giovedì 26 settembre 2013

Il corpo è diverso da come si pensava



Ma con cosa credi di capire?
Con la testa? Bah!”
da «Zorba il greco»
di Nikos Kasantzakis

In una limpida mattina newyorkese dei primi anni ’80 fui invitato a casa da Rosemary Feitis – che conosceva il mio specifico interesse per il tessuto connettivo e le sue implicazioni – per provare una nuova forma di terapia craniosacrale apparsa di recente.
Le sensazioni provate durante la seduta erano state abbastanza interessanti, ma la parte più intrigante doveva ancora arrivare. Infatti quando mi rimisi in piedi sentivo testa e volto molto differenti da prima (e anche alquanto asimmetrici) e mi guardai allo specchio per verificare se le mie sensazioni soggettive avessero un qualche riscontro oggettivo.
Effettivamente l’occhio destro era molto più cupo e torvo ed il sopracciglio corrispondente decisamente più basso e chiuso (classici sintomi di una marcata torsione dello sfenoide, l’osso chiave di volta dell’intera struttura craniale). In quel momento mi sarei aspettato che il ribilanciamento dovesse passare attraverso un’ulteriore manipolazione, mentre l’imprevisto suggerimento di Rosemary fu qualcosa del genere: “Prova a ‘ribaltare’ indietro l’emisfero destro”.
Confesso che il primo impulso (e forse anche il secondo) fu quello di pensare a come avevo potuto non accorgermi, negli anni in cui ci eravamo frequentati e avevamo lavorato insieme, che fosse pazza. Considerato però che in precedenza aveva sempre dato prova di spessore e credibilità provai – con molto scetticismo, lo ammetto –, a fare ciò che mi sembrava una delle tante trovate new age che andavano di moda in quel periodo.
La sensazione interna cambiò radicalmente. “Caro vecchio amico placebo...”, pensai subito, certo che si trattasse di semplice suggestione. Salvo poi rimanere di stucco quando, trovandomi nuovamente di fronte allo specchio, notai una decisa riorganizzazione delle ossa craniche, ottenuta nel giro di pochi secondi e senza alcuna tecnica manuale, per cui la struttura del cranio era tornata simmetrica.
Oggi, grazie alle ricerche che nel frattempo sono state condotte sul tessuto connettivo, mi risulterebbe più semplice descrivere anche in termini anatomici e fisiologici come e perché si fosse potuto verificare questo cambiamento, ma ai tempi potevo solo pensare che o si era trattato di un’illusione, o il modo che abbiamo di pensare al corpo è molto diverso e assolutamente riduttivo rispetto alla sua effettiva realtà.
Lo studio del corpo e dell’anatomia per via esperienzale non mi lasciarono molti dubbi su quale fosse la risposta corretta. L’esperienza che avevo appena vissuto appariva estremamente bizzarra e stravagante rispetto alla mia formazione scientifica, ma al tempo stesso, e paradossalmente, quanto di più semplice, ovvio e naturale si potesse immaginare.
L’approccio esperienziale all’anatomia cambia radicalmente la comprensione del corpo. I primi anni che ho dedicato all’esplorazione del corpo in questo senso sono stati di vera e propria ri-programmazione delle conoscenze tradizionali.
Le cose stanno infatti in modo davvero molto diverso da come viene ancora insegnato nelle professioni mediche e paramediche. Buona parte dei paradigmi anatomici a cui facciamo riferimento non sono soltanto superati. Sono fuorvianti.
Questo ha permesso quindi di creare una continuità tra scienza ed esperienza, là dove nel caso di molte tecniche, prima esisteva invece un profondo canyon valicabile solo con la fede e l’adozione di linguaggi arcani o appartenenti a culture estremamente differenti dalla nostra.
Torniamo ad esempio al ‘ribaltamento’ dell’emisfero cerebrale citato nell’aneddoto iniziale: è ovviamente del tutto inspiegabile o enigmatico secondo la visione medica classica di un cervello inerte e insensibile sospeso in un liquido, chiamato cefalorachidiano, all’interno di una scatola, chiamata cranio. Vengono in mente quei vecchi film di fantascienza dove cervelli galleggiano in liquidi sconosciuti dentro scatole trasparenti.
