venerdì 31 gennaio 2014

Ah le madri ah le case

Nel giorno della memoria dell’Olocausto ho sentito la testimonianza di Anna Foa, la figlia di Vittorio, che passeggiando nel cortile porticato del Cinquecento del numero 35 di Portico d’Ottavia a Roma che io conosco bene, Lettore Lettrice, parlava della deportazione di 35 famiglie ebree poverissime ospiti temporanee di quella casa
Anche come ogni donna e madre sa che le case sono cose vive e che si caricano di angoscia
Perché mi ci hanno portata insieme ai miei fratelli piccolini
E dove fummo ospitati in una antichissima casa di mattoni rossi e di pietra nera e di pietra bianca
Da un ricchissimo mercante di stoffe ebreo Ettore Di Veroli
Le case sentono le case ridono le case parlano con il vuoto che le abita quando vengono loro a mancare i loro figli
Gli abitanti della casa i loro figli
Le case parlano
Le case ridono si caricano di ansia e angoscia e tormento
Le madri tutte provvide orche e assassine come la madre della Ninfa plebea di Domenico Rea e come le madri delle madonne dell’olgettina di Francesco Romanetti
Le madri carezzano consolano provvedono
Nessun uomo può sapere cosa vuol dire essere una madre
Nemmeno sfamare nutrire allevare serbare mantenere alimentare educare custodire accudire badare dedicarsi occuparsi interessarsi provvedere procurare disporre stabilire risolvere procacciare procurare fornire dotare far piacere soddisfare compiacere compatire sunpatire patire giocare appagare concedere donare comprare carote zucchini zerinol zerinette mutande scarpe chiodi calzini suole pane libri latte letti cedax dicodral fazzoletti panni pannetti fasce bende cambiare coprire scoprire toccare spogliare vestire abbracciare lavare i denti la faccia le braccia ascoltare suoni parole pensieri sguardi rumori posture star sempre girati di lato di sopra di sotto a destra a sinistra guardare occupare sorvegliare preoccupare aprire chiudere porte guardarsi a fianco di lato prevedere provvedere non chiudere troppo le porte non aprire troppe finestre medicare guarire vegliare somministrare uova scarpe vestiti zerinol zerinette parole sogni pensieri ascoltare ascoltare assumere compiti spese funzioni liberare liberarsi entrare uscire tornare ritrovare ricominciare togliere impedimenti sciogliere vincoli mettere vincoli germinare aspettare sostenere travagliare fasciare sfasciare affidare lasciare tornare aspettare ansiare pensare spingere aprire tagliare cucire aspettare tenere accompagnare condurre rispondere stare essere esserci preparare organizzare scegliere spiegare farsi spiegare andare venire tornare togliere veli mettere veli mettere ali tenerle spiegate non farle spezzare non spezzarsi le braccia le ali la faccia lasciare la strada aprire la strada la porta andare venire accettare cene merende malanni partenze carote zucchini cannoni dolori sorrisi abbracci ripulse abbandoni andare lasciare andare scaldare latte letti cuscini lenzuola anime mani spiegare le vele serrarle gioire morire abbracciare stringere forte lasciare andare per sempre per tutta. L’eternità.
Le case come le madri piangono ridono proteggono tradiscono
Prima mettono al mondo i loro figli poi li uccidono come fece Agave sul Citerone quando uccise il figlio Penteo credendolo un leone inferocito
Circondata da Baccanti impazzite e folli
Le madri corrono inseguono raggiungono
Le madri si rivoltano
Qualcuna va in guerra
Molte di noi ci restano
Perché la guerra non finisce mai come nel tragico Teatro di Napoli e del mondo dove si aggirano le squallide e losche figure
Gli squali di ferro di ndrangheta e mafia e camorra di Napoli e di Scampia

Marosia Castaldi  27 gennaio 2014

Pubblicato il 29 gennaio 2014 · in alfapiù, società



giovedì 30 gennaio 2014

Due lettere di Anna Maria Ortese a Elsa Morante

 Roma, 16.5.75

Cara Elsa Morante,
un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. La stima che io ho di Lei, persona umana, è molto alta. 

