lunedì 31 ottobre 2011

Alberto De Toni ospite a Roma: evento aperto a tutti.


"Quando i mezzi sono complessi, avendo tante sfaccettature e ricadute (anche sui fini), l'esperienza del loro uso deve essere letta in altrettante dimensioni: non solo in quella strumentale del calcolo di efficienza, ma anche in quella visionaria dell'immaginazione del possibile, in quella psicologica della passione o del divertimento che si prova maneggiando un mezzo a cui ci si affeziona, in quella relazionale dell'incontro con I'Altro, in quelle estetica del perfezionamento di abilità e di mestieri che diventano parte dell'identità di chi li pratica. E poi, last but not least, in quella della scoperta del mondo, che è anche scoperta di sé. Un misto di ragione caso e serendipity che fanno scoprire cose utili ma anche inaspettate, sorprendenti. Eppure ricche di significato, capaci di cambiare la coscienza profonda di chi vive l'avventura di scoprirle. La meta magari non si raggiunge mai, o si rimanda continuamente - come fa Ulisse nel suo viaggio, ma è importante, fondamentale, averla presente, sentirla dentro. La razionalità delle scelte fatte nella vita è complessa, multiforme, fini e mezzi non appartengono a universi separati ma nascono dalla stessa passione per I'esperienza del mondo" (Enzo Rullani, Prefazione al volume Visione Evolutiva).

"Se navighi in un vasto mare sempre incerto e instabile, se ogni scoglio a cui pensi di afferrarti per restare saldo viene meno e ti abbandona; se per te nulla si ferma, Lettore non c'è verità, c'è solo la verità del dubbio. Lettore abbraccia la verità del dubbio. Siedi attorno a questo fuoco: oggi ti narrerò l'auto-organizzazione" (dal Prologo al volume Auto-organizzazioni).


Alberto Felice De Toni, Preside della Facoltà di Ingegneria dell'Università di Udine dove è professore di Gestione di Sistemi Complessi. Sintesi insolita e mirabile di Ingegneria e Filosofia, ci onora della sua amicizia e sarà ospite di Spazi dell'anima e di Managerzen il prossimo 11 novembre alle 18,00 in Via Carlo Denina 72 (Metro A Furio Camillo). L’evento è gratuito e aperto a tutti, è gradita mail di presenza a info@spazidellanima.it.

