giovedì 28 aprile 2011

Leggere: schizzo socio-psicologico - di G. Perec

Le pagine che seguono non sono altro che semplici note: un insieme, più intuitivo che organizzato, di fatti sparsi che, solo eccezionalmente, rimandano a discipline costituite; semmai, esse appartengono a quei settori così mal suddivisi che richiamano le terre incolte dell'etnologia descrittiva di cui parla Marcel Mauss nella sua introduzione alle "tecniche del corpo" (cfr. Sociologie et Anthropologie, Paris, P.U.F., 1950, pp.365 e segg.), e che, catalogate sotto la voce "varie", formano zone particolari di cui si sa solamente che non si sa gran che, ma dove si presume che si potrebbero trovare molte cose qualora si decidesse di prestarvi un po' di attenzione: fatti banali, passati sotto silenzio, tenuti in nessun conto data la loro pochezza: eppure ci descrivono, nonostante noi crediamo di poterci dispensare dal descriverli; con molta più acutezza e attualità della maggior parte delle istituzioni e delle ideologie a cui i sociologi ricorrono abitualmente per le loro ricerche, rinviano alla storia del nostro corpo, alla cultura che ha modellato i nostri gesti e i nostri atteggiamenti, all'educazione che ha formato i nostri atti motorii non meno di quelli mentali. E così, precisa Mauss, per la marcia e la danza, la corsa a piedi e il salto, modi di riposare, tecniche di trasporto e di lancio, maniere di stare a tavola e a letto, forme esteriori di rispetto, dell'igiene corporale, ecc. Naturalmente, è così anche per la lettura.
Leggere è un atto. E io vorrei parlare di questo atto, e di questo solo, di ciò che lo costituisce, di ciò che lo circonda, e non di ciò che produce (la lettura, il testo letto), né di ciò che lo precede (la scrittura e le sue scelte, l'editoria e le sue scelte, la stampa e le sue scelte, la distribuzione e le sue scelte, ecc.), qualche cosa, insomma, come una economia della lettura sotto i suoi aspetti ergologici (fisiologia, lavoro muscolare) e socio-ecologici (ambiente spazio-temporale).

Da parecchi decenni ormai, tutta una moderna scuola critica ha posto l'accento proprio sul come della scrittura, sul fare, sul poietico. Non la sacra maieutica, l'ispirazione afferrata per i capelli, ma il nero su bianco, la tessitura del testo, l'iscrizione, la traccia, il piede della lettera, il lavoro minuto, l'organizzazione spaziale della scrittura, i materiali (la penna o il pennello, macchina da scrivere), i supporti (Valmont alla Presidentessa di Tourvel: «La tavola stessa su cui vi scrivo, per la piima volta adibita a tale uso, diventa per me l'altare sacro dell'amore... »), i codici (punteggiatura, capoversi, paragrafi, ecc.), il proprio intorno (lo scrittore che scrive, i suoi luoghi, i suoi ritmi; coloro che scrivono al caffè, quelli che lavorano di notte o all'alba, oppure alla domenica, ecc.).

A me sembra che un lavoro analogo vada fatto sull'aspetto efferente di tale produzione: ossia l'assunzione del testo da parte del lettore. Non si tratta tanto di considerare il messaggio emesso, quanto l'emissione del messaggio al livello elementare, ciò che avviene quando si legge: gli occhi che si posano sulle righe, il loro percorso e tutto ciò che accompagna questo percorso: la lettura ricondotta a ciò che innanzi tutto è: una precisa attività del corpo, il movimento di certi muscoli, le diverse organizzazioni delle posizioni del corpo stesso e [...]

[Georges Perec, Pensare/Classificare, Rizzoli, 1989, pag. 97]

lunedì 25 aprile 2011

E se ... Ponzio Pilato

All’annuncio del verdetto, generale era stato il giubilo tra i discepoli del Profeta: lo avevan creduto per perduto. Ora, egli tornava a loro con la sua innocenza proclamata dal rappresentante di Cesare in persona. Era il trionfo quasi miracoloso dell’equità. Una volta tanto, il potere prendeva le parti del giusto e del perseguitato. Di lì a poco, però, il gesto di Pilato nocque al Rabbi. Forse i più ardenti tra i fedeli serbavan memoria d’aver sparsa un po’ dappertutto la voce che arcangeli armati di spade fiammeggianti sarebbero scesi a liberarlo sopra lo strumento del suo supplizio. Gli arcangeli non ne avevano avuto l’occasione. Certo, i discepoli non rimpiangevano che il maestro non fosse stato crocifisso. Nondimeno, sospettavano che un intervento delle legioni celesti sarebbe stato più prestigioso della sentenza d’un funzionario. Si sarebbe detto talvolta fossero scontenti che il Figlio di Dio dovesse la vita alla fermezza d’un magistrato romano. Ciò appariva quasi incompatibile con la natura divina.
Intanto il Messia continuava la predicazione con successo e morì in tarda età. Godeva d’una grande reputazione di santità, e si fecero per molto tempo pellegrinaggi al luogo della sua tomba. Tuttavia, a causa d’un uomo che, contro ogni speranza, riuscì ad essere coraggioso, non ci fu cristianesimo.

