domenica 28 novembre 2010

Strani incontri a Milano

Ogni tanto mi piace bere una bella birra seduto ad un tavolino di qualche bar del centro, non importa quale, l’importante è che sia all’aperto e che ci sia un bel passaggio. L’altro giorno stavo gustando un’Ale comodamente seduto in un bar di via Dante, sullo sfondo il castello sforzesco. Guardavo il viavai, era una bella giornata estiva ma non afosa, un leggero venticello dava la sensazione di essere a Roma anziché a Milano. Guardare la gente che passeggia ostentando goffamente il loro ultimo acquisto firmato o un’impostata quanto patetica mise trasandata è un passatempo che mi è sempre piaciuto, mi aiuta a rilassarmi e a considerare come la vuotezza sia sempre più parte integrante dei nostri costumi. Come stavo dicendo, mi trovavo seduto a godermi una birra quando notai che fra i tavolini si aggirava uno strano tipo, forse un questuante. Non saprei dire a quale categoria di accattoni appartenesse, non era uno straccione e non era neppure più sporco di tanti che si credono puliti. L’unico particolare che poteva inquadrarlo come accattone era l’abbigliamento eccessivamente caldo rispetto al clima. Una giacca pesante ricopriva una camicia a scacchi di flanella malamente infilata in un paio di calzoni di velluto pesante. Ai piedi un paio di scarponi invernali, tutto sommato poteva essere un turista che dopo un’escursione in alta montagna aveva scordato di cambiarsi, ma qui non siamo in montagna per cui il suo abbigliamento era decisamente da considerarsi fuori luogo. Mi chiedevo come potesse non sudare con tutta quella roba addosso, sotto la camicia chissà quali altri indumenti indossava. Aspettavo che si avvicinasse anche al mio tavolo ed avevo già pronti cinque euro da dargli, mi era simpatico, da sotto una folta barba sale e pepe spuntava a tratti un sorriso dolce e accattivante, sincero. Quando si avvicinò al mio tavolo, senza rendermi conto di quello che facevo lo invitai ad accomodarsi. Incredulo mi chiese se aveva capito bene. Certo, gli dissi e lui si accomodò.
“Crazie” Disse con un italiano che tradiva origini teutoniche
“Cosa posso offrirle?” Gli domandai.
“Un the caldo, crazie.”
“Solo un the, non desidera qualcosa da mangiare?”
“Sì, con due fette di pane tostato, crazie.”
“Nient’altro?”
“No, crazie.”
Gli ordinai quanto aveva chiesto e lo osservai in religioso silenzio, non mi andava di iniziare a fare le solite domande idiote che si fanno ai barboni, “Ma cosa l’ha spinta a fare questa vita? Cosa le è successo? Ha famiglia?” Erano affari suoi, se aveva voglia di parlare lo avrebbe fatto di sua sponte.
Attese la consumazione guardandomi anch’egli in silenzio; iniziai a sentirmi in imbarazzo, sembrava che si fossero invertite le parti, mi venne un forte impulso volto a spezzare quel silenzio che era diventato assordante. Non lo feci.
Gli portarono il the con le fette di pane tostato, li consumò in silenzio con grande dignità. Chissà cosa pensava, chissà chi era, quanti chissà si ponevano tra noi.
Dopo quel lungo silenzio che mi stava uccidendo, finalmente profferì una parola.
“Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché mi ha chiesto di sedermi qui con lei.”
“Così.”
“Così non è una risposta.”
“Sì, così, non so, ho pensato che potesse farle piacere.”
“Ah, ha pensato che potesse farmi piacere.”
“Sì, proprio così.”
“E cosa le ha fatto pensare che potesse farmi piacere sedermi qui vicino a lei?”
“Non so, ho pensato che fosse stanco.”
“Cosa le faceva pensare che fossi stanco, mi trascinavo? Camminavo curvo? Ansimavo?”
“No, niente di tutto questo, è stata una sensazione.”
“Una sensazione.”
“Sì, una sensazione.”
“Lei crede alle sensazioni?”
“Sì, in genere ci credo.”
“Quindi a volte non ci crede.”
“Sì, non si può farne una regola.”
“Non si può farne una regola. Adesso ha altre sensazioni?”
“In che senso?”
“Nel senso sensitivo, sente qualcos’altro? Prima ha sentito che potevo essere stanco, ora cos’altro sente?”
“Ora non sento altro.”
“Ora non sente altro.”
Quella conversazione cominciava a innervosirmi, cosa voleva, gli avevo offerto un’occasione di ristoro e lui mi trattava in quel modo, ma chi si crede di essere?
“Lo sa che lei è veramente strano?” Sbottai.
“No, non lo sapevo, lo terrò in considerazione.”
“Bene.”
Poco dopo si alzò, mi ringraziò per il the, sorridendo mise la mano nella tasca interna della pesante giacca e trasse un biglietto da visita, il suo, e me lo porse invitandomi a contattarlo se ne avessi sentito il bisogno: Prof. Franz Keller psichiatra.

