mercoledì 2 novembre 2011

Per colpa di una scimmia di Valter Binaghi

Il maestro fu svegliato, nel bel mezzo del suo riposo pomeridiano, da grida scomposte che provenivano dal giardino. Là fuori, sotto i rami contorti e frondosi del fico, i due discepoli disputavano animatamente. Eraclito cinse le vesti e si affacciò alla porta. “Ebbene?” domandò sorridendo: “Volete forse che tutti i cittadini di Efeso sappiano della vostra sapienza? Per Zeus! Le vostre grida giungono oggi ben oltre i limiti consentiti alla serena conversazione dei saggi!” “Perdona maestro”, fece il giovane Cratilo, scuotendo i lunghi riccioli dalla fronte abbronzata, “ma costui mi esaspera con la sua testardaggine, nè si arrende quando io esibisco, a conferma del mio dire, il tuo autorevole detto”. “Questa è bella!” scattò irruento l’amico Panfilo: “anch’io sono in grado di suffragare il mio discorso con un detto del maestro e sei proprio tu, razza di presuntuoso, ad ignorare tale testimonianza…” Eraclito scoppiò in una risata e si grattò la barba: “Forse voi credete soltanto di avere lo stesso maestro, ma non è così, se la vostra discussione finisce col mettere Eraclito contro Eraclito stesso. Oppure, come dice il volgo, Eraclito è proprio oscuro e i suoi detti si azzannano tra loro come un groviglio di vipere affamate: in questo caso vi sareste imbattuti in una pessima sapienza, che è stretta parente della follia! Sentiamo comunque qual’è l’origine della disputa”

“Ebbene”, cominciò Cratilo, “ci si chiedeva all’inizio quale valore si debba attribuire ai nomi che gli uomini danno alle cose. La mia risposta fu: ben poco, quasi nulla, per Zeus! Com’è possibile fissare in una forma ciò che incessantemente diviene? Perchè – di questo almeno si deve essere certi – come tu spesso affermi, tutto scorre. E’ necessario, per gli usi del volgo, che le cose siano nominate, ma il nome si confà maggiormente all’orma lasciata sulla sabbia che al pellegrino che cammina: il vivere infatti è un cammino, e il cammino è trascorrere fra molti luoghi senza mai posare. Chi potrà dare un luogo al fuoco, il cui riposo è la propagazione incessante? Perciò, maestro, tu con giustizia affermasti che nulla è identico a sè stesso, e non si entra due volte nello stesso fiume!” “Ora ascolta me, saggio Eraclito”, fece Panfilo di rimando: “il nome ha ragion d’essere in quanto esso dice ciò che, nell’oscura agitazione della cosa, risplende come la sua immutabile verità. Ammettiamo pure, come vuole Cratilo, che ogni vita sia un cammino: ebbene, ogni cammino ha una méta, un luogo in cui si compiace, una dimora in cui sosta e celebra una presenza che mai più dovrà soffrire dell’erramento. La méta è più vera del camminare, ed è questo compimento che causa il camminare stesso: ecco il volto segreto della cosa, cui il pensiero e il nome che esprime mirano. Così, mentre l’opinione del volgo è discorde, perchè ognuno contempla un tratto diverso del sentiero – chi vede la cosa nel suo sorgere, chi nel suo splendore, chi nel suo autunno – la saggezza è una e comune, perchè considera il Logos che, ineluttabile, tutto governa. Cosi tu, maestro, ridicolizzi coloro che vivono ognuno come stupito nel proprio sogno senza oltrepassare l’evanescenza dell’opinione, mentre affermi che il Logos risplende unico e sovrano per le menti che non disdegnano di elevarsi ad esso!” Entrambi i giovani si volsero allora verso il saggio, ansiosi di ascoltare il suo giudizio, ognuno in cuor suo persuaso della vittoria. Ma Eraclito scosse il capo sorridendo e disse : “Accade qui qualcosa di strano. Entrambi dite il vero, ma le vostre verità non si riconoscono e la loro inimicizia le condanna”. “Ti burli di noi, maestro!” esclamò Panfilo con la solita irruenza: “Come possono due ragioni contrarie unirsi in amicizia?” “Amico, non questo devi chiedere, ma piuttosto vedere se nelle cose vivano insieme la quiete e il movimento, l’identico e il diverso che le vostre ragioni oppongono. Infatti, non la cosa è per il pensiero, ma il pensiero per la cosa. Dunque, guardate quest’albero: non è vero che, più si espande fino svettare nel cielo, e più si radica nel suo luogo terrestre? Vasto e profondo è il suo respiro, incessante l’anelito verso il sole, eppure non si muove di un palmo, e nessuno lo desta dal suo sonno. Mutando riposa, immobile compie il suo cammino”. I discepoli,meravigliati, contemplavano il volto del maestro, quieto e solenne come la montagna che si specchia nel giovane lago. “Saggio Eraclito, dicci ancora di questa nuova verità, che s’innalza oltre l’affermare e il negare della ragione!”

