giovedì 27 marzo 2014

La mano


Qualche tempo fa, non ricordo dove, mi sono imbattuto in una frase di Kant che diceva: "La mano è la finestra della mente". Anche lui, ho pensato. Le visioni, le intuizioni, le immagini mentali, quell'intrico di forme grezze che attraversano la mente di chi fa il io mestiere, e non solo, non affiorerebbero se non ci fosse la mano a dar loro una vita reale, concreta, visibile. Senza di lei rimarrebbero in una forma nebulosa, prossima all'inesistenza.

Parlando quindi di pittura o di disegno non si può non parlare della mano. La mano è ricca di crediti nei confronti del disegno e della pittura; ogni artista deve moltissimo alla propria mano. A volte guardandola mi chiedo: la mia mano pensa realmente? Realmente ha sapienza, esperienza, saggezza, una conoscenza propria? E' capace di vedere cosa sta avvenendo su un foglio o su una tela, è consapevole di quello che sta creando?

Qualche volta, finito di lavorare, mi capita di osservarla, e noto che ha ceduto qualcosa della sua forma naturale al mestiere che le ho imposto. A sinistra dell'unghia del dito medio delle mia mano destra si è formata una piccola cavità che accoglie e sorregge la matita o il pennello per tutto il tempo in cui lavoro. Un incavo, quasi uno scalmo che quegli attrezzi accoglie e tiene. Per me quella deformazione, appena percettibile, è un segno di adattamento e accettazione di una fatica che quasi quotidianamente le chiedo di sostenere.

Quando la mia mano sfiora una superficie sulla quale sto per cominciare a lavorare, sento arrivarmi alla mente una comunicazione che mi dice se quella superficie mi piace, se mi può accogliere, se mi ci posso avventurare. Forse, succede quello che dicono capitasse agli scultori che, sfiorando la superficie di una pietra, sentivano se vi potesse esser accolta e contenuta un figura di loro invenzione.

E' la mano a creare immediatamente questa relazione tra la superficie, su cui si svilupperà la vicenda di quell'opera, e me, la mia mente, i miei territori più interni. La mia immaginazione può cambiare reagendo al contatto con quella superficie.

Tullio Pericoli, Pensieri della Mano, Adelphi, Milano, 2014

martedì 25 marzo 2014

Desolazione

I paesi lasciati dai loro abitanti non restano vuoti, vengono invasi dalla desolazione. La senti appena arrivi, la senti se fai la scelta di andare in un giorno qualsiasi, non quando c’è la festa del patrono, non ad agosto, quando il paese si abbiglia come un villaggio turistico. La desolazione è una cosa nuova per i paesi. Prima c’era la miseria. Arrivavi e vedevi case fatiscenti, strade di polvere o di fango a seconda della stagione, vedevi i bambini che giocavano tra la merda degli asini e dei maiali, i vecchi con le coppole e le mantelle, le donne con gli scialli, un mondo assai simile a quello mirabilmente descritto da Carlo Levi. E questa visione è durata per millenni, praticamente fino alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso. Poi la modernizzazione, la rottamazione della civiltà contadina ha fatto posto a una modernità posticcia. In questo passaggio è andata via la miseria materiale ed è arrivata la miseria spirituale. Il paese non è più povero, ma è abitato da gente rancorosa, maldicente, abituata a fallire la propria vita e a far fallire la vita degli altri. È arrivata la stagione dei disertori, di quelli che non sapendo andarsene lontano hanno deciso di voltare le spalle al paese e di farsi la casa in periferia. Così quando arrivi al centro sei dentro un curioso effetto vuoto. Oggi i paesi hanno il buco al centro. La gente abita l’orlo dove è più facile farsi la casa grande, dove puoi arrivare nel tuo domicilio senza scendere dalla macchina. Un paese oggi è un luogo che ha più case che abitanti e questo è il principale motivo della desolazione. È una desolazione particolare, capace di infonderti anche un lieve senso di beatitudine se hai i sensi spalancati e capisci che in un paese c’è sempre tanto per chi ha due minuti di vita tra le dita, uno per sé e l’altro per il mondo, per chi sente l’urgenza di allontanarsi da tutto e di avvicinarsi a tutto. Un’osservazione intensa e clemente del mondo esterno produce benefici effetti sul tuo spirito. Vai per vedere un paese, ma alla fine è il paese che ti vede, dice qualcosa di te che non sa dirti nessuno.

