mercoledì 29 dicembre 2010

Fra le righe

Il significato si legge fra le righe. Non il significato ovvio, banale, quello che c'è sul dizionario, "Cane"  vuol dire cane, "porta” vuol dire porta e, se uno scrive "il cane sta dietro la porta", il fatto che il cane sta dietro la porta è scritto sulla riga, con lodevole chiarezza. L'unico problema è di solito nessuno vuole dire cose come "il cane sta dietro la porta"; di solito queste cose non interessano a nessuno. Di solito quel che si vuole dire, per esempio, è "Non sognarti nemmeno di venire a casa mia", e per dirlo si scrive, su una riga, "il cane sta dietro la porta" e sulla riga dopo "So che hai molta paura dei cani". Fra le due righe non c’è  scritto niente, ma è li che si trova il vero significato, cioè che tu non ti devi nemmeno sognare di venire a casa mia.
Uno potrebbe pensare che, se il significato più importante si trova là dove non c'è scritto niente, tanto varrebbe non scrivere niente del tutto, lasciare la pagine bianca. E invece qualcosa bisogna scriverlo, qualcosa che non è quel che vogliamo dire, qualcosa che copra le righe, cosicché fra le righe, dove non c’è scritto niente, ci possa stare il significato che conta davvero.
Ci dovrebbe essere un  modo più razionale di sbrigare questa faccenda.

Ermanno Bencivenga Parole in gioco Mondadori 2010

martedì 28 dicembre 2010

Nessun legame con la polvere

Zengetsu, un maestro cinese della dinastia T'ang, scrisse per i suoi allievi i seguenti consigli:

Vivere nel mondo e tuttavia non stringere legami con la polvere del mondo è la linea di condotta di un vero studente di Zen.

Quando assisti alla buona azione di un altro, esortati a seguire il suo esempio.

Nell'aver notizia dell'errore di un altro, raccomandati di non imitarlo.

Anche da solo in una stanza buia comportati come se avessi di fronte un nobile ospite.

Esprimi i tuoi sentimenti, ma non diventare più espansivo di quanto la tua vera natura ti detti.

La povertà è il tuo tesoro. Non barattarla mai con una vita agiata.

Una persona può sembrare sciocca e tuttavia non esserlo. Può darsi che stia solo proteggendo con cura il suo discernimento.

Le virtù sono i frutti dell'autodisciplina e non cadono dal cielo da sole come la pioggia o la neve.

La modestia è il fondamento di tutte le virtù. Lascia che i tuoi vicini ti scoprano prima che tu ti sia rivelato.

Un cuore nobile non si mette mai in mostra. Le sue parole sono come gemme preziose, sfoggiate raramente e di grande valore.

Per uno studente sincero, ogni giorno è un giorno fortunato. Il tempo passa ma lui non resta mai indietro. Né la gloria né l'infamia possono commuoverlo.

Critica te stesso, non criticare mai gli altri. Non discutere di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.

Alcune cose, benché giuste, furono considerate sbagliate per intere generazioni. Poiché è possibile che il valore del giusto sia riconosciuto dopo molti secoli, non c'è alcun bisogno di pretendere un riconoscimento immediato. Vivi con un fine e lascia i risultati alla grande legge dell'universo. Trascorri ogni giorno in serena contemplazione.

(Da 101 storie zen)

lunedì 27 dicembre 2010

Nelle mani del destino

Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi.
Durante la marcia si fermò a un tempio shintoista e disse ai suoi uomini: «Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino».
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
«Nessuno può cambiare il destino» disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
«No davvero» disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt'e due le facce.
(Da 101 storie zen)

giovedì 23 dicembre 2010

Dall'esilio

C’è un libretto di Brodskij, pubblicato da Adelphi con il titolo Dall’esilio, son meno di 70 pagine, 68, son tre discorsi, La condizione che chiamiamo esilio e Discorso di accettazione (tradotti da Gilberto Forti) e Un volto non comune. Discorso per il premio Nobel (tradotto da Giovanni Buttafava), c’è questo libretto che tutte le volte che lo apro ci trovo delle cose che mi sembra di non avere mai letto; son meno di 70 pagine, son 68, l’avrò letto venti volte ma è come se avesse un doppio fondo, tutte le volte mi chiedo: «Ma c’era, questo?». Anche oggi, l’ho aperto a pagina 45 e ho letto: «Uno dei meriti della letteratura è appunto quello di aiutare una persona a rendere più specifico il tempo della propria esistenza, a distinguersi dalla folla dei suoi predecessori e da quella dei suoi contemporanei, a evitare la tautologia – cioè il destino di chi può fregiarsi del titolo onorifico di “vittima della storia». Che è una cosa, è ridicolo, ero convinto perfino di averla pensata io, invece deve averla pensata Brodskij, ogni tanto mi viene il dubbio che qualcuno mi faccia degli scherzi mi sostituisca il libretto dopo averci cambiato il contenuto, allora vado a cercare dei pezzi che mi ricordo bene, ce ne son due, in particolare, il primo dice: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare – o almeno di imitare – il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno»; l’altro dice: «Nondimeno, signore e signori, mi fa piacere pensare che noi, cioè voi e io, respiravamo la stessa aria, mangiavamo lo stesso pesce, eravamo inzuppati della stessa pioggia, – a volte – radioattiva, facevamo il bagno nello stesso mare, ci annoiavamo alla vista di conifere della stessa specie. A seconda del vento, le nuvole che vedevo passare davanti alla mia finestra erano state già viste da voi, e viceversa». E le trovo, pagina 35 e 36 e pagina 66, meno male.

