mercoledì 29 dicembre 2010

Fra le righe

Il significato si legge fra le righe. Non il significato ovvio, banale, quello che c'è sul dizionario, "Cane"  vuol dire cane, "porta” vuol dire porta e, se uno scrive "il cane sta dietro la porta", il fatto che il cane sta dietro la porta è scritto sulla riga, con lodevole chiarezza. L'unico problema è di solito nessuno vuole dire cose come "il cane sta dietro la porta"; di solito queste cose non interessano a nessuno. Di solito quel che si vuole dire, per esempio, è "Non sognarti nemmeno di venire a casa mia", e per dirlo si scrive, su una riga, "il cane sta dietro la porta" e sulla riga dopo "So che hai molta paura dei cani". Fra le due righe non c’è  scritto niente, ma è li che si trova il vero significato, cioè che tu non ti devi nemmeno sognare di venire a casa mia.
Uno potrebbe pensare che, se il significato più importante si trova là dove non c'è scritto niente, tanto varrebbe non scrivere niente del tutto, lasciare la pagine bianca. E invece qualcosa bisogna scriverlo, qualcosa che non è quel che vogliamo dire, qualcosa che copra le righe, cosicché fra le righe, dove non c’è scritto niente, ci possa stare il significato che conta davvero.
Ci dovrebbe essere un  modo più razionale di sbrigare questa faccenda.

Ermanno Bencivenga Parole in gioco Mondadori 2010

martedì 28 dicembre 2010

Nessun legame con la polvere

Zengetsu, un maestro cinese della dinastia T'ang, scrisse per i suoi allievi i seguenti consigli:

Vivere nel mondo e tuttavia non stringere legami con la polvere del mondo è la linea di condotta di un vero studente di Zen.

Quando assisti alla buona azione di un altro, esortati a seguire il suo esempio.

Nell'aver notizia dell'errore di un altro, raccomandati di non imitarlo.

Anche da solo in una stanza buia comportati come se avessi di fronte un nobile ospite.

Esprimi i tuoi sentimenti, ma non diventare più espansivo di quanto la tua vera natura ti detti.

La povertà è il tuo tesoro. Non barattarla mai con una vita agiata.

Una persona può sembrare sciocca e tuttavia non esserlo. Può darsi che stia solo proteggendo con cura il suo discernimento.

Le virtù sono i frutti dell'autodisciplina e non cadono dal cielo da sole come la pioggia o la neve.

La modestia è il fondamento di tutte le virtù. Lascia che i tuoi vicini ti scoprano prima che tu ti sia rivelato.

Un cuore nobile non si mette mai in mostra. Le sue parole sono come gemme preziose, sfoggiate raramente e di grande valore.

Per uno studente sincero, ogni giorno è un giorno fortunato. Il tempo passa ma lui non resta mai indietro. Né la gloria né l'infamia possono commuoverlo.

Critica te stesso, non criticare mai gli altri. Non discutere di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.

Alcune cose, benché giuste, furono considerate sbagliate per intere generazioni. Poiché è possibile che il valore del giusto sia riconosciuto dopo molti secoli, non c'è alcun bisogno di pretendere un riconoscimento immediato. Vivi con un fine e lascia i risultati alla grande legge dell'universo. Trascorri ogni giorno in serena contemplazione.

(Da 101 storie zen)

lunedì 27 dicembre 2010

Nelle mani del destino

Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi.
Durante la marcia si fermò a un tempio shintoista e disse ai suoi uomini: «Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino».
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
«Nessuno può cambiare il destino» disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
«No davvero» disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt'e due le facce.
(Da 101 storie zen)

