venerdì 1 febbraio 2013

Uno sguardo privato - Su Emidio Greco


Un autore privato. Non si può usare un aggettivo diverso, a misurare la differenza di Emidio Greco rispetto al cinema italiano contemporaneo. 

L’uomo privato, proprio, s’intitola il penultimo degli otto lungometraggi che ci ha lasciato (sabato scorso, morendo a Roma dopo una malattia che lo aveva illuso, ci aveva illuso, di essere stata sconfitta). Il penultimo, ma – dichiarava alla sua uscita – «mi piacerebbe che venisse ricordato come naturalmente l’ultimo». Notizie degli scavi – tre anni dopo, nel 2010 – ha rappresentato una “postuma” chiusura del circolo: col racconto di Franco Lucentini che Emidio aveva sceneggiato, allora appena uscito, all’atto di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Era il 1964, l’anno di Deserto rosso

Ed è da lì che Emidio proveniva. Dalla Torino “concettuale” dei primi Sessanta, dei quadri specchianti di Pistoletto, dell’amico carissimo Alighiero Boetti (all’opera del quale, nel ’78, dedicò Niente da vedere niente da nascondere). Del Gruppo 63 degli altri amici e suoi occasionali collaboratori – Enrico Filippini, Andrea Barbato. Veniva da quell’Italia; ed era, di tutti loro, il più giovane. Condizione che si rivela, alla lunga, controproducente: consegnandosi, alla generazione che segue, come il fossile di un tempo infinitamente più ricco e consapevole. E infatti, nel cinema degli anni Ottanta e Novanta e Zero, è stato un revênant, un diverso, un alieno. Come tale veniva percepito dai suoi colleghi e dal pubblico. Ma come tale, soprattutto, percepiva se stesso.

Per questo L’uomo privato – «naturalmente ultimo» – rappresenta insieme il suo testamento e il suo autoritratto. Un professore di Diritto, uomo di successo dall’eleganza asciutta e riservata, dall’alto dei suoi privilegi guarda il mondo in modo disincantato, quasi entomologico. Nelle interviste Emidio lo paragona all’Ulrich dell’Uomo senza qualità (perché sullo sfondo si lavora all’Azione Parallela d’un insensato mega-convegno cultural-mondano che si celebrerà, infine, nella cornice sfarzosa della Villa della Regina: sulle colline della “sua” Torino, cioè, ma vista dall’alto e da lontano), a me ricorda piuttosto Hans Karl Bühl, L’uomo difficile d’un altro cantore della finis Austriæ, Hugo von Hofmannsthal. Come lui l’uomo privato è desiderato da tutti, e soprattutto da tutte; ma non si concede mai, davvero, a niente e a nessuno. Come lui l’uomo privato non partecipa all’agitazione di chi lo circonda; non
dà risposte, non esprime opinioni. Alla fine lo dice, l’uomo difficile di Hofmannsthal: «tutto quel che si esprime è indecente […], gli uomini non mettono rigore in nulla, c’è addirittura una certa impudenza nel fatto stesso che gli uomini osino vivere certe cose!». Questo schermo che l’uomo privato frappone fra sé e la vita è simboleggiato da una metafora eloquente, per un uomo di cinema. Lo dice a lezione, il professore. La vita non ha forma se non è illuminata dal diritto: «la norma giuridica getta un fascio di luce sulla vita. E la vita è l’ombra che resta oltre il cono di quella luce».