Se invece pensiamo che il cervello è costituito per la gran parte da tessuto connettivo contrattile e sensibile (glia), coordinato dal sistema nervoso che ne ottimizza la forma e le caratteristiche a seconda delle necessità, l’idea di un cervello non meccanicamente passivo ci appare decisamente meno assurda di prima.
Ok, il corpo non è come pensavamo e allora? C’è un piccolo ma fondamentale corollario a questo fatto: se è possibile percepire in maniera precisa la diversa organizzazione interna che il corpo assume in relazione alle diverse situazioni, quello con cui ci ritroviamo non è solo un corpo diverso, ma anche un potente mezzo di indagine e di penetrazione della realtà e della cultura.
Corpo-Mente-Spazio-Cultura sono infatti in continua relazione e la possibilità di sentire e capire un polo (il corpo) ci permette di capire tutti gli altri.
Il mio senso di riconoscenza per l’anatomia esperienziale deriva proprio da questo. L’approccio esperienziale all’anatomia mi ha consentito infatti di iniziare un percorso professionale di ricerca che non ha “ribaltato” solo il mio emisfero cerebrale destro, ma anche tutta la mia comprensione della psicoanalisi e della psicoterapia, del nostro funzionamento psicologico e caratteriale, a partire dall’osservazione che pensieri ed emozioni differenti emergono da corpi differenti.
Mi ha dato gli strumenti per esplorare quelle che in precedenza erano le inafferrabili relazioni corpo-spazio, per cominciare finalmente a comprendere, sia esperienzialmente che teoricamente, le misteriose regole del “genius loci” o del “feng-shuei”. Per capire, sentendone l’effetto a livello fisico, le relazioni umane a un livello diverso da quello che ero in grado di cogliere prima. Per percepire con chiarezza perché i metodi tradizionali di insegnamento non possono che fallire e per individuare un possibile sviluppo di stili didattici diversi, neuro-ergonomici per l’organismo di chi apprende. Per notare come il nostro modo di vestire non cambia solo il nostro aspetto esterno, ma anche il nostro corpo e, di conseguenza, la nostra mente. Per rinnovare il rapporto con lo sport che, esaurita la passione agonistica, stava diventando un’occupazione sempre più noiosa e che invece si è rivelata una fonte inesauribile di piacere e interesse per le continue trasformazioni e opzioni che si aprono all’interno del corpo. Per riavvicinarmi e gustare a un altro livello tecniche corporee occidentali, come ad esempio il metodo Feldenkrais e la terapia cranio-sacrale, o orientali, come lo yoga e il tai-chi, che avevo praticato in precedenza e che avevo poi abbandonato. Per ritrovare interesse per i viaggi, grazie alla possibilità di leggere una cultura anche attraverso il corpo della popolazione di cui è espressione. Per avere una nuova chiave di lettura delle relazioni tra la politica, il corpo dei suoi leader e quello dei loro elettori. Per percepire le malattie non come guasti accidentali dell’organismo causati da virus, batteri, sfortuna, genetica o altro, ma come esito naturale di specifiche organizzazioni e strategie fisiche e culturali. Per riscoprire forme sofisticate di medicina, come quella tradizionale cinese, quella ayurvedica e quella omeopatica – il cui studio avevo finito per trascurare perché mi sembrava diventare sempre più un atto di fede – mentre ora risultavano espressione chiara e naturale di quel nuovo intendimento.
Mi ha permesso infine di cogliere che la spiritualità sentita – la percezione che tutte le persone e le cose del mondo si appartengono e sono legate insieme (res-ligo, da cui la parola religione) – non è l’esito di un allontanamento dal corpo, quanto invece di un incarnarsi più profondamente in esso.

