Che cos’è Astana? Una città utopica? Un sogno di
metallo, vetro e cemento? Un incubo post-sovietico? La sede del futuro regno
massonico mondiale? O ancora: Dubai sottozero proprio nel centro della steppa
asiatica? Difficile dire a cosa somigli, o cosa ricordi la capitale del ricco
stato del Kazakhstan dotato d’immense ricchezze sotterranee (petrolio, gas
naturale, uranio, manganese, rame, oro, acciaio, carbone) e grande più
dell’Europa intera. Questa Shangri-La del XXI secolo è la capitale edificata ex
novo da un visionario capo dell’ex Impero sovietico, il Presidente Nazarbaev.
Indipendente dal 1991, il Kazakhstan è governato dal 1994 mediante una
costituzione emanata ad hoc dal suo Sovrano democraticamente eletto, che le ha
imposto un nome kazako: Astana significa infatti “la capitale”. Ovvero: “il
posto dove si prendono le decisioni”; in antico persiano è invece il nome del
luogo dove si adora la tomba del santo.
Nel viale centrale dell’immaginifica città s’erge
una torre alta alcune centinaia di metri sulla cui sommità è collocata una
sfera: il globo d’oro. Disegnata da sir Norman Foster, celebre architetto
inglese, rappresenta l’albero magico su cui è assiso l’uccello della felicità:
Samkur. Secondo una leggenda locale il globo è il suo uovo. Il tutto in realtà
appare simile a un trofeo dall’esorbitante altezza, sottile e astruso, simbolo
di un potere che si vuole assoluto e soprattutto capace di produrre quella che
Anthony Vidler, in Il perturbante dell’architettura (Einaudi), chiama la
psicometropoli. Dall’alto dell’uovo si può osservare il panorama della città, e
porre la propria mano nella “cosa”, un tavolo magico ricoperto di simboli
sincretici, su cui è impressa l’impronta della mano del Presidente.
La popolazione della capitale è ancora sotto il
milione di abitanti, poiché si trova in una delle zone più fredde del pianeta,
con escursioni di anche 70 gradi tra estate e inverno, ma è prevedibile che
presto i suoi grandi palazzi, simili ai grattacieli eretti da Stalin tra gli
anni Quaranta e gli anni Cinquanta nel centro di Mosca, saranno abitati da
migliaia di persone che affluiranno dalle varie parti del paese. Astana è però
una psicometropoli non solo per i suoi simboli, ma prima di tutto per
l’eclettismo delle sue forme, cui non corrisponde un contenuto preciso, bensì
una evidente forza psichica bizzarra e stordente. La capitale kazakha è
un’utopia regressiva, una distopia, rivolta verso il passato, eretta con la
volontà di stupire, affascinare, e soprattutto ammonire.
I palazzi ultramoderni, disegnati da Kisho
Kurokawa, si mescolano alle riprese dell’architettura viennese del Karl Marx
Hoff, ai templi sincretici che ibridano stili persiani e fantasie hollywodiane,
alle cupole geodetiche, alle svettanti torri in vetro e acciaio che lasciano il
visitatore a bocca aperta nella Pyongyang del capitalismo post-sovietico.
Norman Foster ha progettato una gigantesca tenda, Khan Shatyr, di oltre 150
metri di altezza, che ricopre un parco, un fiume, un centro commerciale e una
spiaggia. Astana è l’effetto del post-urbanesimo, che nei paesi emergenti
dell’Asia si esplica nella costruzione di città-fantastiche, frutto del disegno
di autocrati, come è accaduto a Singapore, prototipo delle città cinesi del XXI
secolo di cui racconta Rem Koolhaas.
La città kazaka è figlia non solo delle fantasie di
un sovrano cripto-massonico, che adora la forma-piramide, ma anche della
volontà inconscia di creare sempre nuove città-utopiche, città impossibili,
eppure esistenti, come Brasilia di Niemeyer e Chandigarth di Le Corbusier. Gli
architetti europei e asiatici hanno trovato alla corte di Nazarbaev il clima
giusto per produrre quella tabula rasa del nuovo che nel post-postmodernismo
non ha più la preoccupazione di rispondere a forme date, a un progetto
organico. Il masterplan della
capitale kazaka contempla il succedersi di architetture sempre diverse.
Se ci si aggira tra le piramidi massoniche, centri
di forza astrale, e le torri ritorte dei nuovi grattacieli, ci si rende conto
che qui l’architettura “prova nostalgia per un momento proiettato in avanti
verso un evento che non si è mai verificato” (Vidler). Astana c’è, esiste, ma è
allo stesso tempo anche una città fantasma, la realizzazione in materiali
nobili e pregiati di un sogno in 3D uscito dallo schermo cinematografico: Las
Vegas e la città di Blade
Runner, le città invisibili di Calvino e una nuova Brasilia nel
gelo asiatico. Una città di simboli e magie, d’incubi e potenze occulte, città
giardino e insieme Disneyland massonica, tentativo di concentrare su di sé un
potere magico sfuggendo con le proprie simbologie alle strettoie della Storia,
per entrare direttamente nel Mito.
di Marco Belpoliti su Doppiozero