Il saggio di Efeso rientrò in casa e ne comparve subito dopo, recando in mano due oggetti. Li porse ai giovani: “L’opposto concorde. E dai discordi bellissima armonia, come quella dell’arco e della lira”.

E mentre essi presero ad osservarli attentamente, continuò: “Molti anni fa (già allora il mio pensiero vagava dolorosamente sulle tracce dell’Uno) feci uno strano sogno. Mi pareva di camminare per molte miglia in una landa desolata e buia, e già disperavo di poter ritornare al paese dei vivi quando, ad un tratto, intravidi lontano un bagliore di luce. Corsi a perdifiato per raggiungere quella salvezza finchè mi trovai ai piedi di un’alta, liscia muraglia, nella quale si apriva una fenditura, troppo stretta per parere una porta. Da lì filtrava la luce che laggiù, oltre la parete invalicabile, doveva essere viva e splendente come un sole. Desiderai varcare il pertugio, ma era stretto, troppo stretto per il mio corpo, e forse anche per quello di un fanciullo. Sedetti a terra sconsolato. Fu allora che udii una voce alle mie spalle: – Alza gli occhi, mortale! – mi disse. Pallade Atena, splendida e biancovestita, come appena sorta dal capo del sommo Zeus, stava di fronte a me. – Come posso, o Dea, varcare la muraglia ed attingere alla Grande Luce? – ed indicai il muro troppo alto, la fessura troppo stretta. – Non potrai, finchè in te l’alto e il basso, l’ampio e l’angusto, la scienza e l’ignoranza non saranno che una sola cosa. Oltre quel muro infatti vi è il Dio. E il Dio è al di là di ogni inimicizia. Egli è giorno notte, inverno estate, sazietà fame, come ora il tuo pensiero che oppone e distingue non può comprendere. Quando tutto ciò che è pesante e molteplice in te sarà consumato, e il tuo Spirito si leverà come incenso dall’altare, allora potrai varcare la fessura, Uno nell’Uno – Subito le domandai: – E come apprenderò, o divina, quest’ arte misteriosa? – Fu allora ch’ella trasse dall’oscurità l’arco e la lira, e me li porse: – Ricerca l’unità in ciò che l’opinione separa: essa è l’orma del Dio, celata tra le cose. Dall’opposta volontà del plettro e della corda impara a trarre ineffabile armonia. Nella saetta del pensiero verace slanciati, muovendo dalla guerra del legno e della fune, fino a giungere al centro del bersaglio: esso è la dimora del Dio che non ha luogo, della pace che non dilegua – Così mi disse la Dea, figli miei, e così da quel giorno mi provo a fare”.  Per quel pomeriggio, Cratilo e Panfilo smisero di discutere, e presero ad esercitarsi nell’arco e nella lira, sotto la guida del maestro, fino all’imbrunire.

Eraclito possedeva una scimmia, capace coi suoi lazzi di divertire gli ospiti e il maestro nelle uggiose giornate di pioggia. La scimmia, nascosta dietro una siepe, aveva ascoltato tutta la conversazione e, gongolando, disse tra sè : “Finalmente ho compreso il segreto: questo e quello, pari sono. L’essere e il nulla, il giorno e la notte. Un pò di questo e un po’ di quello, si toglie e si aggiunge per fare un bel concerto: infatti io sento proprio musica di moneta sonante!” e si fregò le zampe.

Così, la notte, rubò l’arco e la lira e corse nella ricca città di Atene, dove vendette i suoi tesori e il segreto del loro uso a due uomini: costoro levigarono quei rozzi manufatti fino a farne strumenti efficaci, ne mutarono il nome in Strategia e Dialettica e guadagnarono in breve molta fortuna presso i cittadini. Erano il Demagogo ed il Sofista.


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