Jader Tolja
Dalla postfazione al libro di Bonnie Bainbridge Cohen,  Sensazione, Emozione, Azione - Somatica Edizioni, 2011

venerdì 20 settembre 2013

In un lago di segni

Eh, attento agli specchi!

La moltiplicazione è in agguato! Stormi di specchi volano intorno agli umani. Starnazzano e ci sfiorano con l'ala. Ci spiano. Segno e specchio forse sono nati insieme.

Gli umani sono animali che vivono immersi in un lago di segni, si cibano di segni, respirano per mezzo di segni; e tutto questo forse in virtù di una remotissima esperienza speculare.

Stai attento a quanti specchi, dovunque ti giri: in casa, per le strade, ma anche nella filosofia, nell'arte, nei sogni, negli incubi.

Sferoidi riflettenti sono le microscopiche gocce di pioggia che, innumerevoli, fanno aprire a ventaglio la magarìa multicolore degli arcobaleni. Specchi a migliaia si annidano nei caleidoscopi, nelle sfaccettature di un brillante che accende l'incavo di un seno femminile, nei telescopi più grandi del mondo, nelle fibre ottiche su cui si ramifica il sistema della comunicazione planetaria, nei centomila teatri dello spazio é della mente.

Troppi. Anche solo l'idea di elencarne una minima parte è assurda.

Persino la parola pensare allude a qualcosa di specchiante. Pensare e tradurre il pensiero in linguaggio: quanti specchi! Già il dire io sono, cioè "assistere" alla mia esistenza e saperla in qualche modo identificare, è qualcosa che avviene nel magico mondo degli specchi. Se dico io sono, lo dico grazie al linguaggio articolato, ma prima ancora lo dico (e lo penso) grazie alla mia capacità di riflettere sulla mia esistenza, sul mio starmene a pancia all'aria nel mondo.

Gli umani hanno questa straordinaria prerogativa: possiedono uno specchio conficcato e compresso nel cervello. Sono insomma capaci di "guardare" se stessi mentre esistono. (E in questo, forse, sono a loro volta riflessi di un'intelligenza divina).

È la coscienza, "scienza di sé".

Speculare, riflettere: sono queste le parole che si riferiscono all'esercizio del pensare, a quello che insomma fanno i teoreti nella loro quotidiana attività lavorativa... Ri-flettere: ecco la divaricazione da cui sgorga il pensiero, il divertimento metafisico dell'essere. Guardare dall'esterno quello che avviene all'interno. Io penso me stesso mentre penso. E comincio a segnare il breve giro di compasso del mio essere me.

Ed è da qui che nasce lo sconquasso: la scoperta e l'esperienza dell'identità finisce col diventare problema tormentoso, se non addirittura un dramma. 

Appena scopro la mia identità, comincio a ficcare paletti tutt'intorno, a circoscrivere il campo, comincio a creare una caterva di distinzioni. Attraverso la percezione dell'identità, scopro l'alterità, il diverso, il plurale. Altri specchi.

Ma forse tutto l'universo sonnecchia come una balena pigra, sospeso e poggiato su se stesso. Guarda se stesso e pensa. Riflette.

"Allora questi concepì il pensiero 'possa io essermi', e mentre pregava si mise in moto" (Upanishad).

(Intorno ad esso una quantità incalcolabile di non-universi, quello che a occhio e croce i teologi e i bimbi chiamano ingenuamente il nulla. Il nostro mondo se ne sta pigro e disteso davanti a questa specie di invisibile mare e riflette).


