lunedì 27 febbraio 2012

Azione e Trasformazione



Confondere l'azione con la trasformazione è la principale ingenuità di un gran numero di tecniche terapeutiche sia psicologiche che corporee.
Il pensiero cinese ci porta a chiarire in che cosa la trasformazione differisca dall’azione. I due termini, infatti, possono essere opposti sistematicamente.
Dell’azione, direi:
1) che è momentanea – anche se questo momento può durare a lungo (magari dieci anni, come la guerra di Troia);
2) che è locale: si svolge qui e ora, hic et nunc;
3) che rinvia esplicitamente a un soggetto, che può essere collettivo: noi, gli achei, sotto le mura di Troia…
In quanto è momentanea, locale e rinvia a un Io-soggetto, l'azione si smarca dal corso delle cose.
La trasformazione invece si può dire che:
1) che è non locale ma globale: a trasformarsi è tutto il complesso considerato;
2) che non può essere momentanea ma si estende nella durata: è progressiva e contigua, è sempre necessario uno svolgimento, detto altrimenti un processo;
3) che non rinvia a un determinato soggetto ma procede discretamente attraverso l'influsso, su un registro diffuso, pregnante, pervasivo.
La trasformazione, quindi, non si vede. Si notano solo i risultati. Non si vede il frutto nel mentre della sua maturazione, ma un giorno si constata che è maturo, pronto a cadere.

Da F. Jullien: Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari 2006

giovedì 23 febbraio 2012

COSMOLOGIA DI UNA MASSAIA di Valter Binaghi


Curvo sotto il peso di gravi pensieri il filosofo passeggiava nel giardino della sua casa: contava mentalmente i passi che la critica deve percorrere per giungere dal verosimile al certo.
Tutto assorto nel suo compito, passò davanti alla finestra della cucina e vide sua moglie,intenta ad impastare una focaccia. Con viso lieto la donna lavorava,e scandiva la fatica cantando una strana canzone. Il filosofo porse orecchio per origliare di nascosto.
La canzone diceva così :
Il segreto di una buona focaccia
è nascosto nel cuore di Dio.
Non è forse simile alla sua la mia opera ?
Impastò acqua e terra, come io faccio con la farina,
poi mise l’anima come un lievito
ed espose il mondo al sole, perchè ogni germoglio
si destasse all’ora giusta.
Non fu forse lui ad insegnarci l’arte del fuoco?
Per imparare basta far silenzio ed ascoltare
!”
Il filosofo si affacciò al davanzale e le gridò: “Donna,la fatica dei dotti è stata dunque vana, se tu non cessi di riverire i parti grotteschi della fantasia! Quali sciocche opinioni vuoi trasmettere ai tuoi figli, sottraendoli all’apprendistato della ragione? Chetati,che ti possono sentire!”
Rispose la donna: “Se tu sai distinguere la Verità dall’Illusione, per quale motivo non ridi nè canti mai, non mostri felicità per le altezze da te raggiunte – non si sta bene lassù, presso il Sole?”
Il filosofo scosse la testa: “Che cosa ha a che fare la Bellezza con la Verità? Anzi è il loro divorzio che ha finalmente liberato gli uomini dai miti. Sappi che il filosofo è grave proprio perchè la sua mente è spoglia di queste facili consolazioni. Eppoi la scienza è studio severo, non frivolezza di danza”
“Lasciami allora”, disse la donna, “lasciami al mio umile impasto. Io non arrivo a comprendere la nobiltà della tua Scienza. Mettendo il lievito nella pasta e sedendo ad aspettare, mi contento di veder nascere il mondo”.
http://valterbinaghi.wordpress.com/

mercoledì 15 febbraio 2012

Coincidenze

[...] capita nella vita che si aprano vortici dove roteano svasati in una coincidenza, in una simultaneità inspiegabile, elementi che dovrebbero essere separati dal tempo e dallo spazio. Ne nasce, in chi vive quegli attimi, una meraviglia pura: un'aura sprigiona da quelle sovrapposizioni. Viene in mente una metafora degli Scolastici: gli angeli, che sono fuori dal fiume del tempo, di quando in quando vi immergono un piede. Quando avvengono coincidenze, è come se scorgessimo un'ombra angelica nel nostro mondo. A esse, come manifestazioni arcane, l'antichità tributava un culto.
Si pensa a una persona e quella compare: il momento riceve una sua modesta consacrazione, dalla realtà ordinaria si è slittati via, si è provato uno stupore puro, sia pur tenue e subito scordato. Un'aura abbagliante avvolge le sincronicità più complesse.

