martedì 27 settembre 2011

Una leggenda sulle origini

Originariamente, tutte le creature, incluso l’uomo, vivevano insieme in amicizia in un unico campo. La discordia ebbe origine quando Volpe persuase Mangusta a scagliare un bastone in faccia a Elefante. Ne seguì una disputa e gli animali si separarono; ogni specie andò  per la propria strada e cominciarono a vivere come fanno adesso, e a uccidersi tra loro.
Stomaco, che in principio viveva una vita indipendente nella foresta, entrò nell’uomo che da allora è sempre affamato. Gli organi sessuali, anche loro prima separati, si attaccarono a uomini e donne, obbligandoli a desiderarsi l’un altro continuamente. Elefante insegnò all’uomo a macinare il miglio, così che ora la fame può essere soddisfatta solo con incessante fatica. Topo insegnò all’uomo a impregnare e alla donna a partorire. E Cane donò all’uomo il fuoco.”

Favola Nuer (Sudan meridionale)

venerdì 23 settembre 2011

Percezioni

Si racconta che negli anni ‘60 una multinazionale andò in giro per l’Africa, con uno schermo portatile e un generatore di elettricità, per mostrare nei villaggi sperduti un filmato sui grandi macchinari agricoli che produceva. Dopo varie proiezioni, si accorse però che il filmato non sembrava avere alcun effetto, e alla fine si decise a domandare agli spettatori che cosa avessero recepito. La sorprendente e unanime risposta che ricevette fu: la presenza di un pollo che passava a un certo momento in un angolo dello schermo, e di cui gli occidentali non si erano nemmeno accorti. La sorpresa svanì quando si rifletté sul fatto che, in fondo, ciascuno può percepire della realtà soltanto ciò che è in grado di riconoscere e comprendere.

Piergiorgio Odifreddi , Elogio della scienza, La Repubblica 22 marzo 2010

martedì 20 settembre 2011

Dimenticare...ricordare

Se non mi dimenticate come io vi dimentico è perché non mi avete mai subìta come io vi subìvo.

Se non mi dimenticate del tutto, assolutamente, è perché non c’è nulla di assoluto in voi, neppure l’indifferenza.

Io ho finito col non riconoscervi, voi non avete mai cominciato a conoscermi.

Se io ho finito col dimenticarvi, voi non mi avete avuto abbastanza, dentro di voi, per dimenticarmi.

Che cosa significa dimenticare un essere umano? Significa dimenticare la sofferenza che ti ha causata. Perché io, che ieri non conoscevo altro che voi, oggi possa non riconoscervi, bisognava che ieri conoscessi soltanto voi. Il mio dimenticarvi è un titolo di nobiltà in più. Un attestato del vostro valore d’un tempo.

Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine, Roma, Voland 2011

venerdì 16 settembre 2011

La passeggiata di Euclide

In La passeggiata di Euclide, si vede una finestra che si affaccia su una città. Davanti alla finestra c’è un cavalletto su cui è appoggiata una tela. Ciò che è dipinto sulla tela coincide perfettamente con la parte del paesaggio urbano nascosta dalla tela. C’è un secondo scherzo ottico. La parte di paesaggio dipinta (o nascosta dalla?) tela include una strada dritta che si perde all’orizzonte e, al suo fianco, una torre aguzza.
La strada in prospettiva e la torre hanno identica dimensione, uguale colore e la stessa forma appuntita. Lo scopo di questi giochi visivi è dimostrare come sia facile confondere bidimensionale e tridimensionale, superficie e sostanza. E così arriviamo al punto. Il cavalletto ha una manovella, girando la quale la tela si abbassa o si alza. Magritte l’ha resa in modo molto tangibile ed enfatico. Che succederà se la si manovra? E’ possibile-impossibile che, spostando la tela, ci accorgiamo che nel punto esatto dove ssa originariamente era, non vi è alcun paesaggio: niente, un puro vuoto?