Alfonso LentiniPiccolo inventario degli specchi, edizione Nuovi Equilibri, Viterbo, 2003, Pagina 93

lunedì 16 settembre 2013

Paolo Nori su uguali e diversi, un mondo fatto coi piedi,il sacro...


domenica 15 settembre 2013

[metto qui sotto…un pezzettino del discorso che ho fatto ieri a Roma, alla festa di Left, come introduzione a un dibattito del quale però io ho poi sentito solo dieci minuti perché, quando hanno cominciato a parlare di come son stati bravi a Molfetta a non far l'alleanza con l'Udc, sono andato a letto]

E un’altra cosa che non mi convince è l’atteggiamento generale, di alcuni dei politici nuovi, perché questi politici nuovi, in sostanza, quello che dicono, mi sembra, è che loro son diversi, dagli altri, cioè dai politici vecchi, solo che anche gli altri, quelli vecchi, dicono di essere diversi dagli altri, sia dai nuovi che dai vecchi altri da loro, allora dei politici veramente nuovi, mi sembra, quello che dovrebbero dire è che loro sono uguali, agli altri; non li voterebbe nessuno, però, probabilmente e si perderebbe così l’unica occasione di votare veramente il nuovo, la gente ha tanta voglia di nuovo, ma a parte quello, che pazienza, la cosa che mi convince meno, in questo fatto di proporre se stessi come diversi dagli altri, come: bravi, in sostanza, è che, necessariamente, questo fatto consiste nell’essere soddisfatti di sé e a me mi vien da pensare a una frase di Čechov, alla fine di un racconto che si intitola Uva spina, che è un racconto dove il protagonista è contento del pessimo vino che fa dall’uva spina e questo, scrive Čechov, è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza. A me, ho studiato russo, e mi piacciono i russi, e capisco Turgenev quando dice: «L’uomo russo è buono soprattutto per il fatto di avere di se stesso una pessima opinione», e io, in una cosa del genere, mi ci trovo, e per uno che è soddisfatto di sé ho un’istintiva diffidenza, mentre per uno che ha, di sé, una pessima opinione, ho un istintivo rispetto.

Un paio di anni fa un mio amico che lavora alla galleria d’arte moderna di Modena mi ha chiesto un testo per una mostra che facevano loro sul sacro e io ho cominciato un po’ a ragionare sul sacro e ho pensato che quello che manca, nelle nostre, come dire, vite, si fa fatica anche a pronunciarle, queste parole, La mia vita, per non parlare della morte, La mia morte, La morte di mio babbo, e anche La morte, da sola, ecco io ho pensato che quello che manca, forse, a parte le autorità, che son sparite, non ci sono più, c’è stato un momento che ci sono state, forse, oggi non c’è più nessuna autorità, a parte quello, che quello lo sappiamo, oggi, forse, quello che manca, mi è venuto da pensare, è il sacro, quel che abbiamo di sacro, ma non quello che c’è dentro la testa, che lì ciascuno ha la propria testa, che per uno è la patria, per uno è la famiglia, per uno è la legge, per uno è la libertà, per uno è Dio, quanto spazio prende Dio, nei miei discorsi, io non parlavo dei discorsi, parlavo delle vite, dei nostri momenti, quando il mondo, si fa fatica a pronunciarla, questa parola, Mondo, quando il mondo ti dà una botta, come se ti dicesse che esiste, come se ti tirasse fuori dai tuoi pensieri, come se ti tirasse la giacca, se tu avessi una giacca, e ti si manifestasse, nel senso che è lì, e c’era anche prima, e tu te l’eri scordato, e ti accorgi che suona, il rumore delle sfere, che delle volte si va a nascondere in cose minuscole, in momenti che non l’avresti mai detto, come quando stendi il bucato, e poi esci e torni a casa e senti odore di sapone di Marsiglia, o come quando hai un computer nuovo e stai caricando il programma di scrittura, o come quando sei in giro, in centro, con tua figlia, e ti volti a vedere se è dietro di te e la vedi e ti vien da pensare “Ma com’è bella”, o come quando firmi un contratto di allacciamento del gas, o quando vedi che gli alberi sono diversi e pensi L’autunno ha cambiato il giardino. Tutte le volte che ti svegli che hai fame. Quando senti qualcuno che sta attento a quello che dice. Quando ti rammendi le tasche della giacca. Quando si beve il primo vino dell’anno, hai vent’anni, e sembra un succo di frutta, sì e no cinque gradi. Quando stai per lasciare l’appartamento nel quale hai abitato tre anni, fai l’ultimo giro e trovi il mozzicone di candela che avevi usato il primo giorno che c’eri entrato, che non ti avevano ancora attaccato la corrente. Quando stai stendendo i panni e ti sorprendi a cantare. Quando sei in giro, al mattino, per il centro, e tutti i posti in cui devi andare sono ancora chiusi, e entri in un bar, e ti ci fermi mezz’ora, e ci trovi una folla di pensionati che gira intorno ai quotidiani come i bambini, con la bella stagione, intorno alle altalene dei giardini pubblici. Quanto tuo babbo ti chiama Ligera, hai tre anni, e tu pensi che voglia dire cravatta, e sei contento che tuo babbo scherza con te. Quando esci da lavorare, hai sedici anni, hai fatto otto ore in un prosciuttificio, e adesso vai a casa, e se così contento che ti strapperesti i capelli. Quando sei a letto, e sei stanco, e dici alla tua gatta, che ha quattordici anni, Vieni qui, e la gatta vien lì. Quando sei sulle spalle di tuo nonno, e fate una gara di corsa, e tu e tuo nonno vincete, e tu eri il più piccolo e non vincevi mai. Quando su per una salita, sull’appennino, è notte, hai ventisei anni, sei a piedi, per mano a una ragazza, e voltate l’angolo della strada e c’è un mare di lucciole, e non è normale, tutte queste lucciole, dev’esser successo qualcosa. Quando tagli il pane, certe volte. Quando sei da solo, e ti apparecchi. Quando parli e ti sembra di sentire la voce di tuo babbo, che è morto da undici anni.