Franco Arminio


http://www.doppiozero.com/rubriche/9/201102/desolazione

lunedì 24 marzo 2014

Fondamenti

L’attrazione che l’Oriente esercita su molti occidentali è in buona misura spiegabile da una condizione che diffusamente caratterizza l’umanità contemporanea: cioè la crisi più o meno conclamata, ma ovunque dilagante, delle tradizioni religiose. Le culture spirituali dell’India paiono infatti venire incontro a un’esigenza di ricerca personale che prescinde dalla tradizione, in cui ci si mette interamente in gioco in prima persona. Il che può essere considerato frutto di un equivoco, se pensiamo che in India in realtà la tradizione non ha conosciuto la frattura che invece caratterizza l’Occidente, ma sotto un altro aspetto non è del tutto fuori luogo, pensando che quello che si assume per lo più come riferimento, cioè le Upanishad e il Buddhismo, paiono effettivamente implicare una crisi nella tradizione vedica, che apre la strada a una ricerca più interiore.

Si potrebbe però a questo punto  rendere del tutto esplicito il confronto con ciò che, all’incirca nella stessa epoca, accadde nella cultura greca antica, dove pare essersi verificato un analogo spostamento dalla tradizione condivisa alla ricerca personale: uno spostamento da cui sembra aver avuto origine la filosofia occidentale, lungo un percorso che va da Socrate al moderno Esistenzialismo. Si tratta di un percorso destinato a intrecciarsi, come ad esempio mostra Sant’Agostino, con la nuova tradizione religiosa in cui l’Occidente viene identificandosi, non senza il ricorrente impulso a ripudiarla: quella ebraico-cristiana.
Il confronto ha naturalmente senso in rapporto a un problema che sicuramente affligge l’umanità contemporanea, ma potrebbe essersi già configurato in tempi antichi: cioè l’imporsi di una concezione oggettivistica, quale si dispiega soprattutto nella scienza moderna. Tale concezione smembra infatti la complessità delle relazioni umane e cosmiche entro cui la realtà si trova di volta in volta definita nelle visioni tradizionali, riducendola a entità stabilmente controllabile, ma al prezzo dell’oblio del soggetto umano. Un oblio che, per contrasto, ricorrentemente suscita il richiamo a soggettività arbitrariamente creatrici, come nel percorso che si sviluppa dalla Sofistica a Nietzsche, che portano alla luce il nichilismo che nell’oggettivismo è implicito.

Ne deriva che ciò che in Occidente è normalmente inteso come filosofia, e in Oriente mostra chiaramente la sua natura spirituale, mira a suscitare la consapevolezza del presupposto rimosso, senza peraltro ridurlo a entità a sua volta oggettivabile e reificata. Sotto questo aspetto il conosci te stesso socratico e la domanda vedantica chi sono io? hanno lo scopo di riaprire una comprensione più complessa dell’esistere, in tutto analoga a quella della tradizione e perciò in grado di ricongiungersi con essa.


Più che contrapporre l’Oriente all’Occidente, si tratta dunque di riprendere una profonda e universale esigenza umana di ricerca intorno al senso della vita. Una ricerca che, in scenari tecnologici sempre più totalizzanti come quelli attuali, diventa urgente forse più che in qualsiasi altra epoca. Una ricerca che non può trovare appagamento in nozioni estrinseche, ma solo in un’esperienza autentica, che generi cambiamenti personali per i quali tradizionali metafore come salvezza o liberazione risultino appropriate. Una ricerca che può fondare il senso di una comunità fraterna.


Tratto dall'editoriale della Newsletter n° 94, Giovedì 13 Marzo 2014 dell'associazione Interdependence Via Vittorio Emanuele, 13 - 10074 Lanzo Torinese (TO)

giovedì 20 marzo 2014

Attitudine filosofica


Un silenzio ha dovuto sempre precedere e persino originare l'attitudine filosofica, e stabilirla fino a trasformarla in un'attitudine determinante. Poiché ciò che caratterizza il filosofo non è già il darsi in lui dell'attitudine, ma il mantenerla, analogamente a quanto accade con qualsiasi altra attitudine (poetica, politica). "Tutti gli uomini hanno per natura desiderio di sapere" - appetito, diremmo - si legge in Aristotele. Non tutti però alimentano e formalizzano questa fame.

In quello sradicamento dal luogo comune che un'attitudine filosofica comporta, il soggetto corrispondente deve avere qualcosa cui rimettersi. Senza un rimettersi un distacco non si dà. Quando si tratta però di qualcosa che si cerca, del sapere che si cerca, rimettersi a esso, a ciò che si cerca, è già una forma molto specifica del trascendere proprio dell'essere umano, e, nel punto di partenza si verifica senza dubbio un'incompatibilità.

