martedì 29 gennaio 2013

La "scienza del tradurre"

(...) Nel trionfo di Master, Stage, " moduli professionalizzanti", altri impiastri e cerotti con cui si cerca di chiudere (forse solo nascondere) le piaghe della moribonda università patria, nelle facoltà letterarie è molto di moda, oggi, la traduttologia: "scienza del tradurre". Se scienza è un "insieme definito di conoscenze e di metodi per estenderle ", la traduttologia non può esserlo: non ha — non può avere — uno degli aspetti costitutivi delle scienze, quello normativo.

I sogni non si regolamentano, non si "normalizzano". Giacché la traduzione di una cosa (poesia , racconto, romanzo), è il nostro sogno di quella cosa. Gli elementi del reale – di un organismo verbale – si riaggregano in un ordine imprevisto, che nessuna teoria può prevedere: un’assonanza impossibile al verso 13 riaffiora di colpo al verso 31, un gioco di parole "intraducibile "nell’epilogo si impone come necessario nel titolo. Diversa distribuzione degli atomi di un corpo vivo, riunione di segni e sensi secondo nuove leggi spazio-temporali .
Ma proviamo per un attimo a immaginare una scuola ideale, con tutti gli insegnamenti indispensabili (la lingua italiana, innanzitutto, e poi l’immenso scibile: dall’agronomia alla zootecnia ), e uno studente ideale: sagace, zelante. Terminati a pieni voti gli studi, sarà per questo, automaticamente, un bravo traduttore? No, è verità lampante. Conosco ottimi traduttori che possono sbagliare parlando la lingua da cui traducono, e che nella vita sono persone scialbe, noiose, apparentemente prive di qualsivoglia talento. Conosco per contro illustri e brillanti accademici, maestri nella conoscenza della lingua madre e della lingua matrigna, che traducono in modo scialbo, noioso, senza suscitare in chi legge l’amore per ciò che sta leggendo.
Il fatto è che il mestiere del traduttore letterario (di mestiere si tratta, e i giovani dovrebbero stare lungamente a bottega, apprendendo per imitazione e simbiosi) richiede "materie" difficilmente insegnabili. Provo a farne un elenco sommario.
L’orecchio: per la lingua madre, innanzitutto. Imporre a un autore, per esempio a Dostoevskij, paroline come "gratificante", "coinvolgente", "piuttosto che", ecc. è peccato più grave che scambiare (stanchezza e lapsus sono sempre in agguato) "bianco" per "nero".
La passione: convivere con il testo da tradurre come con un marito-amante. Continuare a pensare a lui mentre ci si lava i denti, si fa la spesa, borbottarlo mentre si cammina per strada, talvolta scambiati per pazzi, ripeterlo finchè il ritmo e il respiro giusti non si impongono con l’evidenza della follia, dell’allucinazione sonora. Il traduttore: Posseduto.
L’umiltà: non innamorarsi delle proprie parole, annullare completamente il proprio vanitoso ego stilistico per ri-crearsi ogni volta nel linguaggio dello scrittore che si traduce. Non cercare di abbellirlo, di fare meglio di lui. Il traduttore: AntiNarciso.
La perseveranza: alzarsi mille volte dal tavolo, arrampicarsi su sgabelli e scale per raggiungere enciclopedie, atlanti, dizionari, manuali, andare in biblioteca, telefonare a consulenti (cugino-seminarista, zio-ingegnere, nonno-generale in pensione), mai vergognarsi di chiedere. Il traduttore: Rompiscatole, temibile e temuto.
La disciplina: andare ogni mattina allo scrittoio come un operaio al tornio. Consultare sempre il dizionario. Continuare a studiare, sempre, anche a sessanta, settanta anni.
La rinuncia: al sonno, a un film, a una passeggiata, ecc. All’estetica: non ho mai conosciuto bravi traduttori senza un po’ di cellulite o di pancia. Più ancora che le mani e la testa, la parte più importante del corpo di un traduttore è il sedere.
E ancora buon gusto, eleganza, letture, letture, letture. Infine: un buon redattore, più prezioso di qualsiasi teoria traduttologica.
La ricompensa? Non il denaro (ma bisogna pretendere il massimo, perché sarà comunque il minimo, parafrasando la massima di Peppo Pontiggia). Non il tuo nome a stampa (che tanti editori dimenticano comunque di stampare). E non nei cieli, o in un‘altra vita. Molto più vicino: da qualche parte nella cassa toracica, a sinistra.

