martedì 29 gennaio 2013

La "scienza del tradurre"

(...) Nel trionfo di Master, Stage, " moduli professionalizzanti", altri impiastri e cerotti con cui si cerca di chiudere (forse solo nascondere) le piaghe della moribonda università patria, nelle facoltà letterarie è molto di moda, oggi, la traduttologia: "scienza del tradurre". Se scienza è un "insieme definito di conoscenze e di metodi per estenderle ", la traduttologia non può esserlo: non ha — non può avere — uno degli aspetti costitutivi delle scienze, quello normativo.

I sogni non si regolamentano, non si "normalizzano". Giacché la traduzione di una cosa (poesia , racconto, romanzo), è il nostro sogno di quella cosa. Gli elementi del reale – di un organismo verbale – si riaggregano in un ordine imprevisto, che nessuna teoria può prevedere: un’assonanza impossibile al verso 13 riaffiora di colpo al verso 31, un gioco di parole "intraducibile "nell’epilogo si impone come necessario nel titolo. Diversa distribuzione degli atomi di un corpo vivo, riunione di segni e sensi secondo nuove leggi spazio-temporali .
Ma proviamo per un attimo a immaginare una scuola ideale, con tutti gli insegnamenti indispensabili (la lingua italiana, innanzitutto, e poi l’immenso scibile: dall’agronomia alla zootecnia ), e uno studente ideale: sagace, zelante. Terminati a pieni voti gli studi, sarà per questo, automaticamente, un bravo traduttore? No, è verità lampante. Conosco ottimi traduttori che possono sbagliare parlando la lingua da cui traducono, e che nella vita sono persone scialbe, noiose, apparentemente prive di qualsivoglia talento. Conosco per contro illustri e brillanti accademici, maestri nella conoscenza della lingua madre e della lingua matrigna, che traducono in modo scialbo, noioso, senza suscitare in chi legge l’amore per ciò che sta leggendo.
Il fatto è che il mestiere del traduttore letterario (di mestiere si tratta, e i giovani dovrebbero stare lungamente a bottega, apprendendo per imitazione e simbiosi) richiede "materie" difficilmente insegnabili. Provo a farne un elenco sommario.
L’orecchio: per la lingua madre, innanzitutto. Imporre a un autore, per esempio a Dostoevskij, paroline come "gratificante", "coinvolgente", "piuttosto che", ecc. è peccato più grave che scambiare (stanchezza e lapsus sono sempre in agguato) "bianco" per "nero".
La passione: convivere con il testo da tradurre come con un marito-amante. Continuare a pensare a lui mentre ci si lava i denti, si fa la spesa, borbottarlo mentre si cammina per strada, talvolta scambiati per pazzi, ripeterlo finchè il ritmo e il respiro giusti non si impongono con l’evidenza della follia, dell’allucinazione sonora. Il traduttore: Posseduto.
L’umiltà: non innamorarsi delle proprie parole, annullare completamente il proprio vanitoso ego stilistico per ri-crearsi ogni volta nel linguaggio dello scrittore che si traduce. Non cercare di abbellirlo, di fare meglio di lui. Il traduttore: AntiNarciso.
La perseveranza: alzarsi mille volte dal tavolo, arrampicarsi su sgabelli e scale per raggiungere enciclopedie, atlanti, dizionari, manuali, andare in biblioteca, telefonare a consulenti (cugino-seminarista, zio-ingegnere, nonno-generale in pensione), mai vergognarsi di chiedere. Il traduttore: Rompiscatole, temibile e temuto.
La disciplina: andare ogni mattina allo scrittoio come un operaio al tornio. Consultare sempre il dizionario. Continuare a studiare, sempre, anche a sessanta, settanta anni.
La rinuncia: al sonno, a un film, a una passeggiata, ecc. All’estetica: non ho mai conosciuto bravi traduttori senza un po’ di cellulite o di pancia. Più ancora che le mani e la testa, la parte più importante del corpo di un traduttore è il sedere.
E ancora buon gusto, eleganza, letture, letture, letture. Infine: un buon redattore, più prezioso di qualsiasi teoria traduttologica.
La ricompensa? Non il denaro (ma bisogna pretendere il massimo, perché sarà comunque il minimo, parafrasando la massima di Peppo Pontiggia). Non il tuo nome a stampa (che tanti editori dimenticano comunque di stampare). E non nei cieli, o in un‘altra vita. Molto più vicino: da qualche parte nella cassa toracica, a sinistra.

Serena Vitale-  tratto da “Il sogno di una cosa” "Il Sole 24 Ore", 23 gennaio 2005