Come scrittore, solo poche Sue pagine di scura bellezza mi erano note. Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana.

Con un dolore più vicino. Dopo il primo giorno mi è accaduto questo: non avevo più memoria di tutte le cose - anche immense - finora lette. Ancor meno mi ricordavo di me. Pensavo - seguendo la disperazione senza luce di soccorso della madre di Ida: qui siamo tutti - è detto tutto. È resa giustizia a tutti noi che fuggiamo. - Quando dico noi, dico un'umanità, semplicemente. La grazia e purezza del bambino! Ma Nino, poi, quando torna - morto nel pensiero della madre - e non vuole morire, è immenso. Qui tornava quella prima sensazione «è stata resa giustizia».

Voglio ricordare qua e là, di questo VIVENTE libro, la luce in cui si muove - colorando le strade, la gioia di Useppe. I piccoli interni familiari. La polvere povera, tutta voci. I rossi orrori che accadono all'uomo, di epoca in epoca.
Quando il libro è finito, resta il senso dell'epoca. Siamo un po' cambiati. Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l'ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione.

Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita - a umiliazione dei critici - è forma.

Mille auguri per il domani! Stia bene!

Sua Anna Maria Ortese

 [P. S.] Non ho letto prima, perché volevo essere sola col mio giudizio. Non le do il mio indirizzo, perché spero che non mi ringrazi.
Siamo già tanto umiliati da immagine false e scambi di grazie o inchini. Il mio omaggio a Lei, almeno, sia libero.




Rapallo 12.4.83

Cara Elsa Morante, In Aracoeli, la breve vita di Carina è una delle pagine più alte della letteratura italiana di ogni tempo. Dissi, ad amici, quanto questo libro, per me, fosse importante - coraggio e tristezza così rari in questi anni di nulla - ma dissi soprattutto di quel ritratto: che per sapienza ricorda - e non a me sola - l'oro di sogno di Las Meninas. La breve quiete - nel vivere - di Carina, la sua infinita preziosità e dolcezza - sono davvero cosa immortale.

Sia contenta, dunque, cara Elsa Morante, di quanto ha avuto in dono - e ancora cerchi, nel suo giardino, quanto è nascosto. Pazienza, col proprio corpo, e anche con la propria anima. Vi saranno "risposte", sulla pagina; vi saranno altri doni, per cui Lei non potrà dire grazie, agli Dei o al Dio della Bellezza, che ricordando le proprie catene. Allora le saranno meno pesanti.

E poi, non è detto che non possano allentarsi da sole. Il mondo non è che un grande prodigio. Non vedere che sia prodigio, non muta la sua natura di fiaba. 

Un abbraccio. Un grazie. Un augurio di gioia
Sua A. Maria Ortese


mercoledì 29 gennaio 2014

La cura

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, 
dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. 
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, 
dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. 
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, 
dalle ossessioni delle tue manie. 
Supererò le correnti gravitazionali, 
lo spazio e la luce 
per non farti invecchiare. 
E guarirai da tutte le malattie, 
perché sei un essere speciale, 
ed io, avrò cura di te. 
Vagavo per i campi del Tennessee 
(come vi ero arrivato, chissà). 
Non hai fiori bianchi per me? 
Più veloci di aquile i miei sogni 
attraversano il mare. 

Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. 
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza. 
I profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi, 
la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi. 
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto. 
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. 
Supererò le correnti gravitazionali, 
lo spazio e la luce per non farti invecchiare. 
TI salverò da ogni malinconia, 
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te... 
io sì, che avrò cura di te.


