venerdì 2 agosto 2013

Dimenticare


Ti racconto un episodio. Un pomeriggio a Mantova di alcuni anni fa una scrittrice sudafricana presentava il suo libro. Si parlava di riconciliazione, della fine dell'apartheid. Dal pubblico venivano domande sulla politica, sulla storia. Poi una vocina, una donna minuta: «Sono una madre» dice, «come lei e sono israeliana. I nostri paesi hanno molte cose in comune. Mi chiedo tutti i giorni e le chiedo, come fa ogni sera a spiegare ai suoi figli che i cattivi siamo noi, che noi siamo il male». Silenzio. Più nessun discorso intellettuale sul ruolo della letteratura, più nessun proclama politico ottimista. Silenzio, Dragan, silenzio.

Aveva ragione Thomas Eliot a dire che «il genere umano non può sopportare troppa realtà». Dobbiamo fingere di essere diversi da quello che siamo, dimenticare, Dragan, dimenticare. E mentire.

Dimenticare significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sentire il peso del lavoro e della fatica dei nostri avi. Non sopportare le rughe della storia. Poggiamo i piedi sui frutti di quelle fatiche, ma alziamo gli occhi al cielo per non vederle.

Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine. Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio.

Dimenticare significa anche non avere niente davanti. Tutto finisce allo specchio, che rimanda indietro ciò che vede. Non c'è futuro. Il futuro è modifica del passato, in meglio o in peggio, ma è un cambiamento. A volte è rottura, è virata secca, ma per cambiare occorre un punto di riferimento. Devo sapere cosa voglio cambiare, per decidere come.
Dimenticare significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile. E già sarebbe triste, ma mentire, Dragan, mentire è ancora peggio. Vuol dire colorare quello sfondo nero di arcobaleno, dipingerlo di ciò che vorremmo essere. Truccare il nostro viso, come si fa con il computer, cancellarne i difetti, inventarci una storia, un volto, chiamare le cose con il nome di cose diverse. Dare spessore a ciò che non ne ha.

Sì, Dragan, tutti vogliamo essere buoni e per esserlo mentiamo due volte. La prima, quando diciamo di essere ciò che non siamo. La seconda, quando diciamo che gli altri sono come invece non sono. Perché, per sembrare buoni a noi stessi, abbiamo bisogno dei cattivi. Sono i buoni a decidere chi è cattivo e sono i più forti a credere di essere buoni, solo perché possono decidere chi non lo è.

Noi buoni, noi brava gente abbiamo bisogno di specchiarci negli occhi dei malvagi. E tu, Dragan, sei uno di loro. Abbiamo bisogno di te. Come quei greci che avevano bisogno dei barbari per sentirsi civili. «Erano una soluzione quella gente» ha scritto Costantino Kavafis.

Non importa se poi tu sei solo un bambino di undici anni, che abita in una roulotte, che va a scuola, magari non sempre, ma ci va. Sei una soluzione, Dragan.



Marco Aime, La Macchia della Razza - Storie di ordinaria discriminazione, Eleuthera, Milano, 2013