[Roger Caillois, Ponzio Pilato, traduzione di Luciano De Maria, Torino, Einaudi 1963, p. 80d]

martedì 19 aprile 2011

I due re e i due labirinti

Narrano gli uomini degni di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano ad entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch'egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel'avrebbe fatto conoscere un giorno.

Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: "Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l'Onnipotente ha voluto ch'io ti mostrassi il mio, dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo". Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove egli morì di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore.

Borges J. L., L'Aleph, I due re e i due labirinti, Feltrinelli, Milano, 1983

domenica 17 aprile 2011

A ciascuno la sua chimera di C. Baudelaire

Sotto un grande cielo grigio, in una grande pianura polverosa, senza sentieri, senza erba, senza un cardo, senza un'ortica, io incontrai diversi uomini che camminavano curvi. Ciascuno di loro portava addosso un'enorme Chimera, che pesava come un sacco di farina o di carbone, o il bagaglio d'un fante romano. La mostruosa bestia non era però un carico inerte; al contrario, avvinghiava e opprimeva l'uomo con i muscoli elastici e possenti; s'aggrappava con le due vaste grinfie al petto della cavalcatura; e la testa favolosa sormontava la fronte dell'uomo, come uno di quegli elmi orrendi con cui gli antichi guerrieri speravano di accrescere il terrore del nemico.

Interrogai uno di quegli uomini, e gli domandai dove andavano a quel modo. Mi rispose che non ne sapeva niente, sia lui che gli altri; ma che chiaramente andavano da qualche parte, perché erano spinti da un invincibile bisogno di camminare. Da notare un fatto curioso: nessuno di quei viandanti aveva l'aria adirata contro la feroce bestia appesa al collo e appiccicata addosso; si potrebbe dire che la considerassero parte di se stessi. Tutti quei visi stanchi e gravi non mostravano alcuna disperazione; sotto la cupola malinconica del cielo, i piedi immersi nella polvere d'un suolo desolato come appunto il cielo, essi procedevano con la fisionomia rassegnata di quelli che sono condannati a sperar sempre.

E il corteo mi passò accanto e dileguò nell'atmosfera all'orizzonte, là dove la tonda superficie del pianeta si sottrae alla curiosità dello sguardo umano. E per qualche istante io mi ostinai a voler capire quel mistero; ma ben presto l'irresistibile Indifferenza piombò su di me, e ne fui oppresso più gravemente che coloro stessi per le schiaccianti Chimere.

(C. Baudelaire, Piccoli Poemi in Prosa, a cura di N. Muschitiello BUR)

mercoledì 13 aprile 2011

Filosofie, atmosfere e metafore

Wolf approfittò dell’assenza di Christie per avvicinarsi alla libreria che l’aveva già incuriosito. La prima cosa ad attirare la sua attenzione fu un’edizione dell’Hydriotaphia ossia “Il seppellimento nelle urne” di Sir Thomas Browne. Egli tolse questo libro dallo scaffale, e lo sfogliava distrattamente quando rientrò la ragazza con in mano un bicchiere di chiaretto.
Rimettendo il volume al suo posto in fretta, e alzando il vino alle labbra, non potè resistere alla voglia di commentare alcuni degli altri più impegnativi volumi che si trovavano nella libreria. “Vedo che lei legge Leibniz, Signorina Malakite,” disse. “Non trova quelle sue «monadi» di difficile comprensione? Vedo anche che ha per di più Hegel. Mi sono sempre sentito molto attratto da lui – nonostante sarei in imbarazzo se dovessi dire il perché.” Si rimise a sedere sulla sedia di vimini, con il bicchiere di vino in mano.
“Lei si diverte con la filosofia?” aggiunse, guardandola sornione ma amichevole. I suoi sopraccigli folti si contrassero, e i suoi occhi divennero stretti e piccoli. Christie si sedette vicino a lui sul sofa e, pensierosa, spianò con le mani la sua gonna marrone. Fu evidente la sua ansia di rispondere a questa domanda importante con la dovuta meticolosità […] “Non capisco la metà di quello che leggo,” esordì, parlando con estrema precisione. “Tutto ciò che so è che ognuno di quei libri vecchi ha per me la proprio atmosfera.” “Atmosfera?” chiese Wolf. “Suppongo che sia buffo parlare in questo modo,” continuò Christie, “ma tutte quelle strane astrazioni non-umane, come la «sostanza» di Spinoza, e le «monadi» di Leibniz, e le «idee» di Hegel, non rimangono dure e logiche per me. Sembrano sciogliersi.” Si fermò e guardò Wolf con un sorriso, come per scusare la sua pedanteria estrema. “Cosa intende per «sciogliersi»?” egli mormorò. “Intendo quello che dico,” rispose, con un tocco di fastidio, come se l’atto di pronunciare le parole le fosse difficile e lei aspettasse che il suo interlocutore fosse in grado di cogliere il loro significato a prescindere. “Intendo che esse diventano ciò che io chiamo «atmosfera».” “Il tono del pensiero che le aggrada di più, suppongo?” egli suggerì. Christie lo guardò come se egli avesse lanciato un bastone alla bolla di sapone che lei stava soffiando. “Mi dispiace di essere così incapace di esprimere me stessa,” disse. “Non credo di pensare per niente alla filosofia in termini di «verità».” “Come la concepisce, allora?” Christie Malakite sospirò: “Ce ne sono così tante!” mormorò. “Così tante?” “Così tante verità. Ma lei non deve farsi problemi nel seguire i miei modi goffi di mettere le cose, Signor Solent. “La sto seguendo con il massimo interesse,” disse Wolf.