A cura di Max Bonfanti http://www.laccentodisocrate.it/

Un racconto per portare l'attenzione sulle cornici di riferimento, sugli schemi culturali e personali che delimitano e  ingabbiano la nostra visione del mondo.

Mercoledì 1° dicembre alle ore 21.00, secondo incontro del laboratorio di pratica filosofica della Scuola Popolare di Filosofia “Lavoro, dunque sono. Ma, chi sono?”

Sono partiti i primi incontri dei laboratori di pratica filosofica proposti dalla nostra Scuola. II laboratorio dedicato ai temi del lavoro, “Lavoro, dunque sono. Ma, chi sono?” , a cura di Myriam Ines Giangiacomo, è un percorso di ricerca proposto soprattutto a imprenditori, professionisti, manager e quadri. Nel primo incontro sono stati affrontati con leggerezza temi scottanti come quelli della adeguatezza della preparazione scolastica al mondo del lavoro e dei rapporti tra tecnica e cultura, insegnamento di nozioni e testimonianze di vita. Nel prossimo incontro partiremo dalla lettura collettiva di alcuni testi per formulare le nostre domande.
E’ ancora possibile iscriversi fino al prossimo incontro, poi il gruppo sarà considerato al completo.
Per tutte le info: www.spazidellanima.it e per avere in anticipo la documentazione: scrivere a info@spazidellanima.it o telefonare 06 7842819

