martedì 29 novembre 2011

Una Profezia

Ma non attraverso le istituzioni politiche in special modo si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale; perché il nome m’importa poco. Sarà attraverso l’avvilimento dei cuori.

Ho forse bisogno di dire che quel pò di politica che resterà si dibatterà penosamente fra le strette dell’animalità generale, e che i governanti saranno obbligati, per durare e per creare un simulacro d’ordine, a ricorrere a sistemi che farebbero fremere la nostra umanità attuale, per quanto indurita?...

Allora, quel che somiglierà alla virtù, - che dico, - tutto quello che non sarà più ardore per Pluto verrà considerato una ridicolaggine immensa.... Forse questi tempi sono molto vicini; chissà anche se non siano già venuti, e se l’ispessirsi della nostra natura non sia il solo ostacolo che ci impedisce di ben considerare l’ambiente in cui respiriamo!...

Sperduto in questo brutto mondo, spinto a gomitate dalla folla, sono come un uomo stregato il cui sguardo non vede, dietro di sé, negli anni profondi, che disillusione e amarezza, e davanti a sé soltanto una burrasca che non contiene niente di nuovo, né insegnamento, né dolore... Tuttavia lascerò queste pagine, - perché voglio datare la mia collera. Tristezza.

Charles Baudelaire, Fusée 1855-1862

martedì 22 novembre 2011

Sogni

C’era una volta il favoloso uccello del paradiso, che viveva nei sogni dei pittori, dei poeti e dei cacciatori. I pittori passavano la vita a dipingerlo, ma non sapevano riprodurre i suoi splendidi colori. E la gente diceva loro: "Dato che non riuscite a dipingerlo, vuol dire che non esiste!" I poeti lo descrivevano da un’eternità, ma non sapevano coglierne la bellezza. E la gente diceva loro: "Dato che non riuscite a descriverlo, vuol dire che non esiste!" "Come sarebbe a dire che non esiste?" ribatterono i cacciatori. Afferrarono i fucili, spararono nei sogni e uccisero l'uccello del paradiso, poi lo impagliarono. E la gente non disse nulla.
Ivan Kulekov, Senza titolo, Biblioteca del Vascello, Roma 1991.

venerdì 18 novembre 2011

Ode al Presente Pablo Neruda

Este
presente
liso
como una tabla,
fresco,
esta hora,
este día
limpio
como una copa nueva
—del pasado
no hay una
telaraña—,
tocamos
con los dedos
el presente,
cortamos
su medida,
dirigimos
su brote,
está viviente,
vivo,
nada tiene
de ayer irremediable,
de pasado perdido,
es nuestra
criatura,
está creciendo
en este
momento, está llevando
arena, está comiendo
en nuestras manos,
cógelo,
que no resbale,
que no se pierda en sueños
ni palabras,
agárralo,
sujétalo
y ordénalo
hasta que te obedezca,
hazlo camino,
campana,
máquina,
beso, libro,
caricia,
corta su deliciosa
fragancia de madera
y de ella
hazte una silla,
trenza
su respaldo,
pruébala,
o bien
escalera!

Si,
escalera,
sube
en el presente,
peldaño
tras peldaño,
firmes
los pies en la madera
del presente,
hacia arriba,
hacia arriba,
no muy alto,
tan sólo
hasta que puedas
reparar
las goteras
del techo,
no muy alto,
no te vayas al cielo,
alcanza
las manzanas,
no las nubes,
ésas
déjalas
ir por el cielo, irse
hacia el pasado.
eres
tu presente,
tu manzana:
tómala
de tu árbol,
levántala
en tu
mano,
brilla
como una estrella,
tócala,
híncale el diente y ándate
silbando en el camino.