giovedì 23 dicembre 2010

Dall'esilio

C’è un libretto di Brodskij, pubblicato da Adelphi con il titolo Dall’esilio, son meno di 70 pagine, 68, son tre discorsi, La condizione che chiamiamo esilio e Discorso di accettazione (tradotti da Gilberto Forti) e Un volto non comune. Discorso per il premio Nobel (tradotto da Giovanni Buttafava), c’è questo libretto che tutte le volte che lo apro ci trovo delle cose che mi sembra di non avere mai letto; son meno di 70 pagine, son 68, l’avrò letto venti volte ma è come se avesse un doppio fondo, tutte le volte mi chiedo: «Ma c’era, questo?». Anche oggi, l’ho aperto a pagina 45 e ho letto: «Uno dei meriti della letteratura è appunto quello di aiutare una persona a rendere più specifico il tempo della propria esistenza, a distinguersi dalla folla dei suoi predecessori e da quella dei suoi contemporanei, a evitare la tautologia – cioè il destino di chi può fregiarsi del titolo onorifico di “vittima della storia». Che è una cosa, è ridicolo, ero convinto perfino di averla pensata io, invece deve averla pensata Brodskij, ogni tanto mi viene il dubbio che qualcuno mi faccia degli scherzi mi sostituisca il libretto dopo averci cambiato il contenuto, allora vado a cercare dei pezzi che mi ricordo bene, ce ne son due, in particolare, il primo dice: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare – o almeno di imitare – il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno»; l’altro dice: «Nondimeno, signore e signori, mi fa piacere pensare che noi, cioè voi e io, respiravamo la stessa aria, mangiavamo lo stesso pesce, eravamo inzuppati della stessa pioggia, – a volte – radioattiva, facevamo il bagno nello stesso mare, ci annoiavamo alla vista di conifere della stessa specie. A seconda del vento, le nuvole che vedevo passare davanti alla mia finestra erano state già viste da voi, e viceversa». E le trovo, pagina 35 e 36 e pagina 66, meno male.

Paolo Nori http://www.paolonori.it/argomenti/iosif-brodskij/

mercoledì 22 dicembre 2010

Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me

Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente sup­porle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimi­tati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisi­bile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connes­sione non, come là, semplicemente accidentale, ma uni­versale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di natura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determina­zione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito (dalla conclusione della Critica della ragion pratica; 1966, pp. 201-202).

lunedì 20 dicembre 2010

Il cane e l'agnello


A un agnello che belava tra le capre, il cane disse: "Stolto, sbagli; non è qui tua madre" e gli indicò, lontano, le pecore che si erano staccate dal gregge. 

"Non cerco quella che, per suo piacere, si ingravida, e poi porta un peso sconosciuto per un numero determinato di mesi, e alla fine butta giù il fardello e se ne sbarazza, ma cerco quella che mi nutre accostandomi le sue poppe e priva i figli del latte perché non ne manchi a me"

 "Eppure quella che ti ha partorito conta di più" 

"No, non è vero. Come poteva sapere se nascevo bianco o nero? Su, pensaci: se avesse voluto partorire una femmina, quale successo avrebbe avuto, nascendo io maschio? Bel dono davvero mi ha fatto mettendomi al mondo: attendere di ora in ora il macellaio! Quella che non ebbe alcun potere nel crearmi, perché dovrebbe contare più di questa che ha avuto pietà di me, abbandonato, e che offre spontaneamente e con affetto la sua generosità? È la bontà, non il legame di sangue che fa genitori.

(Fedro)