Paolo Nori http://www.paolonori.it/argomenti/iosif-brodskij/

mercoledì 22 dicembre 2010

Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me

Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente sup­porle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimi­tati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisi­bile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connes­sione non, come là, semplicemente accidentale, ma uni­versale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di natura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determina­zione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito (dalla conclusione della Critica della ragion pratica; 1966, pp. 201-202).

lunedì 20 dicembre 2010

Il cane e l'agnello


A un agnello che belava tra le capre, il cane disse: "Stolto, sbagli; non è qui tua madre" e gli indicò, lontano, le pecore che si erano staccate dal gregge. 

"Non cerco quella che, per suo piacere, si ingravida, e poi porta un peso sconosciuto per un numero determinato di mesi, e alla fine butta giù il fardello e se ne sbarazza, ma cerco quella che mi nutre accostandomi le sue poppe e priva i figli del latte perché non ne manchi a me"

 "Eppure quella che ti ha partorito conta di più" 

"No, non è vero. Come poteva sapere se nascevo bianco o nero? Su, pensaci: se avesse voluto partorire una femmina, quale successo avrebbe avuto, nascendo io maschio? Bel dono davvero mi ha fatto mettendomi al mondo: attendere di ora in ora il macellaio! Quella che non ebbe alcun potere nel crearmi, perché dovrebbe contare più di questa che ha avuto pietà di me, abbandonato, e che offre spontaneamente e con affetto la sua generosità? È la bontà, non il legame di sangue che fa genitori.

(Fedro)

venerdì 17 dicembre 2010

Perché non recidere le nostre radici

L’uomo piú saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. Alle quattro di mattina, quando la promessa di un nuovo giorno stava ancora in terra di Francia, si alzava dal pagliericcio e usciva nei campi, portando al pascolo la mezza dozzina di scrofe della cui fertilità si nutrivano lui e sua moglie, i miei nonni materni. [...] Talvolta, nelle calde notti d’estate, dopo cena, mio nonno mi diceva: “José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico” [...]. In piena pace notturna, tra gli alti rami dell’albero, mi appariva una stella, e poi, lentamente, si nascondeva dietro una foglia, e, guardando da un’altra parte, come un fiume che scorre in silenzio nel cielo concavo, sorgeva il chiarore opalescente della Via Lattea. E mentre il sonno tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava. Non ho mai potuto sapere se lui taceva quando si accorgeva che mi ero addormentato, o se continuava a parlare per non lasciare a metà la risposta alla domanda che gli facevo nelle pause più lunghe che lui volontariamente metteva nel racconto: “E poi?”
[...] Molti anni piú tardi, scrivendo per la prima volta di mio nonno Jeronimo e di mia nonna Josefa, mi accorsi che stavo trasformando le persone comuni che erano state in personaggi letterari, e che questo era probabilmente il modo per non dimenticarli, disegnando e ridisegnando i loro volti con un lapis cangiante di ricordi [...]. Nel dipingere i miei genitori e i miei nonni con i colori della letteratura, trasformandoli da semplici persone in carne e ossa in personaggi di nuovo e in modi diversi costruttori della mia vita, senza accorgermene stavo tracciando il percorso attraverso il quale i personaggi che avrei inventato, gli altri, quelli veramente letterari, avrebbero fabbricato e mi avrebbero portato i materiali e gli arnesi che, finalmente, nel buono e nel meno buono, nel sufficiente e nell’insufficiente, nel guadagnato e nel perduto, in quello che è difetto, ma anche in quello che è eccesso, avrebbero finito per fare di me la persona in cui oggi ancora mi riconosco: creatore di quei personaggi, ma al tempo stesso loro creatura».

José Saramago. Dalla lettura per il Premio Nobel, 7 dicembre 1998

Nell'era virtuale rischiamo, per distrazione, di tagliare via, pezzo a pezzo, il collegamento con la nostra origine, con le radici che silenziosamente e costantemente alimentano e danno forma e unità alle nostre vite, sempre più frammentate.

martedì 14 dicembre 2010

Pezzettino

Il suo nome era Pezzettino.
Tutti i suoi amici erano grandi e coraggiosi e facevano cose meravigliose. Lui invece era piccolo e di sicuro era un pezzettino di qualcuno pensava, un pezzetto mancante. Molto spesso si chiedeva di chi fosse il pezzettino, e un bel giorno decise di scoprirlo.
“Scusa…”, e chiese allora a Quello-Che-Corre, “per caso sono un tuo pezzettino?” “Come potrei correre se mi mancasse un pezzettino?” rispose Quello-Che–Corre piuttosto sorpreso.
“Sono un tuo pezzettino?” domandò a Quello-Forte, “Potrei essere così forte se mi mancasse un pezzetto?” fu la risposta che ottenne. E quando Quello-Che_Nuota emerse dalle onde, Pezzettino gli rivolse la stessa domanda. “Non potrei nuotare se mi mancasse un pezzettino”, rispose Quello-Che-Nuota rituffandosi sott’acqua.“Ehi, tu lassù!” gridò Pezzettino quando ebbe raggiunto Quello-Che-Vive-Sulle-Montagne “Sono un tuo pezzetto?” Lui scoppiò a ridere: “Potrei arrampicarmi se mi mancasse un pezzetto?” Pezzettino chiese la stessa cosa a Quello-Che-Vola, ma la risposta fu identica.Alla fine, Pezzettino andò da Quello-Saggio che viveva in una grotta . “Per caso, sono un tuo pezzetto?” “Ma io devo essere di qualcuno!” gridò Pezzettino. “Come faccio a scoprirlo?” “Vai all’isola Chi-Sono”, rispose Quello-Saggio. Il giorno dopo, Pezzettino salpò con la sua barchetta.
Dopo un viaggio lungo e burrascoso, arrivò all’isola Chi-Sono. Era stanco e bagnato. Che strano! L’isola era un ammasso di pietre. Non un albero, non un filo d’erba. Ma soprattutto, nessuna creatura vivente.