Questo
presente
liscio
come una tavola,
fresco,
quest'ora,
questo giorno
terso
come una coppa nuova
- del passato
non c'è una sola
ragnatela -
tocchiamo
con le dita
il presente,
ne scolpiamo
il profilo,
ne guidiamo
il germe,
è vivente,
vivo,
non ha nulla
dell'ieri irrimediabile,
del passato perduto,
è nostra
creatura,
sta crescendo
in questo
momento, sta trasportando
sabbia, sta mangiando
nelle nostre mani,
prendilo,
non lasciarlo scivolare,
che non sfumi in sogni
o in parole,
afferralo,
trattienilo
e dagli ordini
finché non ti obbedisca,
fanne strada,
campana,
macchina,
bacio, libro,
carezza,
taglia la sua deliziosa
fragranza di legname
e con essa
fatti una sedia,
intrecciane
lo schienale,
provala,
o anche
una scala!

Sì,
una scala,
sali
nel presente.
gradino
dopo gradino,
fermi
i piedi sopra il legno
del presente,
verso l'alto,
verso l'alto,
non molto in alto,
soltanto
fin dove tu possa
riparare
le grondaie
del tetto,
non molto in alto,
non andartene in cielo,
raggiungi
le mele,
non le nuvole,
quelle
lasciale
andare per il cielo, andare
verso il passato.
Tu
sei
il tuo presente,
la tua mela:
prendila
dal tuo albero,
innalzala
nella tua
mano,
brilla
come una stella,
toccala,
addentala e incamminati
fischiettando per strada

martedì 15 novembre 2011

Uomo Nuovo

Culturalmente, è più facile mobilitare gli uomini per la guerra che per la pace. Nel corso della storia, l'Umanità è sempre stata portata a considerare la guerra come il mezzo più efficace di risoluzione dei conflitti, e quelli che hanno governato si sono sempre serviti dei brevi intervalli di pace per preparare le guerre future. Ma è sempre stato in nome della pace che sono state dichiarate tutte le guerre. È sempre perché un domani i figli vivano pacificamente che oggi vengono sacrificati i padri...
Questo si dice, questo si scrive, questo si fa credere, giacché si sa che l'uomo, ancorché storicamente educato per la guerra, possiede nel proprio spirito un permanente anelito di pace. Ecco perché la pace è usata tante volte come mezzo di ricatto morale da quelli che vogliono la guerra: nessuno oserebbe confessare che fa la guerra per la guerra, mentre si giura, questo sì, che si fa la guerra per la pace. Per ciò tutti i giorni e in tutte le parti del mondo continua a essere possibile che gli uomini partano per la guerra, continua a essere possibile che la guerra vada a distruggerli nelle loro stesse case.
Ho parlato di cultura. Sarò magari più chiaro se parlerò di rivoluzione culturale, anche se sappiamo che si tratta di un'espressione logora, spesso perduta in progetti che l'hanno snaturata, usurata in contraddizioni, smarrita in avventure che hanno finito per servire interessi che le erano radicalmente contrari. Eppure, non sempre queste agitazioni sono state vane. Si sono aperti spazi, allargati orizzonti, ancorché mi sembri che ormai sarebbe più che ora di capire e proclamare che l'unica rivoluzione veramente degna di tal nome sarebbe la rivoluzione della pace, quella che trasformerebbe l'uomo addestrato alla guerra in un uomo formato per la pace perché con la pace sarebbe stato formato. Questa, sì, sarebbe la grande rivoluzione mentale, e dunque culturale, dell'Umanità. Questo sarebbe, infine, l'Uomo nuovo di cui tanto si parla.