Dire incompatibilità è un modo molto blando di esprimere l'impossibilità di continuare a vivere, se si continua così,  nella comunità in cui ci si è trovati. Sarà però possibile risolverla andando in cerca di un'altra comunità o società, come in effetti hanno fatto tanti avventurieri, conquistatori e guerrieri? Questo sarebbe semplicemente spirito di avventura Anche se  non è poi così semplice, dato che nello spirito di avventura si entra quando l'avventura ne vale la pena, quando si spera di raggiungere il meraviglioso. 


(...)

La filosofia mediatrice, come l'amore, nata dall'ignoranza e dal sapere, originata dall'entusiasmo, è un delirio, un'ispirazione, un'irreprimibile possessione, ci dice Platone. Una passione, perciò, una passione che conduce alla morte, a una vita, a una conoscenza. Un'obbedienza. E l'"appetito" che dice Aristotele non infrange per nulla quest'obbedienza poiché sfocia nel massimo conseguimento di ciò che si appetiva: in un ordine, coniugazione di movimento e immobilità, circolazione della luce senza intralci. 

E', dunque, molto di più di quel rimettersi di cui parlavamo ciò che Platone ci offre: è una possessione ispirata che può persino farci dimenticare che si abbandona la casa del Padre. Poiché quest'ispirazione e questo sapere che lascia indietro se stesso, quest'ignoranza che accoglie e che è ben disposta a ricevere questo sapere, sono al di la di qualsiasi giustificazione. Ed è chiaro che soltanto ciò che è al di là di qualsiasi giustificazione giustifica. In questa luce tutta la moderna giustificazione del filosofare e persino del pensare appare fatica sprecata. Si sono persi di vista, forse, l'ispirazione e il sapere che si spande sopra l'ignoranza e l'ignoranza  che accoglie il sapere? Ed è rimasto soltanto qualcosa che non si giustifica, né aspira  a farlo. (...)

La domanda giustificava e giustificatrice, giustificazione essa stessa, cela qualcosa che la muove, la presenta e anche di più: la origina. Qualcosa che si occulta, quand'anche si palesi; un punto fisso. Un solo punto, all'inizio, che va ampliandosi, crescendo, rappresentandosi, fino a trasformarsi in un autentico personaggio. In questo caso l'Io, l'Io. L'Io che si dichiara in ogni dubbio metodico. l'Io che agisce in ogni dubbio ostinato, quand'anche manchi di metodo, quand'anche, al contrario, con la sua ostinazione ostruisca il cammino, copra l'orizzonte.

Maria Zambrano "I Beati";  SE Testi e Documenti 2010

giovedì 13 marzo 2014

Le "città invivibili"


"Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili"

Italo Calvino, conferenza del 29 Marzo 1983 alla Columbia University di New York

« È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra.» 
(…)

«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» 

Italo Calvino, Le Città Invisibili, 1972

venerdì 7 marzo 2014

Addio a Carla Accardi


«Un temperamento,» si potrebbe dire di Carla Accardi, che è morta, ieri, a Roma, dove da un certo tempo era come annebbiata dalla malattia della vecchiaia (era nata a Trapani nel ’24). Un suo credo: trovare la trasparenza, in tutto. Uscire anche dalla gabbia della pittura, pur di lasciar galleggiare la libertà del pensiero e dei suoi meccanismi analitici annodati. «L’interesse per me era la trasparenza, infatti si vedeva il telaio. Volevo rendere trasparente quello che era intorno a noi». Anche politicamente, persino con il Partito-Moloch, preoccupandosi poco delle rampogne di Trombadori e le scomuniche di Togliatti-Roderigo de Castro. Che faceva pure il critico d’arte zdanoviano, e tuonava contro l’astrattismo borghese. «No, non eravamo preoccupati delle scomuniche», condannati perché il popolo non poteva seguire il linguaggio elitario delle avanguardie astratte. «Eravamo arrabbiati», proprio come gli Irascibili americani, che facevano scuola, Rotkho, Franz Kline e il Pollock da lei molto amato. «Arrabbiati. Perché volevamo rinnovare, volevamo fare una cosa». «Fare». E fare il «sogno» di una cosa, in senso pasolininano: la rivoluzione, ma sotto una bandiera impregnata di pittura. L’Astrattismo (mondiale) come stella cometa: Klee con Fontana, Mondrian con Magnelli, sirena parigina. Epigoni, forse, ma reattivi, indomiti, inconciliati. «Noi pensavamo che non si può avere un’arte che ha come contenuto sempre l’uomo, la figura dell’uomo. L’arte può essere e deve essere come la musica». Come per Matisse, su tutti. Con i suoi racemi bicolori, i suoi arabeschi che annullano gli sfondi cancellando le figure, la geometria del cuore. Lei lo sapeva, ma non voleva troppo ammetterlo: non tollerava padri. Volitiva, vitale, simpatica.