Elémire Zolla, Aure: í luoghi e i riti, Marsilio

lunedì 13 febbraio 2012

Liberare la bellezza

La bellezza salverà il mondo
F.Dostojevski

Un importante interesse, che sollecita una pratica della bellezza, è di carattere economico. Questo può sorprendere, perché generalmente la bellezza è considerata qualcosa di accessorio, un lusso, estranea allo scopo dell'economia. Se, per esempio, c'è da costruire una piazza, i progettisti definiscono prima di tutto la questione del traffico, poi l'accessibilità per le compere e per gli altri usi commerciali; come ultima cosa viene l'”immagine" della piazza: una scultura commissionata, una fontana, un piccolo gruppo di alberi e alcune aiuole, alcune luci speciali. L'artista è l'ultimo ad essere convocato e il primo ad essere eliminato, quando il progetto inizia a superare lo stanziamento. L'abbellimento costa troppo. E' antieconomico.

Invece, contrariamente a questo consueto modo di vedere, la bruttezza costa di più. Qual è l'economia della bruttezza? Quanto costano in termini di benessere fisico e di equilibrio psicologico un design trascurato, coloranti da quattro soldi, suoni, strutture e spazi privi di senso? Passare una giornata in un ufficio sotto un'accecante luce diretta, su cattive sedie, vittime del costante monotono ronzio del computer, posando gli occhi su una moquette logora e macchiata, tra piante artificiali, compiendo movimenti unidirezionali, premendo un pulsante, reprimendo i gesti del corpo, per poi, alla fine della giornata, tuffarsi nel sistema del traffico o dei mezzi pubblici, in un fast food e in un'abitazione di serie. Che costo ha tutto questo? Quanto costa in termini di assenteismo? In termini di ossessione sessuale, di abbandono della scuola, di iperalimentazione e di attenzione frammentaria? Qual è il costo di tutti i rimedi farmaceutici, di quella gigantesca industria dell'evasione che è il turismo, dello spreco consumistico, della dipendenza dalla chimica, della violenza nello sport, e di quel colonialismo mascherato che è il turismo? Forse che le cause dei maggiori problemi sociali, politici ed economici del nostro tempo non potrebbero essere ricercate anche nella repressione della bellezza?

J. Hillman da "La politica della bellezza", Moretti & Vitali, 2002 

giovedì 9 febbraio 2012

FilosoFare è Partecipare: dialogo sui pregiudizi a Parco di Torre del Fiscale!



Rinviato a causa del maltempo il 4° incontro di Filosofare è Partecipare previsto per domenica:  Di primo acchito. Dell’importanza dei pre-giudizi.


‘Di primo acchito’ è un’espressione che solitamente utilizziamo riferendoci all’opinione che sentiamo manifestarsi dentro di noi rispetto a un altro, essere vivente o no, o a una situazione appena ce li troviamo davanti. Ha, quindi una significativa relazione con quelli che chiamiamo ‘pregiudizi’ e ‘stereotipi’. Con ‘pregiudizio’ ci si riferisce a un giudizio precedente all’esperienza o formulato in assenza di dati empirici e/o sufficienti. Già Bacone (agli inizi del 600) fornì una classificazione degli errori o illusioni dello spirito (idola mentis) che allontanano dalla vera conoscenza del mondo; degli errori tipici del genere umano (idola tribus) come la tendenza a lasciarsi influenzare dagli elementi più evidenti o a scegliere tra i dati di esperienza quelli che confermano le nostre opinioni, tralasciando quelli che le confutano; degli errori del singolo individuo (idola specus) che derivano dalla storia personale di ognuno... Con ‘stereotipo’ si indica una semplificazione, spesso molto rigida, che avviene secondo modalità che sono stabilite culturalmente: gli stereotipi fanno parte della cultura del gruppo e come tali vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per una efficace comprensione della realtà. Stereotipo e pregiudizio sono quindi collegati: lo stereotipo può essere definito come la rappresentazione mentale di un pregiudizio.
Il pregiudizio, allora, è una sorta di ‘meccanismo’ che si innesca ogni qual volta entriamo in contatto con qualcuno o qualcosa? Attraverso il dialogo indagheremo l’ambivalenza di pregiudizi e stereotipi. Ci chiederemo: è utile e/o possibile disattivarli? Come agiscono nella costruzione della nostra conoscenza e nella vita quotidiana? Come diventarne consapevoli?

mercoledì 8 febbraio 2012

Neve allo Spazio dell'anima!