Josè Saramago L’Ultimo Quaderno, Feltrinelli, Milano, 2010

giovedì 10 novembre 2011

Il Giorno del Giudizio

Che cosa mi affascina, mi tiene incantato, nelle fotografie che amo? Credo si tratti semplicemente di questo: la fotografia è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell'ultimo giorno, nel Giorno della Collera. Non è certamente una questione di soggetto, non intendo dire che le fotografie che amo sono quelle che rappresentano qualcosa di grave, di serio o perfino tragico. No, la foto può mostrare un volto, un oggetto, un evento qualunque. È il caso di un fotografo come Dondero, che, come Robert Capa, è sempre rimasto fedele al giornalismo attivo e ha spesso praticato quella che si potrebbe chiamare la flânerie (o la "deriva") fotografica: si passeggia senza meta e si fotografa tutto quello che capita. Ma "quello che capita" – il volto di due donne che passano in bicicletta in Scozia, la vetrina di un negozio a Parigi – è convocato, è citato a comparire al Giorno del Giudizio.
Che ciò sia vero sin dall'inizio della storia della fotografia, un esempio lo mostra con assoluta chiarezza. Conoscete certamente il celebre dagherrotipo del Boulevard du Temple, che viene considerato come la prima fotografia in cui compaia una figura umana. La lastra d'argento rappresenta il boulevard du Temple fotografato da Daguerre dalla finestra del suo studio in un'ora di punta. Il boulevard doveva essere stracolmo di gente e di carrozze e, tuttavia, dal momento che gli apparecchi dell'epoca esigevano un tempo di esposizione estremamente lungo, di tutta questa massa in movimento non si vede assolutamente nulla. Nulla, tranne una piccola sagoma nera sul marciapiede, in basso a sinistra della foto. Si tratta di un uomo che si stava facendo lucidare gli stivali ed è dunque rimasto immobile abbastanza a lungo, con la gamba appena sollevata per poggiare il piede sul banchetto del lustrascarpe.
Non saprei fantasticare un'immagine piú adeguata del Giudizio Universale. La folla degli umani – anzi l'umanità intera – è presente, ma non si vede, perché il giudizio concerne una sola persona, una sola vita: quella, appunto, e non altra. E in che modo quella vita, quella persona è stata colta, afferrata, immortalata dall'angelo dell'Ultimo Giorno – che è anche l'angelo della fotografia? Nel gesto piú banale e ordinario, nel gesto di farsi lustrare le scarpe! Nell'istante supremo, l'uomo, ogni uomo, è consegnato per sempre al suo gesto piú infimo e quotidiano. E tuttavia, grazie all'obiettivo fotografico, quel gesto si carica ora del peso di un'intera vita, quell'atteggiamento irrilevante, persino balordo compendia e contrae in sé il senso di tutta un'esistenza.
Io credo che vi sia una relazione segreta fra gesto e fotografia. Il potere del gesto di riassumere e convocare interi ordini di potenze angeliche si costituisce nell'obiettivo fotografico ed ha nella fotografia il suo locus, la sua ora topica. Benjamin ha scritto una volta a proposito di Julien Green che egli rappresenta i suoi personaggi in un gesto carico di destino, che li fissa nell'irrevocabilità di un'aldilà infernale. Credo che l'inferno che è qui in questione sia un inferno pagano e non cristiano. Nell'Ade, le ombre dei morti ripetono all'infinito lo stesso gesto: Issione fa girare la sua ruota, le Danaidi cercano inutilmente di portare acqua in una brocca bucata. Ma non si tratta di una punizione, le ombre pagane non sono dei dannati. L'eterna ripetizione è qui la cifra di una apokatastasis, dell'infinita ricapitolazione di un'esistenza.