giovedì 27 ottobre 2011

La fiamma della vita

Un tempo – tempo dimenticato dai sogni stessi -la fiamma faceva pensare i sapienti: al filosofo solitario regalava mille sogni. Sul tavolo del filosofo, accanto agli oggetti prigionieri della loro forma, accanto ai libri che istruiscono lentamente, la fiamma della candela richiamava pensieri senza misura, evocava immagini senza limite. La fiamma diventava allora per un sognatore di mondi un fenomeno del mondo. Stavamo studiando in grossi libri il sistema del mondo, ed ecco che una semplice fiamma – ironia del sapere! – viene direttamente a proporci il suo enigma. Dentro una fiamma non vive forse il mondo? E la fiamma non ha anch’essa una vita? Non è forse il segno visibile di una creatura intima, il segno di una potenza segreta? Non contiene forse tutte le contraddizioni interne che dànno ad una metafisica elementare il suo dinamismo? Perché cercare dialettiche di idee quando abbiamo, proprio alla radice di un fenomeno semplicisssimo, dialettiche di fatti, dialettiche di esseri? La fiamma è un essere senza massa, eppure è un essere forte.
Se, accoppiando le immagini che uniscono la vita e la fiamma, volessimo scrivere contemporaneamente una «psicologia» delle fiamme e una «fisica» dei fuochi della vita, che campo sterminato di metafore dovremmo esaminare! Metafore? In quell’età di sapere remoto in cui la fiamma faceva pensare i sapienti, le metafore erano pensieri. Ma se il sapere dei vecchi libri è morto, l’interesse di réverie rimane. Cercheremo in questo libriccino di tradurre in réverie primaria tutti i nostri documenti, ci provengano essi dai filosofi o dai poeti. Tutto ci appartiene, tutto ci riguarda quando nei nostri sogni o nella comunicazione dei sogni degli altri ritroviamo le radici della semplicità. Davanti ad una fiamma, noi comunichiamo moralmente con il mondo. Persino in una veglia semplice e qualsiasi la fiamma della candela è il modello di una vita tranquilla e delicata. Certo, il minimo soffio la scompone, esattamente come un pensiero estraneo nella meditazione di un filosofo in meditazione. Ma quando giunge davvero il regno della vera solitudine, quando davvero suona l’ora della tranquillità, allora regna la stessa pace nel cuore del sognatore e nel cuore della fiamma, allora la fiamma conserva la sua forma e corre diritta come un pensiero sicuro verso il suo destino di verticalità.
Così, al tempo in cui si sognava pensando, si pensava sognando, la fiamma della candela poteva essere un manometro sensibile della tranquillità dell’anima, una misura della calma fine, di una calma che scende fin dentro ai dettagli della vita – di una calma che dona la grazia della continuità alla durata che accompagna una reverie tranquilla.
Volete essere calmi? Respirate piano davanti alla fiamma leggera che, posatamente, fa il suo lavoro di luce. (…)
Jean Cassau sognava sempre di abbordare il grande poeta Milosz con questa domanda degna di un principe regnante: «Come sta la Vostra Solitudine? »
Questa domanda ha mille risposte. In quale centro dell’anima, in quale angolo del cuore, in quale meandro dello spirito un grande solitario è solo, davvero solo?
Solo? Imprigionato o consolato? In quale rifugio, in quale cella, il poeta è un vero soliitario? E quando anche tutto il resto cambia a seconda dell’umore del cielo e del colore dei sogni ogni espressione della solitudine del grande solitario deve trovare la sua immagine. «Impressioni» di questo tipo sono per prima cosa immagini. Bisogna immaginare la solitudine per conoscerla – per amarla o per difendersene, per essere tranquilli o coraggiosi. Quando si vorrà fare la psicologia del chiaroscuro psichico nel quale si rischiara o si ottenebra questa coscienza del nostro essere, sarà necessario moltiplicare le immagini, raddoppiare ogni immagine. Un uomo solitario nella gloria del suo essere solo crede a volte di saper dire cosa è la solitudine. Ma a ciascuno la sua solitudine. E il sognatore di solitudine non può darci che qualche foglio di quest’album del chiaro scuro delle solitudini.
Quanto a me, in comunione completa con le immagini che mi vengono offerte dai poeti, in comunione completa con la solitudine di altri, mi faccio solo con le solitudini altrui.
Mi faccio solo, profondamente solo, con la solitudine di un altro.
Ma bisogna, naturalmente, che questa sollecitazione alla solitudine sia discreta, che sia per l’esattezza una solitudine d’immagine: se lo scrittore solitario mi vuole raccontare la sua vita, tutta la sua vita, mi diventa subito un estraneo. Le ragioni della sua solitudine non saranno mai le ragioni della mia. La solitudine non ha storia. Tutta la mia solitudine è contenuta in un’immagine primaria.
Ecco allora l’immagine semplice, il quadro centrale nel chiaroscuro dei sogni e del ricordo. Il sognatore è al suo tavolino: è nella sua mansarda: accende la sua lampada. Accende una candela. Accende la sua bugia. Ed ecco che io mi ricordo, ecco che mi ritrovo: anch’io, come lui, veglio. Studio come lui studia. II mondo è per me, come per lui, il libro difficile illuminato dalla fiamma di una candela. Perché la candela, compagna della solitudine, è soprattutto la compagna del lavoro solitario. La candela non illumina una cella vuota: illumina un libro.
Solo, di notte, con un libro illuminato da una candela – libro e candela, doppio isolotto di luce, contro le doppie tenebre dello spirito e della notte. Io studio! Non sono altro che il soggetto del verbo studiare.
Pensare, non oso.
Prima di pensare, si deve studiare.
Solo i filosofi pensano prima di studiare
Ma la candela si spegnerà prima che il libro difficile venga capito: non si deve perdere nemmeno un minuto di luce della candela, le ore della vita studiosa.
Se alzo gli occhi dal libro per guardare la candela, invece di studiare, sogno. Allora le ore fluttuano nella veglia solitaria. Le ore fluttuano tra la responsabilità di un sapere e la libertà delle réveries, questa troppo facile libertà dell’uomo solitario.
L’immagine di un uomo che veglia al lume di candela mi basta per cominciare a mia volta a fluttuare tra i pensieri e le reveries. Si, sarei turbato se il sognatore che è al centro dell’immagine mi dicesse le ragioni della sua solitudine, una remota storia di oltraggi della vita. Ah, il mio passato da solo è sufficiente ad appesantirmi. Non ho bisogno del passato degli altri. Ho bisogno invece delle immagini degli altri per colorare di nuovo le mie. Ho bisogno delle reveries degli altri per ricordare il mio lavoro sotto le fiammelle, per ricordare che sono stato io stesso un sognatore di candela.
Da: G. Bachelard, La fiamma di una candela, trad. di Marina Beer, Editori Riuniti