L’’incontro decisivo è con l’altro siciliano, che è scappato dall’isola contemporaneamente a lei, il geniale ed influente Antonio Sanfilippo, che presto diventerà suo marito (ma tenuto alle redini). E di cui certo lei non può, posteriormente, negare l’influsso -sia pur sottolineandolo, sempre, come pianeta parallelo. «Avevamo stesse idee ma con caratteri diversi. Avevamo anche due studi diversi. Come studente era più avanti di tutti noi, ognuno aveva il suo modo di pensare e di lavorare. Certo che ci può esser stata della competizione, ma ognuno ha seguito la sua strada, che a un certo punto sì è completamente separata. Diverso il modo di lavorare, le amicizie, i galleristi». Con Sanfilippo, Turcato, Ugo Attardi (che tralignerà di nuovo verso il figurativo) Dorazio, Perilli e Consagra, fondano insieme Forma 1 che è la risposta astratto-geometrico e soprattutto segnica all’engangement comunista di Guttuso. Lei soprattutto, penelope riottosa, cerca di evadere dalle forme chiuse della pittura, convinta che: «Non si può stabilire alcuna ricetta per fare un quadro».


Legata al coraggio spaziale di Fontana e Burri, rovescia la tela, mostrando il telaio ed infrange la sicurezza della cornice. Crea delle tende trasparenti e degli ombrelli, che influenzano l’Arte Povera di Merz e di Gilardi. In fondo è rimasta la ragazza ribelle d’una storico scatto di Mulas, distesa a terra come un’odalisca di Matisse, con un chiassoso abito stampato e qualcosa d’antonioniano addosso, in una posa molto silvanamangano. Accasciata sulla stuoia dello studio-salotto, mentre rannuvola a terra la sua jamensiana «cifra nel tappeto». «Questi grandi quadri li facevo per terra, come tutti i miei quadri, sì, erano lunghi da fare, ripetitivi, come delle stoffe, come fare un tappeto». Ma è proprio quella riottosa «pazienza» sovversiva, che riempie la sua vita di segni e di gesti indecifrabili. Ma disperatamente, golosamente comunicativi. 