Serena Vitale-  tratto da “Il sogno di una cosa” "Il Sole 24 Ore", 23 gennaio 2005

giovedì 24 gennaio 2013

Coscienza, "qualia" e singolarità


Come per i processi biologici, anche per spiegare  la coscienza è stato invocato un “miracolo”, o un anti-miracolo, che negli ultimi anni ha preso diverse forme: da una parte si nega l’esistenza stessa della coscienza, dall’altra si nega piuttosto che possano esistere teorie in grado di spiegarla.

Ed anche i fisici hanno dato il loro contributo al bazaar della coscienza, ipotizzando teorie quantistiche che poco hanno a che fare con i dati concreti delle neuroscienze (a meno che non si voglia lasciare il rasoio d’Occam dentro il cassetto), ma soddisfano piuttosto l’esigenza, come ha osservato ironicamente Stephen Hawking, di voler spiegare un mistero con un altro mistero.

Nel frattempo il termine “coscienza” si è ampliato fino ad assumere proporzioni imbarazzanti e decisamente confuse. Destino inevitabile dei processi, per loro natura difficilmente zippabili in una definizione. Come abbiamo visto è già accaduto ai concetti di tempo, di vita, evoluzione, intelligenza. Eppure non possiamo negare che la coscienza esiste ed ha un impatto formidabile nelle nostre vicende cognitive.

Ci riferiamo in particolare ai “qualia”, ben definiti nei lavori di G. Edelmann e di J. Humphreys, quella bussola cognitiva di stati individuali che dipendendo dal “qui” ed “ora” della nostra interazione con il mondo. Ci limiteremo qui a dire, o meglio: indicare, per evitare  il rischio di definizioni pericolose o ingannatrici, che i qualia sono il motivo per cui vi svegliate la mattina ed avete voglia di sentire la pastorale di Beethoven piuttosto che I Rolling Stones. E  non una Pastorale qualunque ma una particolare incisione di Furtwangler.

Da dove vengono questi stati? Recentemente Leonard Mlodinow ha suggerito che l’emergere dei qualia, e del comportamento che ne deriva, è l’effetto di una causalità di cui non siamo “coscienti”, introducendo così una salutare distinzione tra consapevolezza, pluralità e “peso” emotivo degli stati cognitivi. Questo è del tutto accettabile.

Proprio come l’evoluzione non può far emergere forme incompatibili con le sue premesse e vincoli o troppo distanti da queste, così la nostra mente non può valutare o anche soltanto sentire possibilità che in qualche modo non facciano già parte della nostra storia con e nel mondo. Per i sostenitori del libero arbitrio credo sia accettabile ammettere che il nostro sforzo, individuale e collettivo, di ampliare le storie possibili si scontra continuamente con la sezione d’urto che misura “quanto mondo” riusciamo a contenere nelle nostre rappresentazioni.

Come scrive efficacemente  G. Edelmann, “dove in origine c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino, oggi c’è quella più sofisticata di gustare la differenza tra un Cabernet ed un  Pinot”.

Ancora una volta, collettivamente ed individualmente, è la complessificazione  la chiave della diversità. Nicholas Humprehys nel suo saggio “la privatizzazione delle sensazioni” propone una convincente analisi sul significato evolutivo dello sviluppo della coscienza, come ottimizzazione del rapporto del flusso informativo di un sistema con l’ambiente.

Ed è questo flusso, in cui ad ogni istante diversamente siamo immersi, che rende possibile il miracolo delle risposte diverse al mondo. I nostri sensi – scusate l’apparente gioco di parole- non sono sensori. Il nostro rapporto con il mondo non è mai neutro, proprio come i dati della scienza anche le nostre osservazioni empiriche  sono sempre “theory laden”, cariche di teoria, aspettativa, anticipazione. Ed è questo che ci rende profondamente diversi da una macchina di Turing. La storia dei vincoli e codici che regolano il nostro rapporto con il mondo rende possibile continuamente un diverso “ora lo sai”, un “peso” dell’istante che non è mai soltanto astratto e razionale ma concreto, incarnato, emotivo. Ed è questo il (falso) problema delle teorie della coscienza.