Pezzettino camminò e camminò, su e giù, finchè esausto, inciampo e cadde…e si ruppe in tante pezzetti.

Quello-Saggio aveva ragione! Pezzettino adesso sapeva che anche lui, come tutti, era fatto di tanti piccoli pezzi. Si ricompose e quando fu sicuro che non mancasse neanche uno dei suoi pezzetti, tornò alla barca. Remò tutta la notte per arrivare a casa prima possibile. Tutti i suoi amici lo stavano aspettando.

“Io sono me stesso”, gridò Pezzettino tutto contento. I suoi amici non erano sicuri di aver capito quello che Pezzettino intendesse dire, però sembrava felice. E così, si sentirono felici anche loro.

domenica 12 dicembre 2010

Nel mondo dei sogni

«Dopo pranzo il nostro maestro di scuola faceva sempre un pisolino» raccontava un discepolo di Soyen Shaku. «Noi bambini gli domandammo perché lo facesse e lui ci rispose: "Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio". Quando Confucio dormiva, sognava gli antichi saggi e dopo parlava di loro ai suoi seguaci.
«Un giorno c'era un caldo terribile, e alcuni di noi si appisolarono. Il maestro ci rimproverò. "Siamo andati nel mondo dei sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio" spiegammo noi. "E che cosa vi hanno detto quei saggi?" volle sapere il maestro. Uno di noi rispose: "Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto"».
(Tratto da 101 Storie Zen)

giovedì 9 dicembre 2010

Una storia zen

C’era una volta un contadino cinese il cui cavallo era scappato. Tutti i vicini quella sera stessa si recarono da lui per esprimergli il loro  dispiacere: “siamo così addolorati di sentire che il tuo cavallo è fuggito. E’ una cosa terribile”. Il contadino rispose: “Forse.” Il giorno successivo il cavallo tornò portandosi dietro sette cavalli selvaggi, e quella sera tutti i vicini tornarono e dissero: “Ma che fortuna! Guarda come sono cambiate le cose. Ora hai otto cavalli!” Il contadino disse: “Forse.” Il giorno dopo suo figlio cercò di domare uno di quei cavalli per cavalcarlo, ma venne disarcionato e si ruppe una gamba, al che tutti esclamarono:“Oh, poveraccio. Questa e’ una vera disdetta” ma ancora una volta il contadino commentò: “Forse.” Il giorno seguente il consiglio di leva si presentò per arruolare gli uomini nell’esercito, e il figlio venne lasciato a casa per via della gamba rotta. Ancora una volta i vicini si fecero intorno per commentare: ”Non è fantastico?” ma di nuovo il contadino disse: “Forse.”


Il contadino si è mantenuto nel rifiuto di guadagno o di perdita, di vantaggio o di  svantaggio perché, se ben si pensa, non c'è nulla che possieda una caratteristica che sia sempre positiva o sempre negativa

mercoledì 8 dicembre 2010

FilosoFare è partecipare: Spazi dell'anima incontra i cittadini del VIII Municipio


Nell’arco del mese di dicembre 2010, saranno realizzati 2 incontri - il 12 e 19 dicembre – ciascuno della durata di 3 ore, aperti ai cittadini dell’VIII Municipio con la finalità di sperimentare una pratica dialogica (e quindi filosofica) su alcune tematiche ‘calde’, in particolare per i giovani, sulle quali si ritiene significativo far fare una esperienza di riflessione in gruppo e di confronto aperto e rispettoso dell’altro. Una tale esperienza contribuisce ad ampliare i punti di vista dei singoli sia attraverso l’accoglienza di quelli degli altri membri del gruppo stesso, sia mediante la lettura comune di testi accessibili della tradizione filosofica.

Di seguito i titoli e gli argomenti che saranno trattati negli incontri:


12 dicembre 2010 ore 10,00 – 13,00:
Arte di ascoltare e mondi possibili. Quali pratiche per una società giusta?
19 dicembre 2010 ore 10,00 – 13,00:
Troppo stanco per …… Il tempo dell’agire.


La metodogia adottata sarà quella della ‘comunità di ricerca’ che consiste in una discussione approfondita intorno a un tema significativo. Il tema potrà essere deciso in partenza oppure identificato dal gruppo stesso a partire da uno o più stimoli (testi, immagini, scene di film, brani musicali) offerti da un facilitatore.

Gli incontri sono aperti a tutti.