domenica 21 novembre 2010

Il ritratto Ovale

(…) Era una fanciulla di rara bellezza, amabile quanto piena di gioia. Maledetta fu l’ora in cui vide il pittore, si innamorò di lui e lo sposò. Lui, uomo appassionato, studioso e austero, era già sposato con l’arte. Lei, fanciulla di rara bellezza, amabile e piena di gioia; tutta luce e sorrisi, festosa come una cerbiatta, amava e aveva cara ogni cosa. Odiava soltanto l’arte, sua rivale. Temeva soltanto la tavolozza e i pennelli e tutti gli odiati strumenti che la privavano della vista dell’amato. Fu terribile quando il pittore disse che voleva fare un ritratto anche a lei, sua giovane sposa. Ma, era umile e remissiva, e per molte settimane sedette docilmente nella stanza buia in cima alla torre dove la luce scendeva sulla pallida tela solo dall’alto. Ma lui, il pittore, si curava soltanto della propria opera, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Era un uomo appassionato, ombroso, malinconico. Così non si accorse che la luce, incombente in maniera tanto spettrale entro quella torre isolata, minava la salute e lo spirito della sua sposa: lei sfioriva a vista d’occhio. Tutti se ne accorgevano tranne il marito. Lei comunque seguitava a sorridere senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore, già molto famoso, traeva da quell’opera un piacere intenso e lavorando notte e giorno per ritrarre colei che tanto lo amava e che tuttavia diventava giorno dopo giorno sempre più debole e triste. E in verità chi aveva visto il ritratto parlava sottovoce della somiglianza come di un’assoluta meraviglia e come una prova non soltanto dell’abilità del pittore, ma anche del suo profondo amore per la creatura ritratta in modo così straordinario. Ma alla fine, quando ormai l’opera stava per essere terminata, nessuno fu più ammesso nella torre perché il pittore, tutto presa dalla foga della propria arte, non staccava mai gli occhi dalla tela, neppure per guardare il viso di sua moglie. Non volle vedere che il colore steso sulla tela era sottratto dalle guance della donna seduta accanto a lui. E dopo molte settimane, quando ormai non restava quasi nulla da fare, se non una pennellata alle labbra e un’ombreggiatura agli occhi, lo spirito della donna ebbe ancora un guizzo, come una fiamma nella cavità di una lampada. Il colpo di pennello fu dato, l’ombreggiatura venne compiuta. Per un attimo il pittore rimase in estasi davanti all’opera finita. Ma un attimo dopo, mentre ancora lo guardava, cominciò a tremare e a impallidire; in preda al terrore, gridando: “Questa è la vita!”, si voltò verso l’amata: era morta.
di Edgar Allan Poe
Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Noi di Spazi dell’ Anima abbiamo scelto questo racconto per riflettere insieme su quanti volti diversi, persino nobili, può assumere la violenza, come sottilmente può insinuarsi strisciante nella nostre vite. Ma davvero è così difficile riconoscere l’amore che consuma? Trovare le parole per dirlo? Noi pensiamo che sia possibile dar nome e forma ad ogni tipo di violenza, anche quella che prospera nascondendosi nelle pieghe dell’ambiguità e siamo convinte che il dialogo e la narrazione siano il primo passo da fare per prendere “le misure” e vedere dalla giusta distanza le situazioni. Per questo dedicheremo alla violenza il prossimo Cafè-philo il 15 dicembre. Vi aspettiamo.


Da Bibli "I dialoghi della cura” – nuovo appuntamento il 22 novembre

Lunedì 22 novembre, ore 20.30 nuovo appuntamento a Roma presso il centro culturale della Libreria Bibli in via dei Fienaroli, 28.
La Scuola popolare di filosofia e l’Opificio delle pratiche filosofiche invitano al secondo incontro del ciclo “I Dialoghi della cura: il pluriverso delle emozioni”, a cura di Simona Landolfi, Myriam Ines Giangiacomo e la Squadra Salvamondo.
Titolo dell’incontro: ”A ME PIACE SENTIRE LE COSE CANTARE”.
Cuore della riflessione filosofica comune saranno le emozioni.
Dice Simona: “esploreremo insieme il significato delle emozioni attraverso il racconto delle esperienze vissute, lasciandoci ispirare dalla letteratura e dall’arte; faremo un esercizio di ascolto reciproco, con la partecipazione di tutti i presenti che lo desiderino, per stimolare la riflessione comune verso un comprendere condiviso”.