Come abbiamo visto, una teoria è la descrizione di una classe di eventi strutturati in modo simile. Una qualunque teoria della coscienza può dirci qual è il suo significato evolutivo, può indagare i processi neurali o persino neuro-quantistici  che la rendono possibile, ma quel “qui” ed “ora” soggettivo resta il frutto più prezioso della coscienza.

E su quello nessuna teoria può dire nulla di scientificamente significativo, non perché sia fuori dalla portata della scienza, ma perché non riguarda una classe ma un evento unico, l’incontro singolare ed irripetibile, irreversibile, tra una mente ed un mondo attraverso un gioco privato di storie, memorie e vincoli.

Nessuna teoria può darsi dell’incontro tra una Madeleine e Proust. Il linguaggio d’elezione per parlare di quel momento “lì” non è quello della scienza, è quello dell’arte. Come scrive Giorgio de Chirico, un’opera d’arte è l’incontro di più solitudini, da quella plastica, della recezione delle forme, a quella onirica, metafisica, per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica d’accesso. Ed è peculiare preoccupazione dell’arte della buona scienza non confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e l’ora della singolarità.

da Ignazio Licata Tempo e Coscienza
http://samgha.wordpress.com/

martedì 22 gennaio 2013

In assenza di scopo

La terza concentrazione (*) è l’assenza di scopo, apranita. Se non abbiamo preoccupazioni o ansie siamo liberi di goderci ogni attimo della nostra vita: senza tentare, senza fare grandi sforzi, semplicemente esistendo: che gioia!

Questo sembra contraddire la nostra usuale modalità operativa: ce la mettiamo tutta per raggiungere la felicità, lottiamo per raggiungere la pace.

Forse però i veri ostacoli che impediscono di raggiungere la felicità e di promuovere la pace sono proprio i nostri sforzi, le nostre lotte, le nostre attività finalizzate. 

L’abbiamo provato tutti: cerchiamo una risposta e poi quando ci rilassiamo completamente ecco che la risposta arriva da sola. Quella è “assenza di scopo” Siamo felici di respirare, beviamo il tè, sorridiamo in presenza mentale, camminiamo in consapevolezza, ed ecco che le intuizioni profonde arrivano, la comprensione si mostra spontaneamente. L’assenza di scopo è una pratica meravigliosa.

E’ così piacevole, così rasserenante! Sono convinto che gli scienziati abbiano bisogno di questa pratica almeno quanto i meditanti, per sbloccare la mente, per potersi aprire a possibilità che si trovano completamente al di fuori della loro immaginazione. Molte scoperte scientifiche sono nate proprio sul terreno dell’assenza di scopo, perché quando non ci si fissa sulla meta finale si hanno più opportunità di arrivare ad una intuizione profonda nuova e inattesa.

Da: Thich Nath Hanh – Camminando con il Buddha – ed. Mondadori 2009

(*) Ci sono differenti “concentrazioni” o samadhi. Un samadhi non è una dottrina, non è un tentativo di descrivere la verità: è un mezzo abile che aiuta a raggiungere la verità. E’ come il dito che indica la luna. La luna è così bella! Il dito non è la luna; se punto il dito e dico “Amico caro quella è la luna” e tu mi prendi il dito e dici “”Ah, dunque è questa la luna!” non hai colto la luna: ti sei lasciato prendere dal mio dito e non riesci a vedere la luna. Il Dharma del Buddha è il dito, non la luna. La prima concentrazione è quella sulla vacuità. (…) La seconda concentrazione riguarda l’assenza di segno, animitta. (…) La terza concentrazione è l’assenza di scopo, apranita.

mercoledì 16 gennaio 2013

Clessidra Filosofica di gennaio - il tema del mese è Be-Bop


Proseguono allo Spazio dell'anima gli incontri "rizomatici" senza pubblico


La Clessidra filosofica di gennaio si terrà lunedì 21 dalle 20, 30 

 Il tema del mese è "Be-Bop".



Clessidra è' un'idea di Silvana Kuhtz e Mariarosa Pappalettera (www.poesiainazione.it)  Sulla base del tema del mese, ogni partecipante sceglie il “testo” di un grande autore da proporre a tutti gli altri: potrà essere costituito da parole, immagini, suoni, scene di film, brani musicali, canzoni, movimento di corpi ed esperienza dei sensi e anche processo del fare; può prevedere il coinvolgimento degli altri partecipanti all’incontro. 

La durata massima di ogni intervento è di 5 minuti.