La manifestazione/iniziativa è realizzata con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione di Roma Capitale.

martedì 7 dicembre 2010

Apologia di Socrate

[...] Ecco il motivo per cui la voce del dio non mi ha interdetto e perché io, contro i miei accusatori, contro quelli che mi hanno condannato, non ho alcun rancore, sebbene essi mi abbiano accusato e condannato non con questa intenzione, ma per farmi del male: in questo sono da biasimare. Tuttavia io li voglio pregare di una cosa: quando i miei figli saranno cresciuti, puniteli, cittadini, stategli dietro come io facevo con voi, se vedrete che si preoccupano più delle ricchezze o degli altri beni materiali che della virtù e se si crederanno di valere qualcosa senza valer poi nulla, rimproverateli, come io rimproveravo voi, per ciò che non curano e che, invece, dovrebbero curare, se credono di essere «grandi uomini» e poi non sono niente. Se farete questo, io e i miei figli avremo avuto da voi ciò che è giusto. Ma è giunta, ormai, l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne Dio.

domenica 5 dicembre 2010

La saggezza del mediatore

Viveva in un villaggio un uomo molto povero e devoto, assieme alla madre cieca e a una moglie triste e amareggiata per la mancanza di prole.

Ogni giorno questo uomo pio si alzava all’alba e andava al tempio a chiedere al Signore di far qualcosa per lenire le sofferenze sue e dei suoi cari. Dopo dodici anni di preghiere sentì la voce di Dio: «Esprimi un desiderio e sarà realizzato». «Mi prendi alla sprovvista» rispose il pover’uomo, posso consultarmi con mia madre e mia moglie prima di rispondere? Ottenuto il permesso, corre a casa dove incontra per prima la madre. «Figlio mio, se chiederai al Signore di ridarmi la vista, ti sarò grata e ti benedirò finché vivo». Poi andò dalla moglie, la quale messa al corrente di tutto, esclamò: « Lascia perdere tua madre che è vecchia e destinata a chiudere definitivamente gli occhi nel giro di qualche anno! Quello che devi chiedere è un figlio che un giorno si prenda cura di noi e che ci porti un po’ di fortuna anche economica».

La madre, che stava ascoltando, prese una canna e si mise a picchiare la nuora chiamandola egoista, la moglie reagì e ne nacque un terribile corpo a corpo. Il pover’uomo, sentendosi completamente impotente di fronte a tanta ira, scappò di casa e si recò da un suo conoscente il quale era considerato un mediatore dei conflitti nel villaggio.
«Mia madre vuole la vista, mia moglie un figlio ed io desidero più di tutto un certo benessere economico in modo da non dover pensare ogni giorno se si mangia o no».

L’uomo, dopo un attimo di meditazione, rispose: «Figlio mio, tu non devi scegliere fra le richieste dell’uno o l’altro membro della tua famiglia, sono tutte giuste. Domani mattina devi dire: Oh Signore, non chiedo nulla per me stesso, anche mia moglie non chiede nulla per sé, ma mia madre è vecchia e cieca e il suo ultimo desiderio prima di morire è riuscire a vedere un nipotino sano e vispo, che mangia cibo abbondante da una tazza tutta d’oro.»

Racconto popolare di Trinidad. Tratto da: David W. Augsburger, Conflictand Mediation Across Cultures, Westminster/John Knox Press, Louisville

venerdì 3 dicembre 2010

"Mi ricordo"

L'uomo chiese una volta all'animale: "Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità?" L'animale voleva rispondere e dice: "Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire" – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l'uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via – e improvvisamente rivola indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice "Mi ricordo" (Nietzsche, da Considerazioni inattuali)

