martedì 24 luglio 2012

La fatica di pensare la bellezza

Ecco, questo mi interessa: il nostro sforzo di combattere il caos, di contendere alla morte, all’entropia, al degrado, con l’unico strumento che abbiamo in dote, la capacità, la necessità di dare forma.

Trovo bellissimo pensare al processo dell’arte, o dell’artigianato, il processo squisitamente umano del creare sempre qualcosa da qualcosa forzando, mai dal nulla, trovo bellissimo pensare a quel processo nel suo potere e nella sua violenza. Lo trovo così bello perché è diventato problematico.

Nell’epoca in cui viviamo nessuna enfasi sull’opera e sulla sua capacità di aprire formidabili scenari, nessuna retorica sul braccio creatore, è più credibile. L’idea di una umanità creatrice, prometeica, liberatrice si è fatta risibile. Troppa ambivalenza si porta dietro il creare, troppi contraccolpi, fallimenti e inganni. Nel Novecento i creatori hanno perso la pace. Hanno abbassato le corna. Solo, si ostinano, non possono farne a meno. Non possiamo: continuiamo a creare, perché a tutt’oggi non riusciamo a pensare un altro modo attraverso cui accamparci sulla terra. Eppure sappiamo bene di essere perdenti, sappiamo che la forma non è più detto che riesca a conquistare una durata. Ci siamo fatti meno presuntuosi, più essenziali. Ci accontentiamo della forma che non dura, spazzata via all’istante. Un trionfo sulla morte di un momento.

Ecco perché trovo così entusiasmanti i creatori, noi creatori dimessi, nella nostra battaglia sempre persa e vinta insieme, persa già mentre la si vince, vinta ogni volta che la si combatte. C’è anche però chi tenta un’arte, e un pensiero della bellezza, che si sottrae all’operare. Che rifiuta l’idea del fare, del contendere al caos, dell’imporre forma. C’è chi – penso ad esempio al gruppo di architetti-artisti che si dilata e si contrae sotto il nome Stalker – prova a pensare l’intervento umano come traccia in nulla diversa dallo smottamento del suolo e dai detriti, in nulla diverso dalla vita ostinata dei muschi, e alla bellezza come un esito di stratificazioni e di processi in cui il fare, la sua progettualità, si è ridotto e capovolto tutt’al più in un dare inizio.

Avverto una stanchezza di fronte alla bellezza che c’è già, alla bellezza pettinata che calma, apprezzo gli accumuli di detriti, gli argini dei fiumi urbani, le ferrovie. Mi piacerebbe pensare alle mie tracce come tracce tra le altre, detriti tra i detriti, forza tra le forze, come l’orma di un cane o un’impronta di pneumatici, ma non ci riesco.

Lo sforzo dimesso di dare forma è ancora quello che mi interessa, la tensione tra la forma e il caos – il caos che però è la trasformazione, quella che chiamo la libertà non mia, la vita stessa - che la travolge.

Carola Susani

martedì 17 luglio 2012

Filosofia da Camera

La filosofia da camera sta alla filosofia sinfonica come la musica da camera sta alla musica sinfonica: un modo privato, personale, intimo da filosofare. Mentre Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel, Husserl, virtuosi della filosofia sinfonica, ci parlano da spirito a spirito, da intelletto a intelletto, e si rivolgono a un noi.

Il filosofo da camera osserva il suo mondo dall’intimità della propria camera. Il filosofo da camera è uno che riflette sulla natura umana, sui costumi, sulla condizione umana.

Per “anima” intendo qui il complesso delle attività organiche, psichiche e mentali cui si dedicano gli esseri umani in quanto tali. In pieno accordo con Aristotele, ritengo che gli esseri umani (non) siano (che) corpi che si realizzano e si esprimono secondo funzioni e funzionamenti diversi. Gli esseri umani non hanno un corpo, sono un corpo; questo corpo non è parte di loro, è interamente loro. Per convenzione quindi, e anche per comodità, indico con “anima” il complesso delle funzioni e dei funzionamenti che costituiscono il nostro corpo nella sua unità vivente e attiva.