lunedì 24 ottobre 2011

Corso di pittura delle stagioni


Sabato 5 novembre alle ore 11
presso la nostra sede a Roma
si svolgerà

Il Corso di Pittura delle Stagioni

A cura di Francesca Perrotta


Il laboratorio si svolgerà in due incontri mensili da novembre a giugno, tre per ognuna delle stagioni. Attraverso le visite fatte insieme nei boschi, riscopriremo e daremo nuovo valore ai cambiamenti ciclici, che obbediscono ad alcune leggi universali e possono divenire arricchimento dell’esperienza interiore di ogni individuo. Sperimenteremo le tecniche di disegno, carboncino e pittura ad acquerello. Baseremo l’esperienza di c...onoscenza degli aspetti naturali, utilizzando l’osservazione Goetheiana, un metodo che permette di penetrare nell’essenza delle trasformazioni stagionali. Esplorando il cambiamento della luce e dei colori, osservando la metamorfosi che avviene nella pianta, sperimentando le variazioni climatiche, che esprimono differenti atmosfere, andiamo a riscoprire il mutamento; elemento vitale che riscontriamo in natura e in noi. Saremo accompagnati in questo percorso da alcune domande, queste sono da interpretare come spunto, ci servono come elemento di partenza per la nostra ricerca, un modo per andare incontro alle diverse espressioni stagionali.
La pratica artistica che nascerà, nell’attività di laboratorio, sosterrà le osservazioni fatte nelle visite al bosco, sviluppando un percorso di conoscenza attraverso il quale ogni persona diviene protagonista partecipe delle acquisizioni proprie e del gruppo.

Per maggiori informazioni clicca qui.

venerdì 21 ottobre 2011

Anarchici e Maggiordomi di Paolo Nori

Ho l’impressione che quando si comincia, sopra ai giornali, a parlare di anarchici, vuol dire che c’è qualcuno da arrestare. Salvo il fatto che poi, quando c’è da andare in tribunale, gli anarchici, in tribunale, o perché nel frattempo son morti, o perché si è scoperto che non c’entravano niente, a me sembra che gli anarchici dopo alla fine non li condannano mai. Forse sono io che mi sbaglio, e devo dire che non ho fatto indagini approfondite, ma di anarchici accusati ingiustamente di stragi o di fatti di violenza io qualcuno me lo ricordo, in questi ultimi decenni, di anarchici condannati per stragi o per fatti di violenza non me ne ricordo neanche uno.
Come se gli anarchici, la loro funzione, fosse quella di servire come nemico crudele e utilissimo, un nemico che mai si ribella al ruolo che gli viene assegnato, e se si ribella tanto nessuno lo fa parlare quindi è lo stesso, e se qualcuno sembra che lo faccia parlare lo fa parlare in forma anonima, e senza faccia, e se c’è la faccia è una faccia con passamontagna, non c’è identità, trattasi di anarchico anonimo insurrezionalista corrispondente al cattivo delle favole, all’orco per spaventare i bambini, o al maggiordomo dei romanzi gialli che, siccome qualcuno dev’essere stato, alla fine fa anche questo servizio che è stato lui.
Eppure, forse sono io che mi sbaglio, ma a me sembra che l’idea anarchica abbia così poco a che fare con la violenza: è l’idea che l’uomo è buono, e che se si libera dalle entità che lo opprimono (lo stato, la chiesa) riuscirà a organizzare le relazioni con i propri simili, buoni anche loro, spesso senza saperlo, in un modo decente, civile e libero.
E se per un certo periodo gli anarchici, nel tentativo di rovesciare queste entità opprimenti, lo stato e la chiesa, hanno praticato la violenza, a me sembra che questa pratica sia finita grossomodo con l’inzio del novecento, e non mi sorprende che il 1905 sia la data in cui termina la Storia degli anarchici italiani ai tempi degli attentati, documentata, accurata e appassionata opera dello storico Pier Carlo Masini (Rizzoli 1981).
E con il novecento mi sembra che si affermi, come racconta sempre Masini nel suo documentatissimo accuratissimo e appassionatissimo Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta (Rizzoli, 1969), un’altra idea di anarchia, e il rapporto degli anarchici moderni con la violenza mi sembra sia descritto bene da uno dei più attivi anarchici italiani, Errico Matatesta (1853-1932):
Conosciamo abbastanza le condizioni strazianti materiali e morali in cui si trova il proletariato, per spiegarci gli atti di odio, di vendetta, ed anche di ferocia che potranno prodursi… Comprendiamo come possa accadere che, nella febbre della battaglia, nature originariamente generose ma non preparate da una lunga ginnastica morale, molto difficile nelle condizioni presenti, perdano di vista lo scopo da conseguirsi, prendano la violenza come fine a se stessa e si lascino trascinare ad atti selvaggi.
Ma altro è comprendere e perdonare certi fatti, altro è rivendicarli e rendersene solidali. Non sono quelli gli atti che noi possiamo accettare, incoraggiare ed imitare… In una parola dobbiamo essere ispirati dal sentimento dell’amore per gli uomini, per tutti gli uomini… L’odio non produce amore, e con l’odio non si rinnova il mondo; e la rivoluzione dell’odio, o fallirebbe completamente, oppure farebbe capo ad una nuova oppressione.
Questo atteggiamento, questa idea di non lavorare sull’odio e sulla violenza ma sull’amore (che fatica, che vergogna, quasi, scrivere: amore), questo atteggiamento è l’atteggiamento che io ho visto testimoniato dagli anarchici che ho conosciuto nel nostro secolo, in questi ultimi dieci anni, a Parma, a Reggio Emilia, a Forlì, in Lunigiana, e tutte le volte che si torna a parlare di anarchici sopra ai giornali, mi stupisco del fatto che nessuno li vada a intervistare, questi anarchici di Parma, di Reggio Emilia e di Forlì e della Lunigiana, e che si intervistino invece delle persone senza la faccia, con un passamontagna, senza identità, senza idee, senza storia, senza niente, macchie nere, babau, maggiordomi.