domenica 28 novembre 2010

Strani incontri a Milano

Ogni tanto mi piace bere una bella birra seduto ad un tavolino di qualche bar del centro, non importa quale, l’importante è che sia all’aperto e che ci sia un bel passaggio. L’altro giorno stavo gustando un’Ale comodamente seduto in un bar di via Dante, sullo sfondo il castello sforzesco. Guardavo il viavai, era una bella giornata estiva ma non afosa, un leggero venticello dava la sensazione di essere a Roma anziché a Milano. Guardare la gente che passeggia ostentando goffamente il loro ultimo acquisto firmato o un’impostata quanto patetica mise trasandata è un passatempo che mi è sempre piaciuto, mi aiuta a rilassarmi e a considerare come la vuotezza sia sempre più parte integrante dei nostri costumi. Come stavo dicendo, mi trovavo seduto a godermi una birra quando notai che fra i tavolini si aggirava uno strano tipo, forse un questuante. Non saprei dire a quale categoria di accattoni appartenesse, non era uno straccione e non era neppure più sporco di tanti che si credono puliti. L’unico particolare che poteva inquadrarlo come accattone era l’abbigliamento eccessivamente caldo rispetto al clima. Una giacca pesante ricopriva una camicia a scacchi di flanella malamente infilata in un paio di calzoni di velluto pesante. Ai piedi un paio di scarponi invernali, tutto sommato poteva essere un turista che dopo un’escursione in alta montagna aveva scordato di cambiarsi, ma qui non siamo in montagna per cui il suo abbigliamento era decisamente da considerarsi fuori luogo. Mi chiedevo come potesse non sudare con tutta quella roba addosso, sotto la camicia chissà quali altri indumenti indossava. Aspettavo che si avvicinasse anche al mio tavolo ed avevo già pronti cinque euro da dargli, mi era simpatico, da sotto una folta barba sale e pepe spuntava a tratti un sorriso dolce e accattivante, sincero. Quando si avvicinò al mio tavolo, senza rendermi conto di quello che facevo lo invitai ad accomodarsi. Incredulo mi chiese se aveva capito bene. Certo, gli dissi e lui si accomodò.
“Crazie” Disse con un italiano che tradiva origini teutoniche
“Cosa posso offrirle?” Gli domandai.
“Un the caldo, crazie.”
“Solo un the, non desidera qualcosa da mangiare?”
“Sì, con due fette di pane tostato, crazie.”
“Nient’altro?”
“No, crazie.”
Gli ordinai quanto aveva chiesto e lo osservai in religioso silenzio, non mi andava di iniziare a fare le solite domande idiote che si fanno ai barboni, “Ma cosa l’ha spinta a fare questa vita? Cosa le è successo? Ha famiglia?” Erano affari suoi, se aveva voglia di parlare lo avrebbe fatto di sua sponte.
Attese la consumazione guardandomi anch’egli in silenzio; iniziai a sentirmi in imbarazzo, sembrava che si fossero invertite le parti, mi venne un forte impulso volto a spezzare quel silenzio che era diventato assordante. Non lo feci.
Gli portarono il the con le fette di pane tostato, li consumò in silenzio con grande dignità. Chissà cosa pensava, chissà chi era, quanti chissà si ponevano tra noi.
Dopo quel lungo silenzio che mi stava uccidendo, finalmente profferì una parola.
“Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché mi ha chiesto di sedermi qui con lei.”
“Così.”
“Così non è una risposta.”
“Sì, così, non so, ho pensato che potesse farle piacere.”
“Ah, ha pensato che potesse farmi piacere.”
“Sì, proprio così.”
“E cosa le ha fatto pensare che potesse farmi piacere sedermi qui vicino a lei?”
“Non so, ho pensato che fosse stanco.”
“Cosa le faceva pensare che fossi stanco, mi trascinavo? Camminavo curvo? Ansimavo?”
“No, niente di tutto questo, è stata una sensazione.”
“Una sensazione.”
“Sì, una sensazione.”
“Lei crede alle sensazioni?”
“Sì, in genere ci credo.”
“Quindi a volte non ci crede.”
“Sì, non si può farne una regola.”
“Non si può farne una regola. Adesso ha altre sensazioni?”
“In che senso?”
“Nel senso sensitivo, sente qualcos’altro? Prima ha sentito che potevo essere stanco, ora cos’altro sente?”
“Ora non sento altro.”
“Ora non sente altro.”
Quella conversazione cominciava a innervosirmi, cosa voleva, gli avevo offerto un’occasione di ristoro e lui mi trattava in quel modo, ma chi si crede di essere?
“Lo sa che lei è veramente strano?” Sbottai.
“No, non lo sapevo, lo terrò in considerazione.”
“Bene.”
Poco dopo si alzò, mi ringraziò per il the, sorridendo mise la mano nella tasca interna della pesante giacca e trasse un biglietto da visita, il suo, e me lo porse invitandomi a contattarlo se ne avessi sentito il bisogno: Prof. Franz Keller psichiatra.

A cura di Max Bonfanti http://www.laccentodisocrate.it/

Un racconto per portare l'attenzione sulle cornici di riferimento, sugli schemi culturali e personali che delimitano e  ingabbiano la nostra visione del mondo.

Mercoledì 1° dicembre alle ore 21.00, secondo incontro del laboratorio di pratica filosofica della Scuola Popolare di Filosofia “Lavoro, dunque sono. Ma, chi sono?”

Sono partiti i primi incontri dei laboratori di pratica filosofica proposti dalla nostra Scuola. II laboratorio dedicato ai temi del lavoro, “Lavoro, dunque sono. Ma, chi sono?” , a cura di Myriam Ines Giangiacomo, è un percorso di ricerca proposto soprattutto a imprenditori, professionisti, manager e quadri. Nel primo incontro sono stati affrontati con leggerezza temi scottanti come quelli della adeguatezza della preparazione scolastica al mondo del lavoro e dei rapporti tra tecnica e cultura, insegnamento di nozioni e testimonianze di vita. Nel prossimo incontro partiremo dalla lettura collettiva di alcuni testi per formulare le nostre domande.
E’ ancora possibile iscriversi fino al prossimo incontro, poi il gruppo sarà considerato al completo.
Per tutte le info: www.spazidellanima.it e per avere in anticipo la documentazione: scrivere a info@spazidellanima.it o telefonare 06 7842819