E’ nell’ambito di quest’anima attiva e unificante che distinguo l’anima bassa, l’anima media e l’anima alta. Con anima bassa intendo il funzionamento organico del mio corpo, con anima media il funzionamento affettivo del mio corpo, con anima alta il funzionamento intellettuale del mio corpo: l’anima bassa comprende l’organicità del mio corpo, l’anima media comprende le passioni del mio corpo, l’anima alta comprende la ragione del mio corpo. Anima bassa in quanto serve all’anima media e all’anima alta da fondamento, da base di esistenza, da zoccolo su cui questi si poggiano per potersi esprimere.

Sono interamente quello che respira, quello che ama e quello che parla. Il mio “io” è interamente organico, interamente affettivo e interamente mentale. Ciascuna delle mie anime ha il suo compito da svolgere nell’unità del mio tutto.

Prendere coscienza del fatto che sogno, proprio mentre sogno, mi fa prendere direttamente contatto con la mia anima bassa mentre essa è in azione. Un altro modo che ha la mia anima bassa di ricordarmi la sua esistenza è attraverso il dolore. Essere in buona salute equivale precisamente a non essere cosciente del funzionamento dell’anima bassa. Si è in buona salute quando non ci si lamenta di nulla: essere in buona salute, è per l’appunto non essere coscienti del proprio corpo.

Non un edonista hard, ma un edonista soft, moderato, leggero.

Vivere nel mondo delle idee, amare il proprio dio, agire secondo le leggi morale, tendere verso un ideale, porta a un’intima sensazione di soddisfazione e di benessere direttamente collegata al piacere che ne traiamo: proprio come mangiare, cantare, ballare, questo piacere ci collega ineluttabilmente alla nostra anima bassa.

Io preferisco le tranquille camminate di mezza montagna. Partire presto la mattina con lo zaino in spalla, al levar del sole, seguire sentieri appena tracciati, tenere il passo in salita e in discesa, sentire il cuore battere, i muscoli contrarsi, il sudore colare. Il paesaggio che si ammira dall’alto, il fondo di la gola in cui ci si trova, il pendio su cui ci si ferma a bere e contemplare. Ma soprattutto sento il mio corpo, nel riposo dallo sforzo e nel piacere di aver superato la prova.

Nel corso di tutta la vita ho molto pensato, immaginato, riflettuto sulla mia morte. Esercitarsi a morire, ecco un’ingiunzione classica della saggezza antica, imparare a vedere le cose sotto l’aspetto dell’universalità, della continuità, della permanenza, passare dal panico cieco all’accettazione lucida. Vorrei evitare tanto il panico, l’angoscia, la paura paralizzante quanto il fascino, il richiamo, il sublime della trascendenza.

Pensare la mia morta come orizzonte della mia vita mi pare un modo giusto di pensare la mia vita, di considerare una maniera di vivere confacente tanto alla mia vita come alla mia morte. La mia vita ha il senso che io le do o cerco di darle. Non bisogna dunque temere la morte, bisognerebbe persino desiderarla, poiché grazie a essa si aprono per noi le porte della sola vita degna di essere vissuta. In questo contesto spiritualista, si parla sì della morte, ma non della morte come noi la sentiamo: si ignora la morte che noi viviamo, per considerare la morte che noi attraversiamo.

Per il filosofo la morte è un avvenimento metafisico, un avvenimento che trascende la fisica dei nostri corpi per integrarsi in una visione più generale del mondo e dell’umanità. La mia morte, proprio come la mia vita, appartengono “naturalmente” al mio essere umano, nel mondo naturale in cui vivo e muoio. Devo imparare a controllare la paura di questo ignoto che mi attende e di cui non so che ciò che ho potuto imparare della morte degli altri, e anche dal panico degli altri di fronte alla loro morte. Devo imparare a morire prima di morire. Ritrovo in questo uno degli scopi della saggezza antica che mi hanno più colpito, imparare a morire per vivere bene.

La morte di ciascuno di noi è una trasformazione voluta dalla natura che ci governa, e dobbiamo saperla accettare, come dobbiamo accettare tutto ciò che viene dalla natura. La morte non è una cessazione di essere, è un avvenimento in una continuità. Non so quando anch’io cadrò nel fossato e lascerò gli altri continuare senza di me. La morte altrui è una ferita nella mia vita e un richiamo alla mente della mia morte; il suo modo di morire è una rievocazione dei diversi modi in cui io potrei morire.

da Jacques Schlanger Filosofia da Camera – 2003

mercoledì 11 luglio 2012

Il Lavoro...l’ombra di una riflessione (Peguy)



Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.