venerdì 17 dicembre 2010

Perché non recidere le nostre radici

L’uomo piú saggio che io abbia conosciuto non sapeva né leggere né scrivere. Alle quattro di mattina, quando la promessa di un nuovo giorno stava ancora in terra di Francia, si alzava dal pagliericcio e usciva nei campi, portando al pascolo la mezza dozzina di scrofe della cui fertilità si nutrivano lui e sua moglie, i miei nonni materni. [...] Talvolta, nelle calde notti d’estate, dopo cena, mio nonno mi diceva: “José, stanotte dormiamo tutti e due sotto il fico” [...]. In piena pace notturna, tra gli alti rami dell’albero, mi appariva una stella, e poi, lentamente, si nascondeva dietro una foglia, e, guardando da un’altra parte, come un fiume che scorre in silenzio nel cielo concavo, sorgeva il chiarore opalescente della Via Lattea. E mentre il sonno tardava ad arrivare, la notte si popolava delle storie e dei casi che mio nonno raccontava: leggende, apparizioni, spaventi, episodi singolari, morti antiche, zuffe di bastoni e pietre, parole di antenati, un instancabile brusio di memorie che mi teneva sveglio e al contempo mi cullava. Non ho mai potuto sapere se lui taceva quando si accorgeva che mi ero addormentato, o se continuava a parlare per non lasciare a metà la risposta alla domanda che gli facevo nelle pause più lunghe che lui volontariamente metteva nel racconto: “E poi?”
[...] Molti anni piú tardi, scrivendo per la prima volta di mio nonno Jeronimo e di mia nonna Josefa, mi accorsi che stavo trasformando le persone comuni che erano state in personaggi letterari, e che questo era probabilmente il modo per non dimenticarli, disegnando e ridisegnando i loro volti con un lapis cangiante di ricordi [...]. Nel dipingere i miei genitori e i miei nonni con i colori della letteratura, trasformandoli da semplici persone in carne e ossa in personaggi di nuovo e in modi diversi costruttori della mia vita, senza accorgermene stavo tracciando il percorso attraverso il quale i personaggi che avrei inventato, gli altri, quelli veramente letterari, avrebbero fabbricato e mi avrebbero portato i materiali e gli arnesi che, finalmente, nel buono e nel meno buono, nel sufficiente e nell’insufficiente, nel guadagnato e nel perduto, in quello che è difetto, ma anche in quello che è eccesso, avrebbero finito per fare di me la persona in cui oggi ancora mi riconosco: creatore di quei personaggi, ma al tempo stesso loro creatura».

José Saramago. Dalla lettura per il Premio Nobel, 7 dicembre 1998

Nell'era virtuale rischiamo, per distrazione, di tagliare via, pezzo a pezzo, il collegamento con la nostra origine, con le radici che silenziosamente e costantemente alimentano e danno forma e unità alle nostre vite, sempre più frammentate.

martedì 14 dicembre 2010

Pezzettino

Il suo nome era Pezzettino.
Tutti i suoi amici erano grandi e coraggiosi e facevano cose meravigliose. Lui invece era piccolo e di sicuro era un pezzettino di qualcuno pensava, un pezzetto mancante. Molto spesso si chiedeva di chi fosse il pezzettino, e un bel giorno decise di scoprirlo.
“Scusa…”, e chiese allora a Quello-Che-Corre, “per caso sono un tuo pezzettino?” “Come potrei correre se mi mancasse un pezzettino?” rispose Quello-Che–Corre piuttosto sorpreso.
“Sono un tuo pezzettino?” domandò a Quello-Forte, “Potrei essere così forte se mi mancasse un pezzetto?” fu la risposta che ottenne. E quando Quello-Che_Nuota emerse dalle onde, Pezzettino gli rivolse la stessa domanda. “Non potrei nuotare se mi mancasse un pezzettino”, rispose Quello-Che-Nuota rituffandosi sott’acqua.“Ehi, tu lassù!” gridò Pezzettino quando ebbe raggiunto Quello-Che-Vive-Sulle-Montagne “Sono un tuo pezzetto?” Lui scoppiò a ridere: “Potrei arrampicarmi se mi mancasse un pezzetto?” Pezzettino chiese la stessa cosa a Quello-Che-Vola, ma la risposta fu identica.Alla fine, Pezzettino andò da Quello-Saggio che viveva in una grotta . “Per caso, sono un tuo pezzetto?” “Ma io devo essere di qualcuno!” gridò Pezzettino. “Come faccio a scoprirlo?” “Vai all’isola Chi-Sono”, rispose Quello-Saggio. Il giorno dopo, Pezzettino salpò con la sua barchetta.
Dopo un viaggio lungo e burrascoso, arrivò all’isola Chi-Sono. Era stanco e bagnato. Che strano! L’isola era un ammasso di pietre. Non un albero, non un filo d’erba. Ma soprattutto, nessuna creatura vivente.