John Berger Sul Guardare, Bruno Mondadori, Milano 2009

mercoledì 14 settembre 2011

Discordanze

Non sono mai stato in sintonia con nulla, o quasi nulla, di ciò che mi circondava. Come ho accennato, non ho mai aderito a gruppi politici di qualsiasi natura, a causa del forte disaccordo e dello scetticismo che nutrivo nei loro confronti /…/.
Rimasi poi piuttosto scettico per ciò che riguarda la Seconda guerra mondiale. Non ho notizia di altri che abbiano condiviso questo scetticismo, davvero nessuno. Ma ricordo che frequentavo la biblioteca pubblica di Filadeflia – eravamo nel 1944 o 1945, quando avevo sedici o diciassette anni, – a leggere stranissimi opuscoli di “sette” di sinistra, di gruppi come i marleniti (lei probabilmente non ne ha mai sentito parlare), i quali volevano dimostrare che la guerra era “fasulla”, nel senso che era una manovra voluta dai capitalisti dell’Occidente, in combutta con i capitalisti di Stato del sistema sovietico, mirante a distruggere il proletariato europeo. Non prestavo veramente fede a questa tesi, ma la giudicavo abbastanza curiosa da cercare di scoprire dove andassero a parare quei discorsi. C’era nelle asserzioni dei marleniti qualcosa di abbastanza plausibile da rendermi scettico circa gran parte dell’interpretazione patriottica della guerra. Ricordo anche quanto mi indignò il trattamento riservato ai prigionieri di guerra tedeschi. Ve n’erano alcuni in un campo adiacente alla mia scuola, ed era considerato “da uomini” insultarli e provocarli attraverso il filo spinato. Lo giudicavo allora una cosa vergognosa, benché fossi molto più antinazista di tanti di quei ragazzotti che si dilettavano di quello sport. Ricordo le liti che avevo con loro.
Ricordo anche che il giorno in cui sganciarono la bomba su Hiroshima non riuscii letteralmente a rivolgere la parola ad alcuno. Non vidi nessuno, peraltro. Me ne andai a camminare in perfetta solitudine. Mi trovavo in un campeggio estivo, e quando ascoltai la notizia me ne andai nel bosco e restai solo per un paio d’ore. Non parlai con nessuno e in seguito non capii mai le reazioni di nessuno. Mi sentivo completamente isolato.

Noam Chomsky, Linguaggio e libertà, Milano, Net, 2002

giovedì 8 settembre 2011

Segni sonori

(…) Se il tuo palazzo resta per te sconosciuto e inconoscibile, puoi tentare di ricostruirlo pezzo a pezzo, situando ogni calpestio, ogni colpo di tosse in un punto dello spazio, immaginando intorno  a ogni segno sonoro pareti, soffitti, impianti, dando forma al vuoto in cui i rumori si propagano e agli ostacoli contro cui urtano, lasciando che siano i suoni stessi a suggerire le immagini. Un tintinnio argentino non è solo un cucchiaino che caduto dal sottocoppa in cui era in bilico ma è anche un anglo di tavola coperto da una tovaglia di lino con frangia di pizzo, rischiarata da un’ampia vetrata su cui pendono rami di glicine; un tonfo soffice non è soltanto un gatto che è balzato su un topo ma è un sottoscala umido di muffa, chiuso da tavole irte di chiodi.
Il palazzo è una costruzione sonora che ora si dilata ora si contrae, si stringe come un groviglio di catene. Puoi percorrerlo guidato dagli echi, localizzando scricchiolii, stridori, imprecazioni, inseguendo respiri, fruscii, borbottii, gorgogli.
Il palazzo è il corpo del re. Il tuo corpo ti manda messaggi misteriosi, che tu accogli con timore, con ansia.
(…) Il palazzo è un ordito di suoni regolari, sempre uguali, come il battito del cuore, da cui distaccano altri suoni discordanti, imprevisti, Sbatte un aporta, dove? Corre qualcuno per le scale, s’ode un grido soffocato. Passano dei lunghi minuti di attesa. Un fischio lungo e acuto risuona, forse da una finestra della torre. Risponde un altro fischio, dal basso. Poi, silenzio.
C’è una storia che lega un rumore all’altro? Non puoi fare a meno di cercare un senso, che forse si nasconde non nei singoli rumori isolati ma in mezzo, nelle pause che li separano. E se c’è una storia, è una storia che ti riguarda.

da "Un re in ascolto" di Italo Calvino   - I. Calvino Sotto il Sole Giaguaro, Mondadori, 2000

lunedì 5 settembre 2011

Il piacere del testo

L'obiettivo della scrittura ad alta voce (in questo caso interpretazione) non è la chiarezza del messaggio, ma il teatro delle emozioni, ciò che essa cerca sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l'articolazione del corpo, della lingua ... e faccia sentire nella loro sensualità il respiro, la rocaille, la polpa delle labbra, tutta la presenza del muso umano (che la voce, la scrittura, siano fresche, morbide, lubrificate, finemente granulose e vibranti come il muso di un animale) perché riesca a trascinare lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dell'attore dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, gratta, taglia: è il godere del testo.

Roland Barthes Il piacere del testo, trad. Lidia Lonzi, Einaudi, Torino 1975, 1989.