Franco Battiato

martedì 21 gennaio 2014

Per una politicizzazione dell'etica

Per una politicizzazione dell'etica

Intervista a Slavoj Žižek a cura di Yong-june Park

Pubblicato il 8 dicembre 2013 · in AlfaDomenica
Che cosa deve fare la politica oggi? Nel bel mezzo di radicali cambiamenti – catastrofi ecologiche, fatali mutazioni biogenetiche, conflitti nucleari o comunque militari e sociali, crack finanziari ecc. – in cui a essere in gioco sono i nostri beni comuni, esiste qualcosa come appunto il bene comune? In che misura, cioè, è utile parlare di bene comune?
Secondo me a essere problematica non è la parola «comune», bensì la parola «bene». Infatti, per come la vedo dalla mia prospettiva europea, l’estetica tradizionale era diretta verso qualche Bene supremo. Può essere Dio, l’umanità, l’universo ecc.: siamo portati a vedere questo bene comune come un valore sostanziale supremo per cui tutti dobbiamo lavorare. Però la modernità comincia con Cartesio e poi con Kant, ossia con un’etica che non è più quella del bene comune. Per esempio, in Kant si può trovare un’etica puramente formale, un’etica della legge morale. Qui l’etica non può essere in nessun modo politicizzata, nel senso che non è possibile presupporre alcun bene comune. È invece una questione di decisione.
È proprio questo che trovo problematico nella nozione di bene comune. Cos’è un bene comune oggi? Prendiamo l’ecologia. Probabilmente la maggior parte delle persone, sebbene politicamente diverse, sarebbero d’accordo sul fatto che dobbiamo tutti prenderci cura della terra. Ma se si avvicina lo sguardo, si vedrà che esistono molte ecologie su cui bisogna prendere altrettante decisioni. Detto ciò, la mia posizione è qui estremamente folle: per me la politica ha la priorità sull’etica. Non nel senso volgare, per cui possiamo fare tutto ciò che vogliamo, anche uccidere la gente e subordinare così l’etica alla politica, ma in un senso molto più radicale, per cui quello che definiamo bene comune non è qualcosa che abbiamo già scoperto: consiste, piuttosto, nel prendersi la responsabilità di definire ciò che è il nostro bene.
Come molti ecologisti radicali hanno evidenziato, quanta parte dell’ecologia che pretende di lavorare per il bene della natura implica scelte politiche occulte? Quando si sostiene, per esempio, che la Madre Terra deve essere il nostro bene comune e che il nostro pianeta deve prosperare, perché lo si dice? Perché noi umani lo vogliamo, così possiamo sopravvivere. Dal mio punto di vista, l’ecologia è la più grande macchina egoistica e antropocentrica esistente. La natura è folle: è caotica e soggetta a disastri selvaggi, imprevedibili e privi di senso, e noi siamo esposti ai suoi spietati capricci. Non esiste nessuna Madre Terra. In natura ci sono sempre catastrofi, cose che vanno male, qualche volta un pianeta esplode.
Ciò che voglio mostrare è che, se lo si guarda da vicino, quando ci riferiamo a qualche bene comune superiore, esso è sempre – almeno per come la vedo io – definito dalle nostre priorità segrete. Per esempio, la gente può esclamare: «Oh, stanno costruendo un’altra grande città che distrugge la natura, è orribile!». La risposta abituale, anche di molti ecologisti, è che «dovremmo vivere in un modo più naturale, vicino alle foreste», ecc. No! Un mio amico ecologista tedesco, che apprezzo molto, mi ha detto che questo tipo di risposta è, dal punto di vista ecologico, totalmente catastrofica.
Dal punto di vista ecologico, essendoci tanto inquinamento ovunque, la cosa migliore è raccogliere più gente possibile nelle grandi città; sarebbe così estremamente concentrata e ci sarebbe meno inquinamento pro capite, dunque si potrebbero mantenere relativamente puliti i grandi spazi. […] Ciò che mi preme suggerire, a partire dalla mia posizione, non è qualcosa di politico nel senso che la gente solitamente associa alla politica, come la manipolazione a buon mercato, la corruzione, le lotte di potere ecc.; è politico nel senso delle decisioni fondamentali rispetto alla nostra vita sulla terra e alle decisioni collettive rispetto alle quali dobbiamo assumerci piena responsabilità.