Da G. Agamben, Il Giorno del Giudizio, Roma, Ed. Nottempo

mercoledì 2 novembre 2011

Per colpa di una scimmia di Valter Binaghi

Il maestro fu svegliato, nel bel mezzo del suo riposo pomeridiano, da grida scomposte che provenivano dal giardino. Là fuori, sotto i rami contorti e frondosi del fico, i due discepoli disputavano animatamente. Eraclito cinse le vesti e si affacciò alla porta. “Ebbene?” domandò sorridendo: “Volete forse che tutti i cittadini di Efeso sappiano della vostra sapienza? Per Zeus! Le vostre grida giungono oggi ben oltre i limiti consentiti alla serena conversazione dei saggi!” “Perdona maestro”, fece il giovane Cratilo, scuotendo i lunghi riccioli dalla fronte abbronzata, “ma costui mi esaspera con la sua testardaggine, nè si arrende quando io esibisco, a conferma del mio dire, il tuo autorevole detto”. “Questa è bella!” scattò irruento l’amico Panfilo: “anch’io sono in grado di suffragare il mio discorso con un detto del maestro e sei proprio tu, razza di presuntuoso, ad ignorare tale testimonianza…” Eraclito scoppiò in una risata e si grattò la barba: “Forse voi credete soltanto di avere lo stesso maestro, ma non è così, se la vostra discussione finisce col mettere Eraclito contro Eraclito stesso. Oppure, come dice il volgo, Eraclito è proprio oscuro e i suoi detti si azzannano tra loro come un groviglio di vipere affamate: in questo caso vi sareste imbattuti in una pessima sapienza, che è stretta parente della follia! Sentiamo comunque qual’è l’origine della disputa”

“Ebbene”, cominciò Cratilo, “ci si chiedeva all’inizio quale valore si debba attribuire ai nomi che gli uomini danno alle cose. La mia risposta fu: ben poco, quasi nulla, per Zeus! Com’è possibile fissare in una forma ciò che incessantemente diviene? Perchè – di questo almeno si deve essere certi – come tu spesso affermi, tutto scorre. E’ necessario, per gli usi del volgo, che le cose siano nominate, ma il nome si confà maggiormente all’orma lasciata sulla sabbia che al pellegrino che cammina: il vivere infatti è un cammino, e il cammino è trascorrere fra molti luoghi senza mai posare. Chi potrà dare un luogo al fuoco, il cui riposo è la propagazione incessante? Perciò, maestro, tu con giustizia affermasti che nulla è identico a sè stesso, e non si entra due volte nello stesso fiume!” “Ora ascolta me, saggio Eraclito”, fece Panfilo di rimando: “il nome ha ragion d’essere in quanto esso dice ciò che, nell’oscura agitazione della cosa, risplende come la sua immutabile verità. Ammettiamo pure, come vuole Cratilo, che ogni vita sia un cammino: ebbene, ogni cammino ha una méta, un luogo in cui si compiace, una dimora in cui sosta e celebra una presenza che mai più dovrà soffrire dell’erramento. La méta è più vera del camminare, ed è questo compimento che causa il camminare stesso: ecco il volto segreto della cosa, cui il pensiero e il nome che esprime mirano. Così, mentre l’opinione del volgo è discorde, perchè ognuno contempla un tratto diverso del sentiero – chi vede la cosa nel suo sorgere, chi nel suo splendore, chi nel suo autunno – la saggezza è una e comune, perchè considera il Logos che, ineluttabile, tutto governa. Cosi tu, maestro, ridicolizzi coloro che vivono ognuno come stupito nel proprio sogno senza oltrepassare l’evanescenza dell’opinione, mentre affermi che il Logos risplende unico e sovrano per le menti che non disdegnano di elevarsi ad esso!” Entrambi i giovani si volsero allora verso il saggio, ansiosi di ascoltare il suo giudizio, ognuno in cuor suo persuaso della vittoria. Ma Eraclito scosse il capo sorridendo e disse : “Accade qui qualcosa di strano. Entrambi dite il vero, ma le vostre verità non si riconoscono e la loro inimicizia le condanna”. “Ti burli di noi, maestro!” esclamò Panfilo con la solita irruenza: “Come possono due ragioni contrarie unirsi in amicizia?” “Amico, non questo devi chiedere, ma piuttosto vedere se nelle cose vivano insieme la quiete e il movimento, l’identico e il diverso che le vostre ragioni oppongono. Infatti, non la cosa è per il pensiero, ma il pensiero per la cosa. Dunque, guardate quest’albero: non è vero che, più si espande fino svettare nel cielo, e più si radica nel suo luogo terrestre? Vasto e profondo è il suo respiro, incessante l’anelito verso il sole, eppure non si muove di un palmo, e nessuno lo desta dal suo sonno. Mutando riposa, immobile compie il suo cammino”. I discepoli,meravigliati, contemplavano il volto del maestro, quieto e solenne come la montagna che si specchia nel giovane lago. “Saggio Eraclito, dicci ancora di questa nuova verità, che s’innalza oltre l’affermare e il negare della ragione!”

