martedì 17 dicembre 2013

Parole gelate


Quante suggestioni, quante emozioni pervengono a chi prende sul serio le metafore e non le considera semplici giochi linguistici o peggio meri ornamenti di stile dai quali si può uscire senza difficoltà. E quante nuove letture di un fenomeno vecchio come il silenzio proposte dalla benemerita quanto bizzarra Accademia del Silenzio per un mondo sempre più pieno di voci suoni e rumori.
Non si può tuttavia, nell’edificare strutture e nell’intuire parallelismi, non ricordare il fatto che l’immaginazione metaforica conosce ragioni che la ragione non conosce, ed è, come vedremo, refrattaria a esperimenti dirimenti che le vogliano far dire sempre inesorabilmente una cosa sola.

Ben lo si vedrà nel caso del silenzio, il silenzio delle voci in particolare (il “tacere”), per il quale inseriamo qui un nuovo tassello al nostro mosaico metaforico: voce e silenzio come acqua e ghiaccio. 

Ma ascoltiamo prima la meravigliosa storia delle parole gelate, accennata già in un aneddoto di Plutarco, presente nel Cortigiano del Castiglione, ma sviluppata per esteso soltanto nel poema francese del cinquecento Gargantua e Pantagruele di François Rabelais. La storia racconta così: Pantagruele e compagni, trovandosi in alto mare, credono di udire voci di persone che parlano in aria, ma pur sforzando gli sguardi, non vedono nessuno. Prestando attenzione, riescono a riconoscere intere parole e frasi. Ricordando la (presunta) dottrina di Platone sulle parole “le quali in certi paesi, nel tempo del più forte inverno, allorché vengono proferite, gelano e ghiacciano al freddo dell’aria e non sono sentite”, Pantagruele e soci si rendono conto allora di trovarsi nel posto dove le parole si erano gelate e che in quel momento, per effetto della bella stagione, disgelavano. Parole gelate che Pantagruele gettava ai compagni in forma di confetti perlati di vari colori, azzurri, neri, dorati: scaldatesi nelle mani, le parole-confetto “fondevano come neve” trasformandosi in suoni.

Siamo di fronte a una suggestiva trasposizione letteraria dell’idea che la parola, fluida, scorre, mentre mentre il silenzio, di ghiaccio, racchiude in un blocco compatto e immobile, le parole gelate, talvolta “troppo gelate per sciogliersi al sole”. Così, come ascoltando e cantando mille volte La guerra di Piero di de Andrè non ci siamo mai interrogati del perché quelle parole strette nella bocca non potessero sciogliersi, dal momento che lo capivamo e lo accettavamo e basta, così non staremo a chiederci qui se il silenzio è “veramente” di ghiaccio o di pietra e se si può rompere, spezzare, frantumare e “perché”. Se nessuno ce lo chiede infatti, la risposta la sappiamo, ma se qualcuno ce lo chiede, non siamo in grado di dargliela.

Francesca Rigotti, Metafore del Silenzio, Mimesis/Accademia del Silenzio, Milano-Udine 2013

giovedì 5 dicembre 2013

Il potere delle parole


Mi ricordo che una sera, quando ormai era sicuro che il Grado Zero sarebbe stato pubblicato da Seuil, camminando lungo il boulevard Saint-Michel arrossii da solo al pensiero che il libro non potesse più tornare indietro. 

Questo sentimento di panico mi prende ancor oggi, dopo aver scritto certi testi (non parlo neanche della mia ripugnanza, che è in fin dei conti una paura, a rileggere i miei libri passati): tutto d’un colpo il potere delle parole mi appare esorbitante, la loro responsabilità insostenibile, mi sento troppo debole dinanzi alla mia stessa scrittura.


R. Barthes, Autopresentazione in: a cura di G. Marrone, Scritti. Società, testo, comunicazione, Einaudi, Torino 1998.


martedì 3 dicembre 2013

la centralità della questione morale

La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).

Sostenendo che la morale non è un' applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.

Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l' antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta. Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l'interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).

Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.

Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».

Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica. Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso. Come si raccoglie il consenso?
Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo). Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine. Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo). La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso. In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, "tanto simpatico").

La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica. Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità. Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti. È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale». Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.

Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a
Machiavelli. Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale?

Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica). Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune. Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato. Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo. Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.


Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà. Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale. E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.

Vito Mancuso in “la Repubblica” dell'11 dicembre 2010