domenica 21 novembre 2010

Il ritratto Ovale

(…) Era una fanciulla di rara bellezza, amabile quanto piena di gioia. Maledetta fu l’ora in cui vide il pittore, si innamorò di lui e lo sposò. Lui, uomo appassionato, studioso e austero, era già sposato con l’arte. Lei, fanciulla di rara bellezza, amabile e piena di gioia; tutta luce e sorrisi, festosa come una cerbiatta, amava e aveva cara ogni cosa. Odiava soltanto l’arte, sua rivale. Temeva soltanto la tavolozza e i pennelli e tutti gli odiati strumenti che la privavano della vista dell’amato. Fu terribile quando il pittore disse che voleva fare un ritratto anche a lei, sua giovane sposa. Ma, era umile e remissiva, e per molte settimane sedette docilmente nella stanza buia in cima alla torre dove la luce scendeva sulla pallida tela solo dall’alto. Ma lui, il pittore, si curava soltanto della propria opera, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Era un uomo appassionato, ombroso, malinconico. Così non si accorse che la luce, incombente in maniera tanto spettrale entro quella torre isolata, minava la salute e lo spirito della sua sposa: lei sfioriva a vista d’occhio. Tutti se ne accorgevano tranne il marito. Lei comunque seguitava a sorridere senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore, già molto famoso, traeva da quell’opera un piacere intenso e lavorando notte e giorno per ritrarre colei che tanto lo amava e che tuttavia diventava giorno dopo giorno sempre più debole e triste. E in verità chi aveva visto il ritratto parlava sottovoce della somiglianza come di un’assoluta meraviglia e come una prova non soltanto dell’abilità del pittore, ma anche del suo profondo amore per la creatura ritratta in modo così straordinario. Ma alla fine, quando ormai l’opera stava per essere terminata, nessuno fu più ammesso nella torre perché il pittore, tutto presa dalla foga della propria arte, non staccava mai gli occhi dalla tela, neppure per guardare il viso di sua moglie. Non volle vedere che il colore steso sulla tela era sottratto dalle guance della donna seduta accanto a lui. E dopo molte settimane, quando ormai non restava quasi nulla da fare, se non una pennellata alle labbra e un’ombreggiatura agli occhi, lo spirito della donna ebbe ancora un guizzo, come una fiamma nella cavità di una lampada. Il colpo di pennello fu dato, l’ombreggiatura venne compiuta. Per un attimo il pittore rimase in estasi davanti all’opera finita. Ma un attimo dopo, mentre ancora lo guardava, cominciò a tremare e a impallidire; in preda al terrore, gridando: “Questa è la vita!”, si voltò verso l’amata: era morta.
di Edgar Allan Poe
Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Noi di Spazi dell’ Anima abbiamo scelto questo racconto per riflettere insieme su quanti volti diversi, persino nobili, può assumere la violenza, come sottilmente può insinuarsi strisciante nella nostre vite. Ma davvero è così difficile riconoscere l’amore che consuma? Trovare le parole per dirlo? Noi pensiamo che sia possibile dar nome e forma ad ogni tipo di violenza, anche quella che prospera nascondendosi nelle pieghe dell’ambiguità e siamo convinte che il dialogo e la narrazione siano il primo passo da fare per prendere “le misure” e vedere dalla giusta distanza le situazioni. Per questo dedicheremo alla violenza il prossimo Cafè-philo il 15 dicembre. Vi aspettiamo.


Da Bibli "I dialoghi della cura” – nuovo appuntamento il 22 novembre

Lunedì 22 novembre, ore 20.30 nuovo appuntamento a Roma presso il centro culturale della Libreria Bibli in via dei Fienaroli, 28.
La Scuola popolare di filosofia e l’Opificio delle pratiche filosofiche invitano al secondo incontro del ciclo “I Dialoghi della cura: il pluriverso delle emozioni”, a cura di Simona Landolfi, Myriam Ines Giangiacomo e la Squadra Salvamondo.
Titolo dell’incontro: ”A ME PIACE SENTIRE LE COSE CANTARE”.
Cuore della riflessione filosofica comune saranno le emozioni.
Dice Simona: “esploreremo insieme il significato delle emozioni attraverso il racconto delle esperienze vissute, lasciandoci ispirare dalla letteratura e dall’arte; faremo un esercizio di ascolto reciproco, con la partecipazione di tutti i presenti che lo desiderino, per stimolare la riflessione comune verso un comprendere condiviso”.

martedì 16 novembre 2010

Il barattolo di maionese

Un professore, davanti alla sua classe di filosofia, senza dire parola, prende un barattolo grande e vuoto di maionese e procede a riempirlo con delle palle da golf. Dopo chiede agli studenti se il barattolo è pieno. Gli studenti sono d’accordo e dicono di si. Allora il professore prende una scatola piena di palline di vetro e la versa dentro il barattolo di maionese. Le palline di vetro riempiono gli spazi vuoti tra le palle da golf. Il professore chiede di nuovo agli studenti se il barattolo è pieno e loro rispondono di nuovo di si.
Il professore prende una scatola di sabbia e la versa dentro il barattolo. Ovviamente la sabbia riempie tutti gli spazi vuoti e il professore chiede ancora se il barattolo è pieno. Anche questa volta gli studenti rispondono con un si unanime. Il professore velocemente aggiunge due tazze di caffé al contenuto del barattolo ed effettivamente riempie tutti gli spazi vuoti tra la sabbia. Allora gli studenti si mettono a ridere. Quando la risata finisce il professore dice: “Voglio che vi rendiate conto che questo barattolo rappresenta la vita…Le palle da golf sono le cose importanti come la famiglia, i figli, la salute, gli amici, l’amore, le cose che ci appassionano. Sono cose che, anche se perdessimo tutto e ci restassero solo quelle, le nostre vite sarebbero ancora piene. Le palline di vetro sono le altre cose che ci importano, come il lavoro, la casa, la macchina, ecc. La sabbia è tutto il resto: le piccole cose. Se prima di tutto mettessimo nel barattolo la sabbia, non ci sarebbe posto per le palline di vetro né per le palle da golf. La stessa cosa succede con la vita. Se utilizziamo tutto il nostro tempo ed energia nelle cose piccole, non avremo mai spazio per le cose realmente importanti. Fai attenzione alle cose che sono cruciali per la tua felicità: gioca con i tuoi figli, prenditi il tempo per andare dal medico, vai con il tuo partner a cena, pratica il tuo sport o hobby preferito. Ci sarà sempre tempo per pulire casa, per tagliare le erbacce, per riparare le piccole cose… Occupati prima delle palline da golf, delle cose che realmente ti importano. Stabilisci le tue priorità: il resto è solo sabbia”. Uno degli studenti alza la mano e chiede cosa rappresenti il caffè. Il professore sorride e dice: “Sono contento che tu mi faccia questa domanda. E’ solo per dimostrarvi che non importa quanto occupata possa sembrare la vostra vita, c’è sempre posto per un paio di tazze di caffé con un amico!”.