martedì 16 novembre 2010

Il barattolo di maionese

Un professore, davanti alla sua classe di filosofia, senza dire parola, prende un barattolo grande e vuoto di maionese e procede a riempirlo con delle palle da golf. Dopo chiede agli studenti se il barattolo è pieno. Gli studenti sono d’accordo e dicono di si. Allora il professore prende una scatola piena di palline di vetro e la versa dentro il barattolo di maionese. Le palline di vetro riempiono gli spazi vuoti tra le palle da golf. Il professore chiede di nuovo agli studenti se il barattolo è pieno e loro rispondono di nuovo di si.
Il professore prende una scatola di sabbia e la versa dentro il barattolo. Ovviamente la sabbia riempie tutti gli spazi vuoti e il professore chiede ancora se il barattolo è pieno. Anche questa volta gli studenti rispondono con un si unanime. Il professore velocemente aggiunge due tazze di caffé al contenuto del barattolo ed effettivamente riempie tutti gli spazi vuoti tra la sabbia. Allora gli studenti si mettono a ridere. Quando la risata finisce il professore dice: “Voglio che vi rendiate conto che questo barattolo rappresenta la vita…Le palle da golf sono le cose importanti come la famiglia, i figli, la salute, gli amici, l’amore, le cose che ci appassionano. Sono cose che, anche se perdessimo tutto e ci restassero solo quelle, le nostre vite sarebbero ancora piene. Le palline di vetro sono le altre cose che ci importano, come il lavoro, la casa, la macchina, ecc. La sabbia è tutto il resto: le piccole cose. Se prima di tutto mettessimo nel barattolo la sabbia, non ci sarebbe posto per le palline di vetro né per le palle da golf. La stessa cosa succede con la vita. Se utilizziamo tutto il nostro tempo ed energia nelle cose piccole, non avremo mai spazio per le cose realmente importanti. Fai attenzione alle cose che sono cruciali per la tua felicità: gioca con i tuoi figli, prenditi il tempo per andare dal medico, vai con il tuo partner a cena, pratica il tuo sport o hobby preferito. Ci sarà sempre tempo per pulire casa, per tagliare le erbacce, per riparare le piccole cose… Occupati prima delle palline da golf, delle cose che realmente ti importano. Stabilisci le tue priorità: il resto è solo sabbia”. Uno degli studenti alza la mano e chiede cosa rappresenti il caffè. Il professore sorride e dice: “Sono contento che tu mi faccia questa domanda. E’ solo per dimostrarvi che non importa quanto occupata possa sembrare la vostra vita, c’è sempre posto per un paio di tazze di caffé con un amico!”.

domenica 14 novembre 2010

Ancora su... perchè tornare alle cose

La categoria dell'essere era al centro della coscienza medievale e il tipo di conoscenza che i filosofi elaboravano del mondo quale lo percepivano intomo a loro non scalfiva questa intuizione, dato che il mondo visibile appariva loro il testo di ciò che Dio diceva alla sua creatura, attraverso segni e simboli, cosicché la materialità nelle cose  risultava come consumata da questa presenza in esse della significanza divina.

Ma il linguaggio è costituito da concetti, che non possono far altro che collegarsi agli aspetti delle cose come esse si presentano nell'approccio empirico, aspetti articolabili ad altri aspetti in altre cose e spesso per ragioni diverse che esprimere la volontà di Dio; fu questa lettura, di lì a poco intrapresa da una nuova forma di pensiero, a far nascere un'altra scienza. Quest'ultima escludeva ormai i segni e i simboli del passato, incentrati non tanto sulla natura dei fenomeni quanto sui modi di esistere degli esseri e sui loro rapporti con i fini ultimi.

E venne un giorno in cui questa lettura esclusivamente tramite concetti fu sufficientemente ampia e coerente da essere ritenuta da molti l'unica realtà, il che produsse un gran numero di conseguenze.

Non più delle esistenze ci si interessava, infatti, ma di oggetti: non più questa massiccia quercia, qui e ora, tra i cui rami stormivano voci, ma la quercia cosa, oggetto di analisi e di manipolazione. Oggetti, non più essere. E tra questi oggetti era inevitabile che si venisse a porre anche la persona umana. Per dirla in altri termini: tutto divenne significazione, e tramontò negli animi l'esperienza del divino, il che non è forse grave, ma con essa purtroppo si eclissò anche la nozione di senso, quella che permette di chiedersi se la vita ha "un senso" o meno, se vale la pena di essere vissuta.

Yves Bonnefoy da "Il poeta e il fluire ondeggiante delle moltitudini" – Moretti & Vitali – Bergamo 2009

sabato 13 novembre 2010

Mercoledì 17 alle 20,30, il Café Philo di novembre. Tema: "Considero valore..."