Per partecipare prenota via mail (info@spazidellanima.it ) la tua partecipazione all’evento e anticipa in poche righe la natura del tuo intervento. - 


martedì 15 gennaio 2013

Il desiderio di essere capiti di Gianni Celati


La malattia fa spesso venire una gran voglia di essere capiti. I malati all’ospedale non fanno che chiedere ai dottori di capirli. Vogliono essere capiti dalla scienza e rimessi a posto come macchine. Tutti noi malati coltiviamo questo ideale meccanico di comprensione, che ci dà qualche speranza. E gli altri naturalmente mostrano di capire la  «cosa» che ci rende malati. C’è sempre un gran traffico di dicerie tra parenti e dottori, per capire la  «cosa» che rende malato un malato. E i dottori la spiegano con le loro parole meccaniche, ma nessun parente e nessun malato sa di preciso di cosa parlino i dottori. Tuttavia ci scambiamo tutti occhiate e discorsi per dirci:  «Hanno capito».

La stessa situazione si trova in quelle attività che sono chiamate creative. Anche queste sono una malattia che fa venire una gran voglia di essere capiti. Si vorrebbe che gli altri capiscano la  «cosa» della nostra creazione. Si vorrebbe che dicessero: «Sì, è questo, significa questo, è bello per questo». Che soddisfazione, che stordimento e che follia, sentire di essere capiti! Come negli ospedali ci sono i dottori i che spiegano la  «cosa» della malattia, così in questo settore ci sono i critici che spiegano la  «cosa» della creazione. E anche qui c’é un gran traffico di dicerie, per capire quale sia la «cosa» che rende una creazione interessante. E anche qui nessuno sa precisamente di cosa parlino i critici, sebbene tutti ci scambiamo occhiate e a discorsi per dire: «Hanno capito».

Una volta c’erano due amici che andavano sempre d’accordo. Facevano lunghe discussioni e avevano sempre l’aria di capirsi benissimo. Caratteristico era il fatto che, mentre le loro compagne (o spose o fidanzate che dir si voglia) si guardavano sempre in cagnesco «senza la minima ombra di comprensione reciproca, i due amici sembravano sempre capaci di superare le differenze con discorsi ragionevoli e persuasivi. Perché si capivano benissimo».
I due si capivano così bene perché parlavano quasi sempre con le parole degli ultimi libri che avevano letto. E se le loro vedute qualche volta non combaciavano, era solo perché uno dei due aveva letto un certo libro e l’altro no. Allora l’altro doveva recuperare, e quando aveva letto lo stesso libro i due si capivano di nuovo benissimo.

Ma col tempo i due amici si sono visti sempre meno. Uno di loro è andato ad abitare in un altro paese, e il sincronismo delle loro letture si è rotto. Così le parole dei libri hanno smesso di funzionare come una vernice omogeneizzante che passava sopra tutte le differenze. Prima c’era una coincidenza meccanica nelle loro opinioni politiche, letterarie, filosofiche, scientifiche. Indossavano quelle opinioni come una livrea, e usavano quelle parole come fanno i dottori con i malati. Anche i dottori parlano sempre con le parole dei libri che hanno letto e si capiscono così, ma nessun malato ha mai capito di cosa parlino i dottori.

C’è sempre di mezzo questo desiderio di essere capiti, di abolire le distanze e le differenze. Tra i due amici adesso le differenze c’erano, e molto evidenti, se non altro perché abitavano in paesi diversi e avevano avuto vicissitudini molto diverse. In queste condizioni è sempre difficile trovare parole che superino la distanza da cui parliamo, e i due amici hanno cominciato a sentire che c’era una gran scarsità di parole tra di loro, ogni volta che si rivedevano.
L’uno e l’altro, ognuno per conto suo, temeva che non avrebbero più potuto essere amici. Perché non si capivano più e non avevano più parole per capirsi. Ormai avevano superato l’età in cui basta essere intelligenti e spiritosi, affabili compagnoni con le stesse idee, per credere di capirsi. Né le buone intenzioni, né la buona volontà, potevano più aiutarli.

La conseguenza era che adesso l’uno temeva i giudizi dell’altro. Temeva cioè che l’altro lo giudicasse male, o lo giudicasse comunque, perché aveva preso una strada diversa dalla sua. E così nel sospetto reciproco, che nasceva in risposta al supposto giudizio dell’altro, per cui ora i due amici si giudicavano molto male, siccome ognuno dei due pensava di essere giudicato male dall'altro, i due amici si sono finalmente persi di vista per sempre.