Ecco. Quelle cose lì, secondo me, che sono le cose che mi parlano a me, sono tutte cose che mi parlano della mia debolezza e io, non ne so niente, ma ho l’impressione che un modo bello di cambiare le cose sarebbe bene che non partisse dalla presunzione che noi siamo bravi, ma dalla consapevolezza che siamo deboli, difettosi, insignificanti, e io ho l’impressione, magari mi sbaglio, ma ho l’impressione che la nostra debolezza, la nostra insignificanza, i nostri difetti, siano le cose più importanti che abbiamo e che abbiamo bisogno di quelle, non abbiamo bisogno di supereroi, e mi viene in mente una cosa che ha scritto lo scrittore americano Kurt Vonnegut che una volta ha scritto: «C’è un tragico difetto nella nostra preziosa Costituzione, e non so come vi si possa rimediare. È questo: solo gli scoppiati vogliono candidarsi alla presidenza. Ed era così già alle superiori. Solo gli alunni più palesemente disturbati si proponevano per fare i rappresentanti di classe», ha scritto Vonnegut, e io, probabilmente sono io, che me ne intendo poco, ma uno che le cose si propone di cambiarle dall’alto della sua infallibilità, o della sua superiorità morale, io, mi rendo conto che probabilmente sono io, ma io, se si parla per esempio di trasporto pubblico, a me piace la Russia, e se penso alla Russia che ho conosciuto io, mi viene in mente una volta che dovevo prendere un filobus, a San Pietroburgo, sulla prospettiva grande dell’isola Vasilevskij, sarà stato il 1996, pioveva, sono entrato sul filobus, era pieno, dappertutto, tranne un tondo di un metro di diametro che era vuoto perché in alto, sul soffitto, se così si può dire, c’era un buco. Allora loro cos’hanno fatto, i russi, hanno fatto un buco anche sotto, sul pavimento. E l‘acqua passava. E il filobus andava. E questa per me era la Russia e, con tutti i suoi difetti, era bellissima, e c’è uno scrittore russo che si chiama Sergej Dovlatov che una volta ha scritto: «Purtroppo non ci sono dati statistici certi su quali siano, in russo, le parole più o meno usate. Cioè tutti sanno, chiaramente, che la parola «merluzzo», per esempio, è significativamente più usata della parola, per dire, «sterletto», e la parola «vodka», diciamo, è più usuale di parole come «nettare» o «ambrosia». Ma di dati certi, ripeto, a questo proposito, non ne esistono. E è un peccato.
Se dati di questo genere esistessero, ci accorgeremmo che, per esempio, l’espressione «è un lavoro fatto coi piedi» è una delle espressioni più usate, in Unione Sovietica».