La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura.

Una tradizione venuta, risalita da profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

E sono solo io— io ormai così imbastardito — a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti.
Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.

Charles Peguy, L’argent, 1914

venerdì 6 luglio 2012

L’ANALISI LOGICA E LA PIOGGIA - 2 preziose modalità da preservare, entrambe

(…) quando piove e con la pioggia il ragionamento così come lo conosciamo non va bene, o meglio non basta,
Uno dei primi giochi che si regalano ai bambini quando li si vuole instradare sulle capacità cognitive è un cubo vuoto con sul coperchio degli spazi vuoti di diversa forma (cerchio, triangolo, stella, quadrato ..) in cui i bambini imparano a far passare la forma corrispondente, se provano a far passare una stella nel cerchio questa non passa.
Quindi noi fin da piccoli siamo allenati a riconoscere la giusta forma per ogni luogo. Grazie alla capacità di osservazione e di analisi cui siamo stati allenati siamo in grado di riconoscere se la forma che usiamo è lo strumento giusto, o almeno dovremmo esserlo. (…)
Con l’analisi siamo in grado di analizzare, scomporre, attribuire, catalogare ed è uno strumento che ci permette di conoscere scomponendo distinguendo. Analisi secondo il dizionario della lingua italiana Hoepli è il metodo di ricerca basato sulla scomposizione, concreta o astratta di un tutto nelle sue parti costitutive.
Ci permette di entrare in profondità in ogni cosa, argomento, idea e nei secoli lo abbiamo fatto creando meraviglie quali la nostra filosofia (ma qui il discorso è più complesso) e le nostre scienze fino a perderci nell’infinitesimamente piccolo e lontano.
Con l’analisi logica impariamo a distinguere chi (soggetto) fa (predicato) cosa (complemento oggetto) e questo ci permette di studiare analizzando, scomponendo, attribuendo ruoli. Ma poi piove…
… E la pioggia è un’altra cosa, un’altra modalità del fenomeno dell’essere. Nella pioggia non si può separare. Non si può parlare di acqua perché l’acqua non è la pioggia. L’acqua – soggetto è pioggia solo quando è intrinsecamente legata all’azione che svolge e il complemento oggetto è l’azione solo una volta che si è estrinsecata.
Con la pioggia possiamo imparare ad apprezzare e conoscere un fenomeno nella sua interezza ed unità inscindibile. Non possiamo usare l’analisi logica con la pioggia. Quando usiamo l’analisi logica con la pioggia, perdiamo l’oggetto del nostro esame perché la pioggia non è scomponibile, non la si può conoscere scomponendola, la si può conoscere solo contemplandola così come si manifesta. È un tondo che non entra nello spazio quadrato. Nella pioggia non c’è soggetto, predicato e complemento. La pioggia è un insieme non scomponibile in soggetto\predicato\complemento. Non esistono singolarmente, uno senza l’altro. Non si può parlare di acqua come soggetto, non si possono separare perché senza l’azione del cadere non c’è più la pioggia. Proprio come i nostri 2 emisferi che sono preziosi ed indispensabili entrambi proprio perché le loro competenze sono diverse. E le loro diverse competenze ci danno capacità diverse. Riuscire a preservare ambedue le competenze e non buttare via un emisfero cerebrale perché abbiamo scoperto le capacità dell’altro. Scoprendo le capacità logiche e razionali che tanto ci hanno dato non buttare via tutta la sfera intuitiva e contemplativa che è l’altra parte della nostra intelligenza, come in passato è stato fatto (il lato oscuro dell’illuminismo, il suo grande limite).
Ora che stiamo riscoprendo l’altra nostra parte “i sogni che sono della stessa materia di cui è fatta Giulietta1” parafrasando Shakespeare che per un periodo è stato sugli autobus con il meraviglioso viso di Uma Turman a reclamizzare un’automobile, possiamo, imparando dagli errori fatti, fare una diversa operazione e provare ad integrare le due diverse modalità - i nostri 2 diversi talenti che ci vengono dai nostri 2 emisferi che sono la manifestazione conoscibile del nostro unico cervello. Appunto un’auspicabile compresenza.

 Andreana Spinola, autunno 2010  www.shiatsuigea,com