Qual è il miglior dialogo tra gli uomini? Nella malattia sospetto che il miglior dialogo possa essere quello in cui qualcuno dice: «Ah, ho capito benissimo, sono d’accordo, sono d’accordo!». Nella malattia mi sembra che questo non sia neanche un dialogo, non abbia nulla del dialogo. Perché ha eliminato ciò che rende possibile un dialogo, ha eliminato la distanza da cui ciascuno di noi parla.

In questo ospedale dove sono, un ospedale inglese in una località di campagna, c’è una robusta infermiera di colore che viene dalla Giamaica. Io non capisco mai cosa lei dice, lei non capisce quello che dico io. Nel mio caso, è perché non sento certe frequenze nella sua voce, a cui il mio orecchio non è stato educato. Nel suo caso, è perché il mio modo di parlarle risulta troppo artificiale al suo orecchio, e prima di udire quello che dico lei sente lo straniero che non capirà mai. Allora ci guardiamo e ci sorridiamo, e il nostro dialogo è fatto con le tonalità della grande distanza da cui ci parliamo. E un po’ come lanciarsi delle voci attraverso una pianura vuota. Perché siamo fatti così, siamo quello che siamo.

Quell'infermiera trova buffo che io stia a leggere libri tutto il giorno. Mi ha chiesto cosa leggo, e le ho detto: «Sono libri di filosofia». Al che lei s‘è messa a ridere come se avessi raccontato una formidabile barzelletta. Forse la parola  «filosofia» ha un suono buffo al suo orecchio, o forse era buffo il mio modo di pronunciarla.

In questi giorni leggo la meravigliosa filosofia di Giordano Bruno, e a momenti ho la vaga sensazione di capire qualcosa. A scuola questa filosofia era riassunta da due sole parole («natura naturans»). Ci veniva insegnata così e noi fingevamo di capire quelle parole, cioè di capire la filosofia di Giordano Bruno. Pronunciando quelle due paroline, la commedia della comprensione poteva andare avanti senza intoppi.

Nella malattia rimugino su queste cose e trovo delle piccole risposte. Là fuori c'è un parco con betulle e aceri platanoidi, poi una strada di campagna che porta ad un pub in riva a un laghetto. Mi arrivano delle voci e sento che là fuori tutti si intendono. Non dico che si intendano bene o male, ma si intendono con i toni di voce, perché negli spazi aperti ci si intende così. A una distanza superiore ai sette-otto metri non si riesce a parlare con le parole meccaniche delle opinioni. Si sente subito che sono meccaniche, come quelle che a scuola ci servivano per studiare i filosofi, come quelle dei due amici che si capivano benissimo.

Appena c’è un po’ di spazio di mezzo diventa ridicola l’idea di persuadersi a vicenda, e il desiderio di essere capiti, e la speranza di essere capiti benissimo. Tutte queste cose danno per scontata l’abolizione della distanza da cui parliamo. Perché dovremmo considerarle più importanti dei toni di voce che ci lasciano nella nostra distanza?

Quando Giordano Bruno è venuto in Inghilterra, ed è andato a Oxford a spiegare le sue teorie, nessuno dei sapienti inglesi l’ha preso per un serio filosofo. Va bene che lui era polemico e voleva stuzzicarli. Ma loro proprio non hanno capito neanche lontanamente di cosa parlasse, e anzi la «cosa» di cui parlava per loro non esisteva neanche. Lui parlava dello spazio, del cosmo, della relatività del tutto, e quelli lo trovavano solo rozzo e ridicolo perché pronunciava il latino con accento napoletano.