Pezzettino camminò e camminò, su e giù, finchè esausto, inciampo e cadde…e si ruppe in tante pezzetti.

Quello-Saggio aveva ragione! Pezzettino adesso sapeva che anche lui, come tutti, era fatto di tanti piccoli pezzi. Si ricompose e quando fu sicuro che non mancasse neanche uno dei suoi pezzetti, tornò alla barca. Remò tutta la notte per arrivare a casa prima possibile. Tutti i suoi amici lo stavano aspettando.

“Io sono me stesso”, gridò Pezzettino tutto contento. I suoi amici non erano sicuri di aver capito quello che Pezzettino intendesse dire, però sembrava felice. E così, si sentirono felici anche loro.

domenica 12 dicembre 2010

Nel mondo dei sogni

«Dopo pranzo il nostro maestro di scuola faceva sempre un pisolino» raccontava un discepolo di Soyen Shaku. «Noi bambini gli domandammo perché lo facesse e lui ci rispose: "Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio". Quando Confucio dormiva, sognava gli antichi saggi e dopo parlava di loro ai suoi seguaci.
«Un giorno c'era un caldo terribile, e alcuni di noi si appisolarono. Il maestro ci rimproverò. "Siamo andati nel mondo dei sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio" spiegammo noi. "E che cosa vi hanno detto quei saggi?" volle sapere il maestro. Uno di noi rispose: "Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto"».
(Tratto da 101 Storie Zen)

giovedì 9 dicembre 2010

Una storia zen

C’era una volta un contadino cinese il cui cavallo era scappato. Tutti i vicini quella sera stessa si recarono da lui per esprimergli il loro  dispiacere: “siamo così addolorati di sentire che il tuo cavallo è fuggito. E’ una cosa terribile”. Il contadino rispose: “Forse.” Il giorno successivo il cavallo tornò portandosi dietro sette cavalli selvaggi, e quella sera tutti i vicini tornarono e dissero: “Ma che fortuna! Guarda come sono cambiate le cose. Ora hai otto cavalli!” Il contadino disse: “Forse.” Il giorno dopo suo figlio cercò di domare uno di quei cavalli per cavalcarlo, ma venne disarcionato e si ruppe una gamba, al che tutti esclamarono:“Oh, poveraccio. Questa e’ una vera disdetta” ma ancora una volta il contadino commentò: “Forse.” Il giorno seguente il consiglio di leva si presentò per arruolare gli uomini nell’esercito, e il figlio venne lasciato a casa per via della gamba rotta. Ancora una volta i vicini si fecero intorno per commentare: ”Non è fantastico?” ma di nuovo il contadino disse: “Forse.”


Il contadino si è mantenuto nel rifiuto di guadagno o di perdita, di vantaggio o di  svantaggio perché, se ben si pensa, non c'è nulla che possieda una caratteristica che sia sempre positiva o sempre negativa

mercoledì 8 dicembre 2010

FilosoFare è partecipare: Spazi dell'anima incontra i cittadini del VIII Municipio


Nell’arco del mese di dicembre 2010, saranno realizzati 2 incontri - il 12 e 19 dicembre – ciascuno della durata di 3 ore, aperti ai cittadini dell’VIII Municipio con la finalità di sperimentare una pratica dialogica (e quindi filosofica) su alcune tematiche ‘calde’, in particolare per i giovani, sulle quali si ritiene significativo far fare una esperienza di riflessione in gruppo e di confronto aperto e rispettoso dell’altro. Una tale esperienza contribuisce ad ampliare i punti di vista dei singoli sia attraverso l’accoglienza di quelli degli altri membri del gruppo stesso, sia mediante la lettura comune di testi accessibili della tradizione filosofica.

Di seguito i titoli e gli argomenti che saranno trattati negli incontri:


12 dicembre 2010 ore 10,00 – 13,00:
Arte di ascoltare e mondi possibili. Quali pratiche per una società giusta?
19 dicembre 2010 ore 10,00 – 13,00:
Troppo stanco per …… Il tempo dell’agire.