Ecco, a me un mondo fatto coi piedi così, non so perché, ma mi piace, mi sembra un mondo consonante con i nostri difetti, se così si può dire, e, se dovessi indicare, con tutta la mia insipienza, una regola, una direzione verso la quale muoversi, non saprei indicarla e ne prenderei a prestito una che ha individuato sempre Kurt Vonnegut, quando ha incontrato Joe. «Joe, – ha scritto Kurt Vonnegut, – un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!».

www.paolonori.it

venerdì 13 settembre 2013

La fine del mondo



Esiste una teoria secondo la quale se qualcuno scoprisse
esattamente il motivo di essere dell'Universo e perché esso sia
qui, quello istantaneamente scomparirebbe e sarebbe sostituito
da qualcosa di ancora più bizzarro e inspiegabile. Esiste poi
un'altra teoria secondo la quale tutto questo è già accaduto.

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, 2000


Il più grande spettacolo dopo il Big Bang cominciò senza preavviso. In un'epoca primordiale che nessuno ricorda, un bolide roccioso di dieci chilometri di diametro si affacciò dallo spazio profondo e piombò in mezzo al mare, al largo della costa dello Yucatán. Una scia di fuoco illuminò ogni cosa. Fu come se milioni di bombe atomiche scoppiassero in un sol colpo, deflagrando nella più potente esplosione di tutti i tempi. In un battito di ciglia un'enorme palla di luce, più incandescente del Sole, vaporizzò l'oceano, aprendosi un cratere di 180 km di larghezza nella crosta terrestre. La superficie del pianeta si increspò e il fronte sismico fece più volte il giro del globo, innescando terremoti in ogni dove. L'onda d'urto si propagò a 30 km al secondo radendo al suolo in pochi attimi un'area grande come il Nord America. Tsunami colossali si alzarono per centinaia di metri, si misero a correre in tutte le direzioni e nelle ore successive si abbatterono sulle coste fino in Europa e in Africa. Le correnti d'aria impazzite fomentarono enormi uragani. L'atmosfera fu squarciata dall'alto e centinaia di trilioni di roccia fusa furono scagliati di rimbalzo nei suoi strati più esterni. I cieli si addensarono di rosso fulvo, di fuliggine e cenere. Ben presto le polveri velenose impregnarono l'aria e schermarono la luce del Sole in ogni angolo della Terra. Il primo trauma durò poco perché dal buio ridiscese ben presto un inferno di fiamme. Le rocce schizzate in atmosfera nell'esplosione furono di nuovo attratte verso il basso e cominciarono a piovere, infuocate, sulla superficie, disseminandola di incendi devastanti. Questi aumentarono ulteriormente la quantità di fumo e di polveri nell'aria. Un quarto della materia vivente venne ridotta in cenere. Foreste, boschi e praterie furono carbonizzati su tutti i continenti. Poi, con l'oscurità, il freddo prese il sopravvento. Le temperature medie del pianeta scesero di 15 gradi centigradi, come in una velocissima era glaciale. Le piogge acide avvelenarono gli oceani, estinguendo un'enorme quantità di specie marine. Le piante soffocarono e la fotosintesi fu ridotta al minimo. I grandi erbivori sopravvissuti all'impatto morirono progressivamente di fame, trascinando con sé gli equilibri delle catene alimentari globali. I ghiacci avanzarono, unendosi agli effetti mefitici dello zolfo e dell'anossia. Dopo anni di improvviso inverno glaciale — un tetro inverno cosmico — le polveri lentamente si posarono, ma non vi fu sollievo per i vivi perché ebbe inizio una subdola primavera ultravioletta. Il Sole colpiva ora inesorabilmente la superficie senza più la protezione dello strato di ozono, lacerato dagli effetti delle sostanze chimiche immesse in atmosfera dall'impatto. La carne viva degli organismi fu esposta a radiazioni letali e scottata nuovamente dal calore più insopportabile. Il fuoco e il freddo si alternarono per secoli, come piaghe bibliche. Nulla fu mai come prima. Più della metà delle specie, di ogni ordine e fattezza, dal plancton al dinosauro, non sopravvisse alla maledizione piovuta dal cosmo. Perché il mondo tornasse a respirare, ci vollero migliaia, forse milioni, di anni.