Gianni Celati - Riga n. 2 www.rigabooks.it

venerdì 11 gennaio 2013

Le ombre bianche

Nel nostro immaginario, e per quel che attiene alla nostra esperienza quotidiana, le ombre e i fantasmi costituiscono due polarità percettive: le prime ci appaiono sempre come veli scuri e intangibili che scivolano silenziosi sopra ogni cosa, mentre i secondi si “presentano” con un diafanico e lattescente biancore, la cui evanescenza li rende inafferrabili quanto i primi. Il fatto presenta più di una curiosità (i fantasmi non proiettano ombre scure e le ombre non possono essere più chiare della luce che le proietta) se si considera che al di là delle loro proprietà percettive, il bianco e il nero rappresentano una coppia di contrari la cui portata semantica include anche significati più universali, caratterizzati dall’impossibilità dello loro coesistenza: la presenza dell’uno nega l’esistenza dell’altro, e sono esemplarmente corrispondenti alla contrapposizione vita e morte, bene e male, bello e brutto… Ciononostante, le ombre e i fantasmi rappresentano due forme di presenza fenomenica, fisica la prima e psichica la seconda, di un’assenza: entrambe manifestano la visibilità di un ente, di una cosa o di un corpo che non possono essere presenti né nello stesso spazio (là dove appare l’ombra proiettata non vi può essere il corpo che la proietta), né nello stesso tempo (il fantasma appare dopo che il corpo ha cessato di vivere).
La pittura, racconta Plinio il Vecchio, ha avuto origine dal ricalco dell’ombra proiettata sul muro dal corpo dell’amante della figlia di Butade, un vasaio di Sicione, ed è stata quindi successivamente perfezionata dai pittori Philokles Egizio e Kleanthes Corinzio, il cui stile pittorico è stato tramandato sotto il nome di “pittura lineare”. La prima immagine dipinta, dunque, consisteva nel semplice tracciamento sul muro della linea nera del contorno di una sagoma, anch’essa scura. La figura risultava pienamente visibile in virtù del contrasto tra il tono dello spazio delimitato dall’ombra e quello dello spazio esterno ad essa, la parete pienamente illuminata dalla luce irradiata dalla “lucerna”. L’ombra, in questa circostanza, rappresentava la figura, mentre la parete illuminata ne costituiva lo sfondo, determinando così un contesto in cui ha luogo un ribaltamento dell’originario Fiat lux e/o del cosmico Big bang: dall’eterna nerezza di un silenzioso sfondo di tenebre, irrompe un punto luminoso, la figura, irradiando di luce e di vita il suo intorno.
Bianco e nero, luce e tenebre, fin dalle origini costituiscono i termini di una dualità cosmica la cui valenza simbolica è condivisa da quasi tutte le civiltà umane. Da essa ha forse origine anche la nostra abitudine di codificare qualsiasi segno bianco tracciato su uno sfondo nero come un segno luminoso, come un segno di luce su di uno sfondo di oscurità.
Ma non è sempre così. Un esempio molto “illuminante”, è proprio il caso di dirlo, ci viene fornito dal disegno con gesso bianco eseguito su una lavagna di ardesia grigio scuro. Il disegno a tratti bianchi, tracciato con il gesso sulla superficie della lavagna, è uno strumento didattico utilizzato di frequente nelle aule delle scuole di ogni livello scolastico. Di fatto, i dati fisicamente rilevabili di cui si compone l’immagine disegnata altro non sono che dei tratti chiari disposti su di uno sfondo molto più scuro, quasi nero.
Eppure nessuno direbbe di vedere la forma raffigurata con questi segni come un’immagine in negativo, o in contraddizione rispetto a come siamo di norma abituati a disegnare e a vedere i disegni. Ciò che più sorprende è che questo genere di disegno viene utilizzato con disinvoltura dai bambini fin dalla scuola materna, disegno spesse volte ricopiato con una penna ad inchiostro nero su di un foglio di carta bianca. Una prima spiegazione di questo apparente paradosso percettivo è fornita dalla natura gestaltica della stessa visione: fin quando il disegno è ridotto a linea di contorno la forma dell’oggetto viene percepita correttamente perché per il nostro occhio l’aspetto figurale prevale su quello cromatico. Cosa succede, però, se aggiungiamo al disegno dei tratteggi per indicare le parti in ombra delle figure disegnate? Perché continuiamo a vedere quelle parti come se fossero davvero in ombra, e quindi scure, anche se sono in realtà coperte di gesso bianco, e quindi fisicamente più chiare delle altre? Come fa un bambino, ma anche un adulto, a vedere nella parte tratteggiata con gesso bianco la presenza di un’ombra? Il fatto che la serie di tratti accostati gli uni a ridosso degli altri vengano percepiti come l’intensificazione non della luce, ma dell’ombra scura, a dispetto del fatto di essere del tutto bianchi e quindi luminosi, costituisce un problema cognitivo e percettivo che andrebbe considerato con l’attenzione che merita.
Un fenomeno analogo si riscontrava anche nelle oramai desuete pellicole fotografiche per foto in bianco e nero. Il “negativo”, così viene definita in ambito fotografico la pellicola impressionata dalla luce, presenta anch’esso, come nel caso del disegno a gesso, le zone in ombra più chiare e quelle illuminate più scure, rendendo l’immagine o il volto riprodotto irriconoscibile al primo impatto. Eppure anche in questo caso il nostro occhio, dopo una veloce ricognizione, non confonde le forme, né le ombre con le luci, nonostante l’apparenza fisica della distribuzione della luce contraddica le nostre abitudini percettive. Anche questo caso trova la sua spiegazione nel fatto che per il nostro occhio non conta se i contrasti chiaroscurali che compongono un’immagine sono invertiti: ad essere determinante è, invece, la loro congruenza con la tridimensionalità della forma. Pertanto, il bianco del gesso sulla lavagna viene percepito come ombra, come zona più scura di una forma, perché la gestalt della figurazione prevale sulla referenzialità del valore luminoso riferito al bianco inteso come luce e al nero inteso come ombra. Nondimeno, se isoliamo una porzione di spazio ricoperto di gesso corrispondente alle zone in ombra della figurazione, esso continuerà ad apparirci come un tassello bianco splendente di luce riflessa e mai ci aspetteremmo di vederlo scuro o equivalente a un tono di ombra. Quando il contesto lo consente, e se vengono rispettate le leggi della configurazioni, anche ciò che per natura è bianco può essere percepito come scuro, e viceversa.
Le leggi dell’occhio, che sono leggi della natura, dovrebbero costituire un insegnamento anche alla percezione sociale delle diversità etniche.