lunedì 13 gennaio 2014

Ci vengo con la rosa bianca


Non riesco a sciogliere un nodo di silenzio che sento premere dall’inizio dell’anno. Come se tutta la tensione dei mesi passati (mesi difficili per il Paese, mesi difficili per la Sinistra, mesi difficili per chi lavora e chi non lavora, i secondi sempre più numerosi), si sia coagulata in una sorta di privatissimo smarrimento a cui fa eco la vicinanza a persone care che vivono e reggono, nel perimetro delle loro vite, tutta l’insufficienza sociale, economica e sentimentale dei nostri anni.
Persone che fanno i conti spiccioli della necessità quotidiana di dover reggere assenze sociali sempre più forti, sempre più intense. Lì dove lo tsunami di un non pensiero collettivo ha coagulato cumuli di macerie, e non si vedono le ali di alcun Klee a marcare lo sguardo.
Il desiderio di fare fuori la collusione della politica al malcostume non sembra, ad oggi, aver prodotto che insufficienti raggruppamenti che somigliano tanto a tutto quanto è stato il passato recente, e nel migliore dei casi se ne allontano senza comprendere che proprio nulla di quanto abbiamo pensato, patito, sognato e immaginato regge lo scontro con la deflagrazione del capitalismo dentro se stesso. Il buco nero di una economia che non produce più e la sua sorellastra, la stella implosa di una alternativa che non comprendiamo come generare.

Ed ogni volta che penso, ogni volta che sogno, ogni volta che scrivo e che parlo, sempre più mi risale dentro la necessaria cautela del pellegrinaggio nelle vite degli altri, nella speranza di poter trovare un barlume di approdo, un appiglio, un puntello.  Sono persino un po’ stanca di raccogliere storie, come se volessi almeno intravedere che un’idea di futuro possa essere oggi. Da qui in avanti.

Si va per negazioni ed omissioni: si dà sussidio, e non si dà lavoro, si dà lavoro e non si dà contrattazione, si dà servizio senza nessuna etica del darsi (dove il riflessivo dovrebbe, potrebbe e saprebbe beneficiare di questo persino per sé).

Abbiamo disimparato, credo, molte forme d’amore. L’amore per noi stessi, quando ci definiamo giovani, non più giovani, occupati, disoccupati, meridionali, omosessuali, indignati, uomini e donne, confusi. Non riusciamo a dirci nella nostra unità, temporale e locale. Qui e ora siamo a caccia di categorie da difendere, in un contesto che cerca appena di sopravvivere sulle spalle di ognuno. Sempre più centrati sull’odio e sul minimo, non vediamo la bellezza che riluceva quando si poteva dire “minore" nella bellezza profonda della potenzialità e vicinanza alla persona di questo aggettivo.

Oggi, in particolare, penso al personalissimo dolore di un’amica che si è scontrata per anni (con lucidità, intelligenza, polmoni e cuore) con la necessità di conciliare la sua attenzione al giusto (al buono, al costruttivo, al libertario) nel pensare sociale sulla malattia mentale, con la consapevolezza di come tutto un versante di pensiero giusto è stato poi disatteso da un tessuto sociale incapace di dare risorse, pensiero, luoghi e azioni politiche a un fiore nato fra le pieghe della Legge Basaglia, e calpestato nei fatti da tutto quanto dopo ha agito per cancellazione e fraintendimento strumentale.

Questa amica saluta domani una parte della sua vita che è stata dedicata, nell’affetto dei legami familiari, anche a una personale battaglia di comprensione dei “confini” che possiamo dare alle cose, facendo un lavoro di pura epistemologia ogni volta che ha dovuto dialogare con strutture, comprendere indicazioni normative, confrontarsi con il concetto di limite e di distanza nella vicinanza. Lo ha fatto con l’intelligenza tutta femminile di chi conosce e svela l’ossimoro di una sanità malata e di una società isolante, di una estraneità consanguinea che raggela ogni calore e scalda ogni scontento inverno.