Dinanzi a uno scenario di questo tipo [McGuire 2003], è stupefacente che una qualche forma di vita sia riuscita a superare la lunga notte del Cretaceo. Eppure questa fine del mondo, avvenuta 65 milioni di anni fa, ha avuto un ruolo preciso nella nostra fortuna. Ha distrutto le speranze dei dominatori del momento, i grandi rettili, e ha aperto la strada per nuove diversificazioni tra i sopravvissuti, in particolare i mammiferi (decimati soltanto per un terzo) e un ramoscello dei dinosauri che stava dando vita agli uccelli. Si è trattato di una spettacolare e contingente staffetta evoluzionistica, con il testimone affidato a forme viventi che diventeranno i nostri lontani antenati. Noi Homo sapiens, dunque, siamo figli di questa catastrofe orrenda. Dobbiamo essere grati a quel mostro letale di dieci chilometri di diametro che ha tagliato l'atmosfera e ha portato l'inferno sulla Terra. Dovremmo onorarlo nei secoli a venire, perché ha decretato la fine del mondo degli altri, e un nuovo inizio per chi proprio non se l'aspettava.


È ironico pensare che il beneficiario di questa fine del mondo (degli altri) sia oggi così ossessionato dalla fine del mondo (il proprio). Quasi fosse un vizio, abbiamo inflitto la stessa sorte, per nostra mano intenzionale, a milioni di specie viventi, estinte a causa della sempre più ingombrante presenza umana. Quasi fosse un contrappasso per la nostra miopia, ora cominciamo a temere che si possa noi stessi fare la fine dei dinosauri, prima o poi. Ma il senso di colpa e un inveterato antropocentrismo impregnano le umane menti. Così siamo riusciti ad addomesticare anche la fine del mondo, a immaginarcela come il culmine di un disegno, come una rivelazione, come una giusta punizione per chi se la merita (e c'è sempre qualcuno che se la merita), come la realizzazione di un destino già scritto fin dall'inizio. Con la recondita convinzione, sotto sotto, che alcuni ce la faranno e gli eletti daranno battesimo a un nuovo corso. Più consapevoli dei dinosauri e di chi li aveva preceduti in altre colossali estinzioni, noi esorcizziamo la fine del mondo continuando a parlarne, comportandoci voracemente come se fosse dietro l'angolo, sommergendola di significati impropri, deprivandola del suo sottile messaggio, il più radicale e tutto sommato rinfrancante: l'indomabile imprevedibilità della storia naturale, che ha fatto a meno di noi per 3,8 miliardi di anni. 


