese sempre presenti negli ambienti organizzati, soprattutto nei momenti di cambiamento.
Il “filosofo pratico” spinge la riflessione verso aspetti che sono a monte e che una pratica filosofica può aiutare a portare allo scoperto. Il suo intervento, spesso, affronta una situazione indeterminata in cui il problema è sentito, ma non ancora definito. E il primo passo consiste proprio nell’individuare il problema, articolarlo, analizzarlo ed esplicitarlo, fermo restando il fatto che la sua definizione non è il risultato della diagnosi di un consulente ma il punto di arrivo dell’attivazione di processi individuali e di gruppo proposti e facilitati dal filosofo.

VV: Qual è stato il motivo che vi ha spinto a progettare e proporre questo Master e qual è secondo te il suo valore aggiunto rispetto all’attuale offerta di master in Italia? Ci sono esempi di corsi di questo genere in altri paesi?

MIG: Il Master ha, a mio avviso, un grande valore aggiunto: quello di introdurre nelle organizzazioni una capacità di riflessione articolata all’altezza della complessità del sistema, in grado di guidarle ampliando il loro orizzonte simbolico e arricchendo il loro pensiero. Devo ammettere che ci siamo quasi sentite chiamate a pensarlo e a organizzarlo alla luce di molti anni di esperienza nelle organizzazioni (aziende e non) in posizioni manageriali o come consulenti. Lavorando in particolare sui temi di strategie o di sviluppo organizzativo e delle persone, spesso abbiamo operato filosoficamente ma sostanzialmente “in incognito” e abbiamo potuto apprezzare il plus apportato dalla filosofia sia sui temi di sviluppo del business (anche in senso lato) che su quelli più gestionali.

Penso che adesso i tempi siano maturi per venire allo scoperto e perché la filosofia possa entrare a pieno titolo nelle organizzazioni, a maggior ragione in quelle che presentano un maggior grado di complessità, per dare il proprio contributo nello sviluppo di nuovi modelli di business e organizzativi e in una “costruzione di senso” che aiuti le persone a stare meglio e in modo più consapevole negli ambienti di lavoro e le organizzazioni a essere sempre di più “organizzazioni che apprendono”.
Non mi risulta che all’estero ci siano ancora percorsi di questo tipo, ovvero strutturati e sistematici come un master anche se ci sono molte iniziative più frammentate. Ne ho parlato con colleghi stranieri (alcuni dei quali faranno parte del corpo docente del master) e ho riscontrato il massimo apprezzamento per un’iniziativa che risponde a un’esigenza dei nostri tempi e che è spesso oggetto di articoli anche su autorevoli riviste di business come la Harvard Business Review. D’altra parte da anni, e non solo nel mondo occidentale, si parla di Philosophy for management e si fa ricerca e si organizzano convegni e seminari in tale ambito.

VV: Quali sono i pre-requisiti che consideri fondamentali per trarre il massimo beneficio dalla partecipazione al Master?

MIG: Ci rivolgiamo in particolare a coloro che hanno una formazione filosofica e umanistica proprio perché, per tutto quanto detto finora, chi ha questo tipo di formazione può essere molto prezioso nelle organizzazioni quando abbia integrato questa propria competenza distintiva con le altre competenze necessarie per inserirsi proficuamente in un determinato contesto lavorativo. Riteniamo che acquisire un profilo da "filosofo pratico", che renda pronto a operare concretamente con la propria peculiare "inclinazione filosofica" in un mondo che ha sempre più necessità di un “pensiero nuovo” e che da anni auspica un “cambio di paradigma”, possa essere molto apprezzato sia dal mercato delle imprese innovative sia dai recruiter più aperti al futuro.
Il percorso formativo è articolato in maniera da far conoscere ai partecipanti la complessa e articolata realtà delle organizzazioni attraverso “le lenti” della FiP, valorizzando l’interconnessione tra due fil rouge che percorrono tutto il master intrecciandosi continuamente.

Il primo è quello che potremmo ricondurre alla formazione sui temi del general management. Esperti della vita organizzativa e delle discipline ad essa connesse guideranno i partecipanti nell’esplorazione degli ambiti in cui un filosofo può più proficuamente inserirsi. Una sorta di viaggio all’interno delle aree tematiche di una organizzazione “tipo” per conoscerne gli elementi principali, il linguaggio e le funzioni.
Il secondo è quello della formazione peculiare del “filosofo pratico”. Ogni tematica di cui sopra sarà oggetto di un laboratorio di pratica filosofica nel quale, sottoponendone a un esame critico presupposti e architetture, saranno evidenziate le opacità e le contraddizioni ma anche le possibili nuove luci e gli spazi nei quali seminare pensieri nuovi. Grande attenzione, inoltre, sarà dedicata allo sviluppo della consapevolezza attraverso momenti esperienziali dedicati. 

E’ chiaro che il massimo della potenzialità di un’ offerta del genere viene espresso nella frequenza dell’intero percorso. Abbiamo però voluto prevedere anche una modalità di fruizione diversa. È possibile, infatti, una frequenza parziale, finalizzata all’acquisizione di competenze specifiche in una o più delle aree tematiche. Penso ad esempio alla pubblica amministrazione, dove enti o dipartimenti possono essere interessati a far frequentare specifici moduli del master al proprio personale laureato. Per questo tipo di frequenza sono ammesse anche lauree diverse da quelle umanistiche.

VV: Quali organizzazioni secondo te oggi potrebbero essere più “aperte” a un approccio di questo genere e quindi interessate ad acquisire competenze non solo specialistiche ma anche “filosofiche”?