Giuseppe Di Napoli www. Doppiozero.it

martedì 8 gennaio 2013

Il passo dei pensieri

Da dove si comincia? I muscoli si tendono. Una gamba è il pilastro che sostiene il corpo eretto tra cielo e terra. L'altra, un pendolo che oscilla da dietro. Il tallone tocca terra. Tutto il peso del corpo rolla in avanti sull'avampiede. L'alluce prende il largo, ed ecco, il peso del corpo, in delicato equilibrio, si sposta di nuovo. Le gambe si danno il cambio. Si parte con un passo, poi un altro e un altro ancora che, sommandosi come lievi colpi su un tamburo, formano un ritmo: il ritmo del camminare. La cosa più ovvia e più oscura del mondo è questo camminare, che si smarrisce così facilmente nella religione, la filosofia, il paesaggio, la politica urbana, l'anatomia, l'allegoria e il crepacuore.

La storia del camminare è una storia non scritta, segreta, i cui frammenti si possono rintracciare con parole semplici in migliaia di passi di libri come anche di canzoni, nelle strade e in quasi tutte le avventure di ciascuno di noi. La storia corporea del camminare è quella dell'evoluzione del bipedismo e dell'anatomia umana. Per la maggior parte del tempo camminare è un atto puramente pratico, il mezzo locomotorio inconsapevole tra due luoghi. Trasformarlo in un'indagine, un rituale, una meditazione, è farne un particolare sottoinsieme del camminare, fisiologicamente simile, ma filosoficamente dissimile, al modo in cui il postino porta la posta e l'impiegato prende il treno.

Il che vuol dire che la materia del camminare riguarda, in un certo senso, il modo in cui attribuiamo significati particolari ad atti universali. Come il mangiare o il respirare, così il camminare può essere investito di significati culturali completamente diversi, da quelli erotici a quelli spirituali, da quelli sovversivi a quelli artistici. È qui che questa sua storia comincia a fare parte della storia dell'immaginazione e della cultura, e della storia dei generi di piacere, di libertà e di significato che vengono perseguiti in tempi diversi da differenti tipi di camminate e di camminatori. L'immaginazione ha modellato gli spazi che attraversa, e da questi è stata a propria volta modellata.

Il camminare ha creato sentieri, strade, rotte commerciali; ha generato concezioni di spazio locali e transcontinentali; ha conformato città, parchi; prodotto mappe, guide, attrezzature e, ancora, una vasta biblioteca di racconti e di poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, spedizioni alpinistiche, vagabondaggi, e anche di picnic estivi.

I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci riportano ai luoghi di questa storia.

Rebecca Solnit , Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano, 2002