Paolo Nori  su Il Fatto Quotidiano venerdì 21 ottobre 2011  

mercoledì 19 ottobre 2011

Progresso

Vuole dire che più si trova, più si cerca ; e che più si cerca, più si trova ?

Esatto. Certe volte mi sembra che fra la ricerca e la scoperta si sia formata una relazione paragonabile a quella che si stabilisce fra la droga e l’intossicato.

Molto curioso. E allora tutta la trasformazione moderna del mondo…

Ne è il risultato; e ne rappresenta, del resto, un altro aspetto … Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza. Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più “avanzato”, che si manifesta in politica, in arte, e … nei costumi

 Da Paul VALÉRY  L’Idea Fissa, Adelphi, Milano, 2008

venerdì 14 ottobre 2011

La Moneta Falsa

Mentre ci allontanavamo dalla tabaccheria, il mio amico fece una diligente selezione dei suoi spiccioli; nella tasca sinistra del panciotto introdusse alcune monetine d’oro; nella destra, qualche monetina d’argento; nella tasca sinistra dei calzoni, una abbondante manciata di soldoni, e nella destra, infine, una moneta d’argento da due franchi che aveva particolarmente esaminata.
«Singolare e minuziosa divisione!», osservai fra me.
Incontrammo un mendicante, che tese verso di noi il berretto, tremando. – Nulla conosco di più inquietante della muta eloquenza di quegli occhi supplichevoli, che contengono a un tempo, per l’uomo sensibile che sa leggervi, tanta umiltà e tanti rimproveri. Egli vi trova qualcosa che s’avvicina a quella profondità di complicato sentimento ch’è negli occhi lagrimanti dei cani frustati.
L’elemosina del mio amico fu assai più considerevole della mia, ed io gli dissi: «Avete ragione; dopo il piacere di rimaner sorpresi, non ve n’è alcuno maggiore di quello di produrre una sorpresa». – «Era la moneta falsa», egli mi rispose tranquillamente, come per giustificarsi della sua prodigalità.
Ma nel mio miserabile cervello, sempre intento a cercare l’assurdo (di quale estenuante facoltà mi ha fatto dono la natura!) entrò subitamente l’idea che un tal modo d’agire da parte del mio amico non fosse scusabile se non col desiderio di creare un avvenimento nella vita di quel povero diavolo, e fors’anche di sapere quali conseguenze diverse, funeste o no, possa produrre una moneta falsa in mano a un mendicante. Non poteva essa moltiplicarsi in monete buone? Non poteva anche condurlo in prigione? Un oste, un fornaio, per esempio, lo avrebbe forse fatto arrestare come falsario o come spacciatore di valuta falsa. O forse quella moneta sarebbe stata, per un povero piccolo speculatore, il germe di una ricchezza di pochi giorni. E così la mia fantasia galoppava, prestando le ali alla mente del mio amico e traendo tutte le deduzioni possibili da tutte le ipotesi possibili.
Ma l’amico troncò bruscamente la mia fantasticheria, riprendendo la mie stesse parole: «Sì, avete ragione; non c’è piacere più dolce di quello di cagionare sorpresa a un uomo donandogli più di quanto non speri».
Lo guardai nel bianco degli occhi e fui spaventato al vedere che quegli occhi brillavano di un incontestabile candore. Vidi allora chiaramente che aveva voluto fare, ad un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; portar via il paradiso a buon mercato; e infine pigliarsi senza spesa una patente d’uomo caritatevole. Gli avrei quasi perdonato il desiderio del delittuoso piacere di cui poco prima lo avevo supposto capace; mi sarebbe sembrato strano e singolare che si divertisse a compromettere i poveri; ma non gli perdonerò mai la meschinità del suo calcolo. Non si è mai scusabili d’esser malvagi, ma c’è un po’ di merito nel sapere che si è tali; e il più irreparabile dei vizi è quello di commettere il male per stupidità.