Il saggio di Efeso rientrò in casa e ne comparve subito dopo, recando in mano due oggetti. Li porse ai giovani: “L’opposto concorde. E dai discordi bellissima armonia, come quella dell’arco e della lira”.

E mentre essi presero ad osservarli attentamente, continuò: “Molti anni fa (già allora il mio pensiero vagava dolorosamente sulle tracce dell’Uno) feci uno strano sogno. Mi pareva di camminare per molte miglia in una landa desolata e buia, e già disperavo di poter ritornare al paese dei vivi quando, ad un tratto, intravidi lontano un bagliore di luce. Corsi a perdifiato per raggiungere quella salvezza finchè mi trovai ai piedi di un’alta, liscia muraglia, nella quale si apriva una fenditura, troppo stretta per parere una porta. Da lì filtrava la luce che laggiù, oltre la parete invalicabile, doveva essere viva e splendente come un sole. Desiderai varcare il pertugio, ma era stretto, troppo stretto per il mio corpo, e forse anche per quello di un fanciullo. Sedetti a terra sconsolato. Fu allora che udii una voce alle mie spalle: – Alza gli occhi, mortale! – mi disse. Pallade Atena, splendida e biancovestita, come appena sorta dal capo del sommo Zeus, stava di fronte a me. – Come posso, o Dea, varcare la muraglia ed attingere alla Grande Luce? – ed indicai il muro troppo alto, la fessura troppo stretta. – Non potrai, finchè in te l’alto e il basso, l’ampio e l’angusto, la scienza e l’ignoranza non saranno che una sola cosa. Oltre quel muro infatti vi è il Dio. E il Dio è al di là di ogni inimicizia. Egli è giorno notte, inverno estate, sazietà fame, come ora il tuo pensiero che oppone e distingue non può comprendere. Quando tutto ciò che è pesante e molteplice in te sarà consumato, e il tuo Spirito si leverà come incenso dall’altare, allora potrai varcare la fessura, Uno nell’Uno – Subito le domandai: – E come apprenderò, o divina, quest’ arte misteriosa? – Fu allora ch’ella trasse dall’oscurità l’arco e la lira, e me li porse: – Ricerca l’unità in ciò che l’opinione separa: essa è l’orma del Dio, celata tra le cose. Dall’opposta volontà del plettro e della corda impara a trarre ineffabile armonia. Nella saetta del pensiero verace slanciati, muovendo dalla guerra del legno e della fune, fino a giungere al centro del bersaglio: esso è la dimora del Dio che non ha luogo, della pace che non dilegua – Così mi disse la Dea, figli miei, e così da quel giorno mi provo a fare”.  Per quel pomeriggio, Cratilo e Panfilo smisero di discutere, e presero ad esercitarsi nell’arco e nella lira, sotto la guida del maestro, fino all’imbrunire.

Eraclito possedeva una scimmia, capace coi suoi lazzi di divertire gli ospiti e il maestro nelle uggiose giornate di pioggia. La scimmia, nascosta dietro una siepe, aveva ascoltato tutta la conversazione e, gongolando, disse tra sè : “Finalmente ho compreso il segreto: questo e quello, pari sono. L’essere e il nulla, il giorno e la notte. Un pò di questo e un po’ di quello, si toglie e si aggiunge per fare un bel concerto: infatti io sento proprio musica di moneta sonante!” e si fregò le zampe.

Così, la notte, rubò l’arco e la lira e corse nella ricca città di Atene, dove vendette i suoi tesori e il segreto del loro uso a due uomini: costoro levigarono quei rozzi manufatti fino a farne strumenti efficaci, ne mutarono il nome in Strategia e Dialettica e guadagnarono in breve molta fortuna presso i cittadini. Erano il Demagogo ed il Sofista.


http://valterbinaghi.wordpress.com