A riscoprire dal '700 la bellezza dei Café Philo fu, nel 1992, il filosofo francese Marc Sautet. Luogo di incontro, il Café des Phares a Parigi nei dintorni di Place de la Bastille, l'idea, promuovere il dialogo filosofico inteso come libero scambio di opinioni. I temi affrontati possono essere i più vari e spesso seguire canoni non convenzionali.  Con i Cafè Philo, la Scuola Popolare di Filosofia intende aprire spazi di riflessione, di condivisione e, perchè no, di sviluppo di idee a partire dall'incontro di storie, di persone, di culture in una dimensione di generoso dono di sè.

Un inizio

Dopo che ho usato il trapano ho sempre paura di aver fatto dei danni. Non ho dimestichezza, col trapano. Me la cavo meglio coi cacciavite. I cacciavite a stella. I cacciavite a stella sono degli strumenti, da un certo punto di vista, stupefacenti. A parte il nome, che secondo me è bellissimo, cacciavite a stella, hanno una forza, lì, nella loro puntina. In quella crocetta. In quella specie di minuscola x che a farla girare tira su dei rimorchi, tra un po’.
E i chiodini per appendere i quadri? Con quella cravattina di plastica per tenerli, così non ti martelli le dita. E dopo, due colpi, e senza quasi che tu te ne accorga, il chiodo è già dentro il muro. Una specie di magia.

Come i coltelli per tagliare il pane. L’altro giorno, per la prima volta nella mia vita, a quarantasei anni, ho comprato un coltello per tagliare il pane. È una meraviglia, tagliare il pane con un coltello per tagliare il pane. Ci volevano quarantasei anni, per arrivarci? Si vede di sì.

Paolo Nori - mercoledì 20 ottobre 2010 www.paolonori.it

Perchè ritornare alle cose? Less is more. Nel mondo dei minimi sistemi, meno è più.
Non è una prospettiva minimalista. La speranza è che forse gli oggetti, i gesti, gli odori e rumori, le piccole cose poco importanti, quasi insignificanti riescano a curare il cuore del nostro mondo malato di megalomania, con la loro "aurea maturità" (Niezsche) rivelandosi un vantaggio, un più, un more.

sabato 6 novembre 2010

Una Storia Cinese



Un giorno l'imperatore chiede a Chuang-Tzu - il più bravo pittore della Cina - il disegno di un granchio.
Chuang-Tzu risponde: "Ho bisogno di cinque anni di tempo e di una villa con dodici servitori!". L'imperatore acconsente.
Dopo cinque anni si reca nella villa per vedere l'opera di Chuang-Tzu, ma scopre che il disegno non è ancora cominciato."Ho bisogno di altri cinque anni per finire il mio lavoro", dice Chuang-Tzu. E l'imperatore acconsente di nuovo. Dopo altri cinque anni torna nella villa per vedere se il disegno è pronto. Chuang-Tzu allora prende in mano un pennello e in un momento, con un solo gesto, disegna un granchio, il più perfetto granchio mai visto.


Una storia cinese citata da I.Calvino in Lezioni Americane, Garzanti p. 53

Festina lente, affrettati lentamente, era il motto di Aldo Manuzio (http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Manuzio) e torna utile oggi per cogliere in questa suggestione orientale una bella chiave di riflessione sulla dimensione del tempo.
 Lunedi 15 novembre parte il laboratorio di pratica filosofica "Metafore per orientarsi nella complessità".

La complessità delle situazioni che ci troviamo ad affrontare in ogni campo della vita appare, a volte, sopraffare la nostra capacità di giudizio e ci relega sempre più spesso al ruolo di spettatori perplessi e non di attori. Il Laboratorio propone un percorso di ricerca per entrare nella realtà con leggerezza provando a dare forma a ciò che apparentemente è inconciliabile.

Il laboratorio si articola in 8 Incontri che si tengono una volta al mese di  lunedi sera alle 20.00