Charles Baudelaire
Da Lo spleen di Parigi, in Opere, dall’Oglio, Milano 1965

venerdì 7 ottobre 2011

L'Inconsolabile

Il sesso, l’ebbrezza e il sangue richiamarono sempre il mondo sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie.
Ma il tracio Orfeo, cantore, viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso Dionisio, valse di più.(Parlano Orfeo e Bacca).
ORFEO: È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.

BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che - solo tra gli uomini - hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.

ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.

BACCA: Qui si dice che fu per amore.

ORFEO: Non si ama chi è morto.

BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline - l’hai cercata e chiamata - sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?

ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar il vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.

BACCA: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.

ORFEO: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.

BACCA: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.

ORFEO: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlumedi cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.

BACCA: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.

ORFEO: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.

BACCA: Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?

ORFEO: O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.

BACCA: Qui noi siamo più semplici, Orfeo. Qui crediamo all’amore e alla morte, e piangiamo e ridiamo con tutti. Le nostre feste più gioiose sono quelle dove scorre del sangue. Noi, le donne di Tracia, non le temiamo queste cose.

ORFEO: Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti... Non vale la pena.

BACCA: Un tempo non eri così. Non parlavi del nulla. Accostare la morte ci fa simili agli dèi. Tu stesso insegnavi che un’ebbrezza travolge la vita e la morte e ci fa più che umani... Tu hai veduto la festa.

ORFEO: Non è il sangue ciò che conta, ragazza. Né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai.

BACCA: Senza di noi saresti nulla, Orfeo.

ORFEO: Lo dicevo e lo so. Ma poi che importa? Senza di voi sono disceso all’Ade...

BACCA: Sei disceso a cercarci.

ORFEO: Ma non vi ho trovate. Volevo tutt’altro. Che tornando alla luce ho trovato.

BACCA: Un tempo cantavi Euridice sui monti...

ORFEO: Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.

BACCA: Anche tu li invocavi.

ORFEO: Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so e non è nulla.

BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

ORFEO: E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E’ necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.

BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?

ORFEO: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.

BACCA: Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?

ORFEO: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.

BACCA: Dici cose cattive... Dunque hai perso la luce anche tu?

ORFEO: Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.

BACCA: Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.

ORFEO: Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno. Nessuna donna come te, sa cosa sia.

BACCA: Forse è per questo che ti seguono, le donne della Tracia. Tu sei per loro come il dio. Sei disceso dai monti. Canti versi di amore e di morte.

ORFEO: Sciocca. Con te si può parlare almeno. Forse un giorno sarai come un uomo.

BACCA: Purché prima le donne di Tracia...

ORFEO: Di’.

BACCA: Purché non sbranino il dio.

da Cesare Pavese Dialoghi con Leucò, 1947

lunedì 3 ottobre 2011

Le città e la memoria 3

Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce sul molo. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.

Da I. Calvino- Le Città Invisibili, Einuadi, Torino, 1972