MIG: Penso in particolare ad aziende e organizzazioni, come ad esempio le imprese green e le ONG, che sono attente alla visione sistemica e desiderose di innovare sia nei modelli di business che in quelli organizzativi e che già mostrano notevole interesse per questa nuova figura professionale capace di integrare l’approccio sistemico e umanistico con una buona conoscenza delle dinamiche organizzative e dei mercati.

Intervista a cura di Valeria Verga - Roma, 10 luglio 2013

venerdì 5 luglio 2013

Ma come sarà la pratica?


Mi stupisce sempre sentir ripetere: sì, va bene in teoria, ma come sarà in pratica? 

Come se la teoria fosse fatta di belle parole, buone solo per la conversazione, ma non per servire da base a tutta la pratica, cioè a tutta l’attività.

Ci deve essere stata nel mondo una quantità spaventosa di teorie stupide, se è potuto entrare nell’uso un ragionamento così incredibile. La teoria è ciò che si pensa di un argomento e la pratica è ciò che si fa.

Ma come può essere che un uomo pensi che bisogna agire in un certo modo e che faccia poi il contrario? Se la teoria della preparazione del pane è che bisogna prima impastare, e poi mettere in forno, nessuno, se non i pazzi, conoscendola potrà fare il contrario.

Ma da noi è di moda dire: questa è la teoria, ma come sarà la pratica?



Lev Tolstoj, Che fare?, Milano, Mazzotta 1979

martedì 2 luglio 2013

Bene Comune


Nessun ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da una narrazione che glielo fornisca. Questo vale anche per il diritto di proprietà: il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito in una narrazione che gli dia legittimità e validità universale (appunto, una narrazione proprietaria), o che invece sia interpretato a partire da un racconto che lo rappresenti come violento e ingiusto.

Un esempio può forse aiutare a comprendere meglio. Nel settembre 2002, Benetton intenta causa contro i Mapuche, una popolazione amerinda stanziata tra Cile e Argentina, rei secondo la nota azienda italiana di "occupazione violenta e occulta", per aver abbattuto di notte i recinti che delimitavano alcuni possedimenti argentini di Benetton, occupandoli poi "abusivamente". Il fatto era che quei terreni costituivano parte del territorio atavico dei Mapuche, svenduto nel 1896 dal presidente Uribe e acquistato nel 1991 dalla compagnia italiana, ma su cui gli indigeni continuavano a rivendicare i loro ancestrali diritti. Il loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio Nobel argentino per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che decide di scrivere direttamente a Luciano Benetton: 



Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra ai fratelli Mapuche [...]. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all'oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché sono i legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro che hanno denaro [...]. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori [...]. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale [...]. Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere nei loro latifondi. 



Insomma, Esquivel contrapponeva ai diritti "legali" di Benetton i diritti "legittimi" dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro delle conquiste coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio alla modernità, misero fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di proprietà privata. La risposta di Benetton non si fa attendere: 



Chiedendomi 'Chi ha comprato la terra a Dio?', lei riapre un dibattito sul diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso della società civile [...]. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il miglioramento degli altri [...]. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo [...]. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito per portare l'azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti [...]. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro. 



Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno espliciti: la proprietà privata, fisica o intellettuale, "rappresenta il fondamento stesso della società civile", e come tale "è necessaria" al mantenimento e allo sviluppo produttivo dell'ordine sociale; viceversa, dove il regime proprietario è assente, ci sono solo "terre desertiche e inospitali". E questa serie di assunti che costituisce quel tipo particolare di narrazione che abbiamo definito proprietaria: il diritto di proprietà è associato a efficienza, lavoro, produttività; tutto il resto non è che abbandono, degrado e rovina. 


L'idea della proprietà come luogo per eccellenza dell'efficienza e del buon funzionamento della società ha una storia antica, ma non antichissima. Per quanto una "lunga cottura" possa farcela apparire oggi come una verità oggettiva e, per così dire, naturale, essa si afferma in un momento preciso, in una fase storica ben determinata che coincide all'incirca col passaggio alla modernità. Semplificando al massimo, si può dire (pur con molta approssimazione) che prima della modernità il proprietario era limitato nei suoi diritti dal ruolo che si pensava egli dovesse svolgere nei confronti della collettività: come scrive per esempio Tommaso, la proprietà delle ricchezze può essere privata, ma l'uso che se ne fa deve necessariamente essere collettivo, e questo perché "secondo il diritto naturale tutto è comune, e la proprietà privata è incompatibile con tale comunanza". Viceversa, a partire almeno dalla seconda metà del Cinquecento, la proprietà tende a diventare un incondizionato ius utendi et abutendi, il diritto cioè di escludere chiunque dal godimento del bene in questione e di disporre di esso a pieno titolo (anche se nei limiti stabiliti dalle leggi civili). 

(...)

oggi le recinzioni non colpiscono più esclusivamente i beni comuni materiali (terre, boschi, laghi) ma si rivolgono anche a quelli immateriali (saperi, affetti, relazioni). Non è un caso allora che il tema dei commons stia acquistando sempre più rilievo non solo a livello accademico, ma anche all'interno dei movimenti sociali che si oppongono al dilagare dell'ideologia neoliberista. Tornare oggi a rivendicare i beni comuni contro íl saccheggio sistematico del capitale significa, tra le altre cose, "espropriare gli espropriatori", riappropriarsi cioè di quei mezzi di produzione e sussistenza (tanto materiali quanto immateriali) che possano consentirci di riconquistare spazi di autonomia all'interno dei rapporti di produzione capitalistici. 

In un documento del 1847, Tocqueville profetizzava che "è tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta politica; il grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]". Oggi questa profezia pare esser divenuta realtà, e in un senso assolutamente radicale. 


di Lorenzo Coccoli in Oltre il pubblico e il privato - Per un diritto dei beni comuni, a cura di Maria Rosaria Marella, Edizione Ombre Corte, Verona, 2012,