La metodogia adottata sarà quella della ‘comunità di ricerca’ che consiste in una discussione approfondita intorno a un tema significativo. Il tema potrà essere deciso in partenza oppure identificato dal gruppo stesso a partire da uno o più stimoli (testi, immagini, scene di film, brani musicali) offerti da un facilitatore.

Gli incontri sono aperti a tutti.

La manifestazione/iniziativa è realizzata con il sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione di Roma Capitale.

martedì 7 dicembre 2010

Apologia di Socrate

[...] Ecco il motivo per cui la voce del dio non mi ha interdetto e perché io, contro i miei accusatori, contro quelli che mi hanno condannato, non ho alcun rancore, sebbene essi mi abbiano accusato e condannato non con questa intenzione, ma per farmi del male: in questo sono da biasimare. Tuttavia io li voglio pregare di una cosa: quando i miei figli saranno cresciuti, puniteli, cittadini, stategli dietro come io facevo con voi, se vedrete che si preoccupano più delle ricchezze o degli altri beni materiali che della virtù e se si crederanno di valere qualcosa senza valer poi nulla, rimproverateli, come io rimproveravo voi, per ciò che non curano e che, invece, dovrebbero curare, se credono di essere «grandi uomini» e poi non sono niente. Se farete questo, io e i miei figli avremo avuto da voi ciò che è giusto. Ma è giunta, ormai, l'ora di andare, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada a miglior sorte, nessuno lo sa, tranne Dio.

domenica 5 dicembre 2010

La saggezza del mediatore

Viveva in un villaggio un uomo molto povero e devoto, assieme alla madre cieca e a una moglie triste e amareggiata per la mancanza di prole.

Ogni giorno questo uomo pio si alzava all’alba e andava al tempio a chiedere al Signore di far qualcosa per lenire le sofferenze sue e dei suoi cari. Dopo dodici anni di preghiere sentì la voce di Dio: «Esprimi un desiderio e sarà realizzato». «Mi prendi alla sprovvista» rispose il pover’uomo, posso consultarmi con mia madre e mia moglie prima di rispondere? Ottenuto il permesso, corre a casa dove incontra per prima la madre. «Figlio mio, se chiederai al Signore di ridarmi la vista, ti sarò grata e ti benedirò finché vivo». Poi andò dalla moglie, la quale messa al corrente di tutto, esclamò: « Lascia perdere tua madre che è vecchia e destinata a chiudere definitivamente gli occhi nel giro di qualche anno! Quello che devi chiedere è un figlio che un giorno si prenda cura di noi e che ci porti un po’ di fortuna anche economica».

La madre, che stava ascoltando, prese una canna e si mise a picchiare la nuora chiamandola egoista, la moglie reagì e ne nacque un terribile corpo a corpo. Il pover’uomo, sentendosi completamente impotente di fronte a tanta ira, scappò di casa e si recò da un suo conoscente il quale era considerato un mediatore dei conflitti nel villaggio.
«Mia madre vuole la vista, mia moglie un figlio ed io desidero più di tutto un certo benessere economico in modo da non dover pensare ogni giorno se si mangia o no».

L’uomo, dopo un attimo di meditazione, rispose: «Figlio mio, tu non devi scegliere fra le richieste dell’uno o l’altro membro della tua famiglia, sono tutte giuste. Domani mattina devi dire: Oh Signore, non chiedo nulla per me stesso, anche mia moglie non chiede nulla per sé, ma mia madre è vecchia e cieca e il suo ultimo desiderio prima di morire è riuscire a vedere un nipotino sano e vispo, che mangia cibo abbondante da una tazza tutta d’oro.»

Racconto popolare di Trinidad. Tratto da: David W. Augsburger, Conflictand Mediation Across Cultures, Westminster/John Knox Press, Louisville

venerdì 3 dicembre 2010

"Mi ricordo"

L'uomo chiese una volta all'animale: "Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità?" L'animale voleva rispondere e dice: "Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire" – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l'uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via – e improvvisamente rivola indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice "Mi ricordo" (Nietzsche, da Considerazioni inattuali)