marco vallora
La Stampa 23/02/2014

L’errore signore dell’universo


L'errore è una questione di interferenza; una forza agisce su un'altra e la devia dal suo cammino; e poiché nel mondo (e nell'universo) ci sono tante forze in azione, si può dire che ci possono essere solo errori.
Ma come può Dio Onnipotente aver fatto a un certo punto del tempo (o del non tempo) un errore? Beh, l'errore è sempre un'interferenza di forze; dunque immaginiamo Dio assopito, miliardi di miliardi di anni. Sognava? No, non sognava, era imbambolato, non ancora nella fase Rem, che è piena di sogni; era in quel dormiveglia demente che somiglia a uno stato di anestesia. Poi cosa è successo? Un'esplosione, dicono, quindici miliardi di anni fa. L'ipotesi che oggi prevale è che Dio avesse accanto una bombola di gas, cioè non di gas molecolare come il metano o il propano, ma di plasma supercompresso che ha un rendimento rispetto al metano molto superiore, anzi, massimo, Dio va pensato come un super ricco che ha sempre il meglio. E poi dicono che Dio stesse fumando, cioè si era addormentato con la sigaretta in bocca, non si sa quando, prima del tempo. Dio era un gran fumatore, lo era sempre stato, accanito, ed essendo onnipotente fumava una sigaretta che non finiva mai, la brace sempre nello stesso punto, e lui che tirava una boccata eterna, senza far sosta per espirare.
L'obiezione è: se era onnipotente come mai non aveva smesso di fumare con un atto onnipotente di volontà? La risposta è che Dio era a favore del fumo, sia nei cinema che nei locali pubblici, nelle scuole, in autobus; ossia Dio non riteneva che il fumo fosse nocivo; infatti teneva sempre una sigaretta pendente dalle labbra, come si vede che fanno i gangster nei film, e in più dormiva. Ora si sa che dormire con la cicca in bocca è pericolosissimo; Dio era anche onnisciente: come mai non lo sapeva? Beh, la risposta è che lo sapeva ma se ne fregava, cioè era un irresponsabile, ed è logico che lo fosse, non aveva famiglia, figli; l'avrà poi un figlio da mantenere, disoccupato, adottato da altri, perché lui, Dio onnipotente, non si curava molto dei figli, li lasciava delinquere e sproloquiare; e quindi col metro umano era un asociale, e fumava senza riflettere sui danni alla salute sua e dei circostanti col fumo passivo. Dunque dobbiamo immaginare Dio semi sdraiato, con la cicca in bocca, solo in tutto l'universo, tranne la bombola di gas vicino a lui. Come mai c'era la bombola? Beh, l'ipotesi oggi più accreditata è che gli universi fossero due, in uno c'era Dio che fumava, nell'altro c'era una bombola. Come mai una bombola? è stato detto. Beh, è stato risposto, era la forma della divinità dell'altro universo, dove credevano in una bombola, non ci trovo niente di male, ci sono universi che credono in un maritozzo, che credono in una cipollina sott'aceto, ogni universo ha il suo simbolo, e quando si contrae si riduce a questo; per cui galleggiano nell'infinito questi oggetti incomprensibili, una cassapanca, un paio di forbicine da unghie, un filo di nailon.
Dunque nel nostro caso i due universi hanno interferito, qualcuno aveva lasciato la bombola aperta (dicono sia stato il demonio, che abitava un terzo universo ed era disordinato e distratto); fatto sta che quando a Dio è caduta la cicca di bocca c'è stata un'immane esplosione, circa quindici miliardi di anni fa, cioè il nostro universo è nato da un errore, l'hanno anche chiamata fluttuazione quantistica, che si poteva evitare, certo, se qualcuno svegliava Dio dal suo torpore, ma non c'era nessuno, neanche un segnalatore automatico di fughe di gas, Dio abbiamo detto che era un irresponsabile, ma d'altronde non poteva immaginare di avere vicino una bombola, era sorta da un'interferenza, e le interferenze sono all'origine di tutti gli errori. Se Dio avesse fumato in solitudine, che poteva succedere? Niente. Qualcuno dice un tumore ai polmoni. Ma non è provato ci sia un rapporto di causa effetto; Dio l'avrebbe saputo, sarebbe passato alla pipa, o alla sigaretta elettronica. Se non l'ha fatto, nella sua onnipotenza, significa che fumare per lui non era dannoso; anzi, magari gli faceva bene, che ne sappiamo noi di Dio, metafisicamente? Ha i polmoni? i puri spiriti hanno i polmoni? o una vescichetta di galleggiamento? o sono anfibi? Niente! Non se ne sa niente.

Comunque abbiamo appurato che all'origine c'è stato un errore; e poi nell'errore si è continuato. La Terra ad esempio lanciata nello spazio a 113mila chilometri l'ora andrebbe in linea retta per sempre, se la forza del Sole non la tirasse a sé; per cui si è arrivati al compromesso che la Terra al Sole ci gira attorno, cioè è in uno stato reiterato e continuo di errore. Da questo errore ne ha dei benefici, ad esempio viene scaldata a spese del Sole; ma se viaggiasse in linea retta nello spazio nero, potrebbe scaldarsi in maniera più autarchica con il suo nucleo incandescente; i mari potrebbero essere caldi grazie ai vulcani sottomarini, circa trenta gradi (i vulcani sono però un errore rispetto all'uniformità della crosta, come i brufoli); l'atmosfera sarebbe tiepida, e il tepore mantenuto da nubi permanenti che fan da soffitto, o involucro atermico. Non vedremmo le stelle; poco male … ci sarebbe buio, cioè non usufruiremmo delle onde elettromagnetiche nella gamma del visibile dispensate dal Sole; anche qui poco male; avremmo sviluppato un sistema percettivo come i pipistrelli, cioè un sonar, col quale avremmo una visione analoga, leggermente rallentata per gli oggetti lontani; sono sicuro che ci troveremmo bene, autonomi, in linea retta nello spazio, sempre giorno (perché il sonar non ha bisogno di luce esterna), temperatura costante; anche l'uomo avrebbe le idee più chiare, sarebbe migliore, magari volerebbe, e le sue città sarebbero nate attorno ai vulcani, che producono acqua calda e varie sostanze, come zolfo, le automobili andrebbero a zolfo, o a idrogeno per non inquinare; ci fosse un monte come su Marte, il monte Olympus, alto 27mila metri; ci affacceremmo oltre le nubi, e da lì, con apparecchi sensibili alle onde elettromagnetiche, potremmo andare a vedere le stelle, che percepiremmo come suoni, ogni stella una nota, bellissimo, l'universo come un concertino, non ci sarebbe il concetto di panorama, di bel panorama, ma di concerto, che bel concerto! che vibrazioni!



Di Ermanno Cavazzoni  - Domenica 24 del 23 febbraio 2014