Telmo Pievani La fine del mondo Guida per apocalittici perplessi, il Mulino, Bologna, 2012, Intersezioni 394 , pag. 184,

venerdì 6 settembre 2013

Un anello geniale

Anche se molte delle cose di cui ci serviamo sono diventate immateriali, invisibili, o digitali, le chiavi continuano a essere uno strumento indispensabile per la nostra vita pratica. L’elenco di quelle che possediamo è ampio: casa, seconda casa, macchina, ufficio, cassetta della posta, lucchetto della bicicletta, ecc. Non si vedono in giro, salvo negli hotel, le nuove chiavi elettroniche, con password o mezzi d’identificazione personale.

L’oggetto che resta fondamentale per il loro uso è l’anello portachiavi. Si tratta di uno strumento che tutti usano, ma nessuno vede. È probabilmente il più umile oggetto che utilizziamo ogni giorno. Composto di un doppio giro in metallo, prodotto ingegneristico geniale, è costituito da una spirale d’acciaio con due spire chiuse una sull'altra. In apparenza sembra un anello chiuso, in realtà, come tutti sanno, si può aprire forzando la spirale, aprendola appena, per inserire una nuova chiave o estrarne una. Non presenta nessun meccanismo, né parti mobili, e la sua maggior qualità è l’elasticità. 

Gli studiosi di oggetti reputano che la tecnologia per realizzare l’anello a spirale sia stata prodotta centinaia di anni fa, mentre l’oggetto in uso oggi è più recente, ed è entrato nel mercato negli Anni Settanta del XX secolo sostituendo la catenella a pallini di metallo utilizzata sino a quel periodo. Non c’è oggetto che possa gareggiare con l’anello portachiavi per essenzialità e persino eleganza. Si trova in vendita nelle ferramenta a pochi centesimi, o al massimo a un euro, a seconda del tipo di metallo o della sua grandezza.


Quelli comunemente in circolazione contengono cinque o sei chiavi, cui, nel caso di mazzi più ampi, vengono agganciati altri anelli più piccoli. Nel tempo l’anello è diventato il supporto di gadget pubblicitari o turistici, souvenir e portachiavi promozionali, ma restando sempre quasi invisibile. Lo troviamo inserito nel moschettone in ottone d’origine marinara, di moda negli Anni Settanta e Ottanta, o in quello più tecnico usato in montagna che ancora si vede in giro. Come ha scritto un esperto di tecnologia, il piccolo e banale anello è il custode di una parte consistente della nostra vita, garantendo l’accesso sicuro a luoghi chiusi, dall'auto alla casa, dalla cantina al garage. 

In quanto oggetto di design non ha autore e rientra in quello che Munari definiva il design anonimo. Come molte altre cose importanti, non è coperto da copyright. Perfetto.

Marco Belpoliti La Stampa 22/07/2013

lunedì 2 settembre 2013

verità


La verità che di rado si rivela si presenta come una Patria che, anche quando siamo svegli, ci chiama.

Sono la menzogna o il semi-inganno delle rappresentazioni ad aver bisogno di essere creduti. Mente il richiamo della verità è l’ultimo a sentirsi, con un’immagine accennata appena, deserto del pensiero, mare dell’anima, montagna del cuore.

Perciò, quando la verità è proferita sembra menzogna e non suole essere creduta, mentre la menzogna e l’inganno sono avidamente elevati a cosa certa e perciò l’innocente, l’accusato, l’idiota, l’esiliato, tacciono. Tacciono perché fuori da tale Patria la loro parola sembrerebbe menzogna e in patria non c’era nulla da dire.

Mostra il sognare, dunque, che la verità, prim’ancora che oggetto della scoperta o della rivelazione – la celebre aletheia -, si fa sentire come la patria che chiama. Come campo gravitazionale di certi sogni chiari, come muta condanna dei sogni d’ingannevole giustificazione; come attualizzazione dell’orizzonte ultimo. 

Chiama facendosi sentire semplicemente, e in silenzio, e in musica e in pace. E con qualche parola in libertà, senza significato alcuno; la parola che manifesta solamente l’umana predestinazione.

Marìa Zambrano - Il sogno creatore - Bruno Mondadori, Milano 2002 - pp. 44-45