domenica 14 novembre 2010

Ancora su... perchè tornare alle cose

La categoria dell'essere era al centro della coscienza medievale e il tipo di conoscenza che i filosofi elaboravano del mondo quale lo percepivano intomo a loro non scalfiva questa intuizione, dato che il mondo visibile appariva loro il testo di ciò che Dio diceva alla sua creatura, attraverso segni e simboli, cosicché la materialità nelle cose  risultava come consumata da questa presenza in esse della significanza divina.

Ma il linguaggio è costituito da concetti, che non possono far altro che collegarsi agli aspetti delle cose come esse si presentano nell'approccio empirico, aspetti articolabili ad altri aspetti in altre cose e spesso per ragioni diverse che esprimere la volontà di Dio; fu questa lettura, di lì a poco intrapresa da una nuova forma di pensiero, a far nascere un'altra scienza. Quest'ultima escludeva ormai i segni e i simboli del passato, incentrati non tanto sulla natura dei fenomeni quanto sui modi di esistere degli esseri e sui loro rapporti con i fini ultimi.

E venne un giorno in cui questa lettura esclusivamente tramite concetti fu sufficientemente ampia e coerente da essere ritenuta da molti l'unica realtà, il che produsse un gran numero di conseguenze.

Non più delle esistenze ci si interessava, infatti, ma di oggetti: non più questa massiccia quercia, qui e ora, tra i cui rami stormivano voci, ma la quercia cosa, oggetto di analisi e di manipolazione. Oggetti, non più essere. E tra questi oggetti era inevitabile che si venisse a porre anche la persona umana. Per dirla in altri termini: tutto divenne significazione, e tramontò negli animi l'esperienza del divino, il che non è forse grave, ma con essa purtroppo si eclissò anche la nozione di senso, quella che permette di chiedersi se la vita ha "un senso" o meno, se vale la pena di essere vissuta.

Yves Bonnefoy da "Il poeta e il fluire ondeggiante delle moltitudini" – Moretti & Vitali – Bergamo 2009

sabato 13 novembre 2010

Mercoledì 17 alle 20,30, il Café Philo di novembre. Tema: "Considero valore..."

A riscoprire dal '700 la bellezza dei Café Philo fu, nel 1992, il filosofo francese Marc Sautet. Luogo di incontro, il Café des Phares a Parigi nei dintorni di Place de la Bastille, l'idea, promuovere il dialogo filosofico inteso come libero scambio di opinioni. I temi affrontati possono essere i più vari e spesso seguire canoni non convenzionali.  Con i Cafè Philo, la Scuola Popolare di Filosofia intende aprire spazi di riflessione, di condivisione e, perchè no, di sviluppo di idee a partire dall'incontro di storie, di persone, di culture in una dimensione di generoso dono di sè.

Un inizio

Dopo che ho usato il trapano ho sempre paura di aver fatto dei danni. Non ho dimestichezza, col trapano. Me la cavo meglio coi cacciavite. I cacciavite a stella. I cacciavite a stella sono degli strumenti, da un certo punto di vista, stupefacenti. A parte il nome, che secondo me è bellissimo, cacciavite a stella, hanno una forza, lì, nella loro puntina. In quella crocetta. In quella specie di minuscola x che a farla girare tira su dei rimorchi, tra un po’.
E i chiodini per appendere i quadri? Con quella cravattina di plastica per tenerli, così non ti martelli le dita. E dopo, due colpi, e senza quasi che tu te ne accorga, il chiodo è già dentro il muro. Una specie di magia.

Come i coltelli per tagliare il pane. L’altro giorno, per la prima volta nella mia vita, a quarantasei anni, ho comprato un coltello per tagliare il pane. È una meraviglia, tagliare il pane con un coltello per tagliare il pane. Ci volevano quarantasei anni, per arrivarci? Si vede di sì.

Paolo Nori - mercoledì 20 ottobre 2010 www.paolonori.it

Perchè ritornare alle cose? Less is more. Nel mondo dei minimi sistemi, meno è più.
Non è una prospettiva minimalista. La speranza è che forse gli oggetti, i gesti, gli odori e rumori, le piccole cose poco importanti, quasi insignificanti riescano a curare il cuore del nostro mondo malato di megalomania, con la loro "aurea maturità" (Niezsche) rivelandosi un vantaggio, un più, un more.

sabato 6 novembre 2010

Una Storia Cinese



Un giorno l'imperatore chiede a Chuang-Tzu - il più bravo pittore della Cina - il disegno di un granchio.
Chuang-Tzu risponde: "Ho bisogno di cinque anni di tempo e di una villa con dodici servitori!". L'imperatore acconsente.
Dopo cinque anni si reca nella villa per vedere l'opera di Chuang-Tzu, ma scopre che il disegno non è ancora cominciato."Ho bisogno di altri cinque anni per finire il mio lavoro", dice Chuang-Tzu. E l'imperatore acconsente di nuovo. Dopo altri cinque anni torna nella villa per vedere se il disegno è pronto. Chuang-Tzu allora prende in mano un pennello e in un momento, con un solo gesto, disegna un granchio, il più perfetto granchio mai visto.