Personaggio-riflettore, come lo avrebbe definito Henry James, l’uomo privato pensa di poter illuminare il mondo fuori di sé senza mai esserne coinvolto. Ma qualcosa incrina il suo progetto. Un suo studente – che poi s’è suicidato – a sua insaputa lo ha seguito, lo ha spiato, ha ripreso la sua vita privata come farebbe, appunto, un occhio privato. Quello sguardo di rimando, che imprevisto gli si ritorce contro, da quel momento gli rende impossibile il distacco, il dominio che prima esercitava su tutto e tutti. Come succede anche negli altri film del suo autore, l’uomo privato si aggira in una festa, guarda gli altri ballare senza poter prendere parte a quel ballo, senza capirlo. Alla fine torna nel suo appartamento privato e guarda quella cornice, in cui prima s’incastonava a perfezione, per la prima volta dall’esterno: aziona un interruttore, accende le luci di casa in ogni possibile combinazione. Ma non c’è più traccia di forma, non c’è più rigore: in quella luce. Un finale che ripete in forma disforica quello dell’opera prima, L’invenzione di Morel del ’74: che alla trama di Bioy Casares – ancorché «perfetta», come l’aveva designata Borges, mai rinnegato phare di Emidio – appone una clausola che è un capovolgimento: col naufrago che infrange la macchina congela-tempo, il «fascio di luce» metafisica che ha fissato la realtà, sull’isola, paralizzandola in una forma splendida quanto priva di vita.

Com’è ovvio, è lo stesso autore ad aver rivolto su di sé quello sguardo indiscreto. Come nell’unico Film realizzato da Samuel Beckett, l’occhio che ci insegue è il nostro stesso occhio. L’uomo che con tanta efficacia ha forcluso il suo privato agli sguardi indiscreti del prossimo, ha sofferto anche una privazione. Lo schermo di estraneità che ha frapposto fra sé e il mondo ha separato lui stesso dal vivo di un’esistenza con la quale in effetti Emidio, spesso, dava l’impressione di avere poco a che fare. Cauterizzato dalla nascita, così appariva, nei confronti dei trasporti e degli affetti, delle illusioni della vita sociale, pubblica.


Eppure questo illuminista assoluto, se mai ne ho conosciuto uno, negli anni in cui l’ho frequentato ha mostrato, altresì, incrinature sorprendenti. Tanto L’uomo privato che Notizie degli scavi sono allagati da Mozart (K. 488, K. 466), irresistibile piegatura affettiva dell’episteme illuministica. E in effetti, nascosti da qualche parte in qualche sottofondo radiante, Emidio conservava depositi di passione persino bruciante (com’è proprio, appunto, dei veri illuministi). Una temperatura che spingeva, chi lo conosceva e, a parlare persino d’un cinema sentimentale – parola scandalosa che però lo deliziava – a proposito di certi accenti del Consiglio d’Egitto o di certi sguardi di Notizie degli scavi.

Il monologo dell’illuminista Di Blasi torturato nel carcere borbonico – nel film, tratto dalla sotie anni Sessanta di Sciascia, che ha preceduto L’uomo privato – è una dichiarazione d’amore, nei confronti della vita, che fa oggi l’effetto d’una rasoiata («stai amando ora la vita come mai l’hai amata, come mai hai saputo amarla. Ora sai che cos’è l’acqua, la neve, il limone, ogni frutto, ogni foglia: come se tu ci fossi dentro, come se tu fossi la loro essenza»); così come ci si commuove a ripensare allo sguardo del ritardato di Notizie degli scavi, riflesso nello specchio d’una vetrina, di sera, mentre quasi leopardiano mormora «ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era».

Era forse proprio quest’affettività, segreta e a contraggenio, a nutrire la passione civile di Emidio, sempre più esplicita al volgere catastrofico degli anni. Ancor più rari degli illuministi autentici sono – nel tempo in cui tutti, più o meno, si professano tali – i veri liberali. Ma tale davvero era Emidio: della stirpe intransigente e “rivoluzionaria” dei Gobetti e dei Rosselli. E sarà stato appunto questo sentimento nascosto di sé, a conferire al suo engagement un accento più profondo, meno contingente, più acceso (with a deep distrust, diceva Fenoglio, and a deeper faith…). Consentendoci di credere, davvero, alla frase che conclude Il consiglio d’Egitto: quando l’illuminista sconfitto sale al patibolo e si rivolge al boia, un galeotto impietosito. «Voscienza mi perdoni», gli mormora quello. E lui risponde: «Pensa alla tua libertà». Promesso, Emidio. Continueremo a pensarci – o ci proveremo, almeno.

di Andrea Cortellessa uscito su «Alias», supplemento del «manifesto», il 30 dicembre 2012 [Il 23 dicembre, moriva Emidio Greco]