“Ciò che sto cercando di dire è,” proseguì, buttando fuori le parole quasi con ferocia, “io concepisco ciascuna filosofia, non come la «verità», bensì solo come un particolare paese, in cui posso viaggiare – paesi con la loro luce peculiare, i loro edifici gotici, i loro tetti inclinati, i loro viali alberati – ma temo di annoiarla con tutto questo!” “Vada avanti, per l’amor del Cielo!” implorò. “È esattamente ciò che voglio sentire.” “Voglio dire, si tratta del modo di sentire le cose,” spiegò, “quando si sente la pioggia fuori dalla finestra mentre stai leggendo un libro. Mi capisce? Oh, non riesco a metterlo in parole! Quando ti viene quella subitanea sensazione della vita che sta procedendo fuori, anche lontano da dove stai seduto … in tratti vasti di paesaggio, come se stessi viaggiando in una carozza e tutte le cose che passavi fossero la vita stessa: i parapetti dei ponti con le foglie morte che li coprono, gli alberi agli incroci, le inferriate dei parchi, le luci delle lampade riflesse nei laghetti … non intendo, ben inteso, che la filosofia è identica alla vita …ma – non vede ciò che intendo?” Si fermò con un gesto di stizza. Wolf si morse la labbra per sopprimere un sorriso. In quel momento fu quasi disposto a coccolare la piccola figura nervosa davanti a lui. “Io so perfettamente ciò che intende,” disse alacramente. “La filosofia per lei, e anche per me stesso, non è affatto scienza! È piuttosto la vita stessa, purificata ed esaltata. È l’essenza della vita colta in volo. È la vita incorniciata, incorniciata dalla finestra di una stanza … di una carozza … dagli specchi … nei nostri momenti di malinconia … quando alziamo gli occhi da un libro coinvolgente … nei nostri sogni a occhi aperti – certo che io so perfettamente ciò che intende!”
Christie si spostò sul sofà e girò la testa in modo tale che lui potesse vedere solo un profilo delicato del suo viso, un profilo che, in quella posizione particolare gli sovvenne un ritratto del filosofo Cartesio!

John Cowper Powys (1872-1963) Wolf Solent (1929) [dal capitolo 5]ed. orig.: Jonathan Cape, Londra tr. it. R. Davies  http://www.unibg.it/

venerdì 8 aprile 2011

Una storia indù

Un'antica storia indù racconta di un maharaja che un giorno, di ritorno da una partita di caccia, trovò i sapienti della sua corte in grande agitazione.

Chiestane la ragione, dal più anziano di loro seppe che la causa era un sottile tema religioso, alla cui interpretazione tutti partecipavano con tale animosità e convinzione. In breve tempo dalla pacata argomentazione, erano passati a una disputa e poi a una vera e propria rissa.


Il maharaja allora, imposto energicamente il silenzio, fece entrare nella corte un gruppo di mendicanti ciechi che sempre sostavano fuori delle mura e, portato poi l'elefante più grande delle sue stalle, prese uno per uno ciascun cieco e, con pazienza, fece a lui toccare una parte del grande bestione, una zampa, la proboscide, una zanna e così via fino alla coda.

Riuniti poi tutti attorno a sé, domandò loro di descrivere l'animale che avevano toccato. Non passò molto tempo che i discordi pareri dei poveri ciechi, generarono una discussione che sì animò via via fino a diventare una rissa.

I sapienti che assistevano compresero e tacquero.

martedì 5 aprile 2011

La Pace

La pace è solo qui adesso.
E’ ridicolo dire: - Quando questo sarà a posto, allora finalmente potrò vivere in pace – Questo cosa? La laurea, il lavoro, una, casa, il pagamento di un debito? Pensando così non avrai mai pace. C’è sempre bisogno di un altro ‘questo’ che viene dopo. Se non sei in pace in questo preciso momento, non lo sarai mai. Se vuoi davvero essere in pace, puoi esserlo solo adesso.

Thich Nhat Hanh


"Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro" (Agostino Le Confessioni XIV)