Una storia cinese citata da I.Calvino in Lezioni Americane, Garzanti p. 53

Festina lente, affrettati lentamente, era il motto di Aldo Manuzio (http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Manuzio) e torna utile oggi per cogliere in questa suggestione orientale una bella chiave di riflessione sulla dimensione del tempo.
 Lunedi 15 novembre parte il laboratorio di pratica filosofica "Metafore per orientarsi nella complessità".

La complessità delle situazioni che ci troviamo ad affrontare in ogni campo della vita appare, a volte, sopraffare la nostra capacità di giudizio e ci relega sempre più spesso al ruolo di spettatori perplessi e non di attori. Il Laboratorio propone un percorso di ricerca per entrare nella realtà con leggerezza provando a dare forma a ciò che apparentemente è inconciliabile.

Il laboratorio si articola in 8 Incontri che si tengono una volta al mese di  lunedi sera alle 20.00

sabato 30 ottobre 2010

L'arciere più bravo del mondo

C'era una volta l'arciere più bravo del mondo.
Non c'era gara che non vincesse, sia che fosse ad occhi chiusi oppure contro bersagli così lontani da diventare poco più grandi di una mosca.
Stanco di non riuscire a trovare avversari alla propria altezza decise di mettersi in viaggio per trovare qualcuno con cui confrontarsi.
Dopo giorni e giorni e giorni di viaggio arrivò ad una cascata, e quale non fu il suo stupore quando vide un bersaglio collocato proprio sotto le rapide, e una freccia conficcata al suo centro.
Procedette, e mentre si guardava in giro vide un altro bersaglio, nascosto tra le fronde di un albero. E anche lì, al suo centro, una freccia. Sicuramente chi l'aveva centrato doveva essersi messo caposotto per colpirlo!
Continuando a camminare si trovò nei pressi di un paese, e mentre passava accanto al mulino vide un altro bersaglio tra le sue pale che giravano nel fiume. Anche lì una freccia era piantata al suo centro, salda mentre entrava e usciva dall'acqua.
L'arciere fermò allora un uomo che trainava un carretto lungo la strada, chiedendogli se sapeva indicargli la casa dell'uomo che aveva tirato quelle frecce. Ricevette in cambio un sorriso, e un gesto che indicava una casa poco lontana.
Con l'arco a tracolla bussò alla porta, ma quando questa si aprì non c'era nessuno davanti ai suoi occhi. Abbassato lo sguardo si trovò di fronte una bambina.
'Io sono l'arciere più bravo del mondo, sto viaggiando da lungo tempo alla ricerca di qualcuno che sia alla mia altezza per poterlo sfidare. Venendo in questo paese ho visto frecce conficcate in posti impensabili, e vorrei gareggiare con tuo padre'.
'Io non ho padre', rispose la bambina.
'Ma mi hanno detto che l'arciere che ha scoccato quelle frecce abita in questa casa', fece l'arciere.
'Vivo solo io qui. Sono io che le ho tirate'.
'Tu? Mi potresti fare vedere come? Alcuni bersagli sono in posti che nemmeno io riuscirei a raggiungere!'
La bambina, allora, prese il proprio arco e condusse l'arciere in un boschetto che cresceva ai margini del paese.
Lì si fermò, prese una freccia, e la incoccò, puntando l'arco verso il candido tronco di una betulla che cresceva lì vicino. La freccia volò, e andò a piantarsi quasi alle radici dell'albero, tra una chiazza scura del tronco e il muschio che vi cresceva a fianco. Allora la bambina posò l'arco e si avvicinò all'albero, si chinò a terra e trasse fuori dalla tasca una scatoletta. La aprì, e coi gessetti colorati che vi stavano dentro cominciò a dipingere un bersaglio intorno alla freccia.

Così fanno le storie: si scagliano come frecce, e poi dove cadono costruiscono mondi interi.

Storia raccolta e narrata da Ilaria Mezzogori

mercoledì 20 ottobre 2010

Un blog per la Scuola popolare di filosofia


Siamo professioniste della filosofia e della formazione unite per passione e valori e abbiamo voluto condividere l'avventura di dare vita a una ‘scuola popolare’ per diffondere la conoscenza della filosofia e la pratica dei suoi percorsi di riflessione e consapevolezza nella vita quotidiana individuale e collettiva.
La  Scuola popolare di filosofia  si propone di offrire a tutti coloro che lo desiderano una frequentazione della filosofia che si prenda cura del ‘senso’, aiuti a comprendere la realtà e possa orientare verso un agire responsabile.
E’ un ambiente non convenzionale, un luogo conviviale nel quale promuovere relazioni formative circolari e l’esercizio del pensiero critico e del dialogo.
Le attività della Scuola sono aperte a tutti senza limiti di età, non sono richiesti titoli accademici né particolari conoscenze della materia ma solo il desiderio (philo) di conoscere e sperimentare (sophia).
Per ampliare le possibilità di incontro e di confronto abbiamo disegnato questo spazio web come ulteriore occasione di incontro e di confronto con persone che condividono il piacere di riflettere e di mettere in comune i propri pensieri in maniera leggera, semplice e comunitaria.

Myriam Ines, Simona, Valeria