Allora ecco, la prima cosa di cui voglio scrivere oggi, ad inizio d’anno, è per salutare questa forma di amorosa intelligenza e trafitta com-passione, perché sono certa che di futuro e di oggi ne avremmo molti di più se ci fossero più signore della riflessione, più maternali carichi di provvidenza che sanno essere e andare oltre il confine stretto del bisogno personale.

Guardare a sé mentre si guarda l’altro, e poi dall’altro andare oltre, e ritornare. Un flusso. Una coscienza. Una amorosa conoscenza. Il mio diario è oggi qui per S. ed S., per tutto quello che ho imparato nel conoscerne la storia. Ci vengo con la Rosa bianca, a salutare tuo fratello. Perché è il tuo amore che fa rivoluzione, tutti i giorni un po’.


Nerina Garofalo , Facebook 10 gennaio 2014 alle ore 13.02

giovedì 9 gennaio 2014

Materia e coscienza

“E qual è il senso della vita?”
“Non lo so, te l’ho detto. Però l’universo non è privo di significato. Lo sviluppo della vita sulla Terra è stato un processo più spettacolare del più enfatico e ridondante mito della creazione.”
“Tu sei strano. Sei proprio strano.”
“Sei d’accordo che hai un’anima?”
“Non so se utilizzerei quella parola.”
“Però hai una coscienza, vero?”
“Ovvio. Se rispondessi di no, cadrei in contraddizione.”
“Dunque hai coscienza di questo universo…”
“E di me stessa. Cogito ergo sum.”
“Risaliamo pure così indietro, a Cartesio, intendo, perché infatti è da lì che ogni cosa ha cominciato a… deragliare. Esiste una materia ed esiste una coscienza della materia. Voglio dire che la coscienza è una parte così importante dell’essenza dell’universo che non può essere un sottoprodotto casuale.”
“La materia però è arrivata prima.”
“Non è da escludere.”
“La devo ancora vedere una coscienza che si manifesti come materia, mentre il contrario già l’ho visto.”
“Aspetta un attimo. Hai detto che una coscienza che si manifesti come materia la devi ancora vedere?”
“Sì.”
“E che cos’è il mondo, Vera? Questo è il punto.”
“Stai dicendo cose interessanti, ma non parli più da scienziato”.
“Se è così che la pensi, allora forse è davvero importante parlare di qualcosa che non sia ‘scienza’. Per me, la coscienza è una parte dell’universo più essenziale di tutte le stelle e comete messe insieme.”
“Però la materia è venuta prima della coscienza. E’ una premessa indispensabile in discorsi come questo.”
“Può essere, te l’ho detto. Tuttavia mi pare sempre più evidente che la materia cosmica era incinta della coscienza. La coscienza non è un aspetto della realtà meno universale della reazione nucleare delle stelle.”
“Davvero non lo so. E’ evidente che ci hai riflettuto più di me.”
“Il sangue viene prima dell’amore.”
“Cos’hai detto?”
“Il sangue deve scorrere nelle vene prima che noi siamo in grado di amarci. Ciò non significa che il sangue sia più importante dell’amore.”
“Anche questo mi sembra un po’ come la storia dell’uovo e della gallina.”
“In che senso?”
“Se non fosse stato per il sangue non ci sarebbe stato l’amore. E se non ci fosse stato l’amore non ci sarebbe stato il sangue.”
“Era questo che volevo dire.”
“Possiamo parlarne ancora a Siviglia. Sono quasi le tre.”
“Voglio solo dire che ho chiuso con quel riduzionismo estremo che ha cavalcato questo secolo come un incubo. Con l’inizio del nuovo millennio, è arrivata l’ora di cambiare.”
“Io invece dico solo che sei troppo vago. Non possiamo basare la scienza su forze diverse da quelle naturali.”
“Questa è buona! Le conclusioni cui giungiamo sono molto più numerose di quelle legate alle quattro forze elementari.”
“Puoi farmi qualche esempio?”

“Il Sole non è soltanto una stella, la Terra non è soltanto un pianeta, un uomo non è soltanto un animale, un animale non è soltanto polvere, la polvere non è soltanto lava.”

Jostein Gaarder, Maya, Longanesi, 2000