Quello che non può essere detto, dev’essere taciuto


Autocritica

C’è stato un momento, non so come mai, forse studiavo tanto, ma la cosa non era lo studiar tanto, la cosa era il volere che questo studiare fosse riconosciuto dal mondo, pretendere di avere indietro dei riconoscimenti, per questo studiare, come quelli che stan male, mi ricordo una volta c’era un’obesa, faceva l’università con me, si lamentava con una sua compagna di corso che qualcuno le era andato a dire che lui stava male. Capito? diceva, È venuto a dire a me, che lui sta male, come se io invece non stessi male, non si vede, che sto male? Era come se lei nella classifica di chi stava male non potesse concepire che qualcuno fosse più avanti di lei era un po’ carrierista, quella studentessa obesa di lingue dell’università di Parma, nella carriera del malessere, e c’è stato un momento che io ero un po’ un carrierista, nella carriera dell’essere intelligente, e è stato quando avevo appena finito l’università e mi preparavo al dottorato e intanto lavoravo e mettevo da parte i soldi per andare in Russia dove avrei studiato per prepararmi a un esame che ci sarebbe poi stato a gennaio.

È stato il periodo che mi interessavano solo le cose che avevano un rapporto diretto con le mie convinzioni, ero pieno di convinzioni, allora, e tra le mie convinzioni spiccava la convinzione che le mie convinzioni fossero utili ai miei conoscenti ero sempre pronto a dare un parere anche se non richiesto ero d’un peso. È stato un periodo che un libro non mi piaceva se era scritto bene, ma se diceva delle cose che si accordavano alle mie convinzioni, se aveva il coraggio di dir quelle cose, pensavo, avevo un’idea del coraggio stranissima per esempio l’idea che tacere ci vuol del coraggio non mi sfiorava neanche m’indignava, anzi, il silenzio.

Un libro che mi faceva molto arrabbiare era il Tractatus di Wittgenstein, che non avevo letto proprio tutto ma che credevo di avere capito. Era un libro, com’è noto, costruito su sette proposizioni o otto proposizioni non mi ricordo, e le prime sei o sette, che erano commentate in modo anche abbastanza complicato per non dire astruso servivano tutte per dimostrare la settima o l’ottava che non era commentata e diceva, più o meno: Ciò che non può essere detto, dev’essere taciuto.

Io mi ricordo che quando avevo avuto tra le mani il Tractatus avevo pensato a mio babbo mi ero immaginato che mi chiedesse Cosa stai leggendo? Eh, gli avrei detto, sto leggendo un libro di logica piuttosto complicato che ci sono sette proposizioni che devono dimostrare l’ottava, gli avrei risposto. E cose dice l’ottava? Che quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, avrei detto a mio babbo, e mio babbo nella mia immaginazione mi avrebbe guardato malissimo come per dire Non c’è mica bisogno di studiare dei libri, per saper quelle cose lì.

Invece probabilmente mio babbo, che era una persona intelligente ma d’una intelligenza vera, di quella intelligenza che vien su nei cantieri e ti fa capire la meravigliosa utilità del filo a piombo, probabilmente mio babbo non mi avrebbe detto così per via che lui lo sapeva che non era una cosa semplice, da capire, quello che a me mi è venuto in mente un fracasso di volte questi ultimi otto anni quando leggevo dei libri o quando sentivo della gente parlare di argomenti artistici Quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, m’è venuto in mente un fracasso di volte in questi ultimi otto anni.

Invece all’epoca tra il novantacinque e il novantasei, io ero convinto che un’opera d’arte non solo doveva essere eloquente e coraggiosa, complicata, doveva essere, e se qualcuno per caso mi parlava del quadrato nero di Malevič io pensavo Ma poveretto, e se c’ero in confidenza arrivavo magari anche a dirgli Il quadrato nero di Malevič? Una gran cagata.

Ecco, io non so cos’è successo, questi ultimi otto anni, noioso son sempre noioso, peso son sempre peso, ma se oggi sentissi qualcuno che dice che il quadrato nero di Malevič è una cagata, a me mi sembrerebbe un coglione.

Paolo Nori, Una cosa del 2003 

lunedì 6 febbraio 2012

Marina Cvetaeva - Lettera seconda

"Amatemi grande, amatemi bello, amatemi diverso!" Per quanto mi riguarda, ho sempre voluto e addirittura preteso di essere amata come sono — per ciò che sono — perché sono. Non per ciò che, secondo voi, potrei, dovrei, avrei dovuto essere. Che si ami me e non l'essere ideale e falso partorito dalla fantasia di un poeta di terz'ordine e dell'ultima ora che può essere così folle d'amore solo se non è poeta nato, pensatore nato. Ho sempre preferito essere fotografata, riflessa, ripetuta, maltrattata da quell'indifferente che è l'obiettivo, piuttosto che ritratta — cioè ben trattata, idealizzata, animata, da un pittore di cui non sono neanche sicura che abbia un'anima, e che spesso è solo una mano mossa da una sola — sempre la stessa — mania.
Non trattatemi peggio di quanto la natura abbia fatto — e di quanto lo specchio non faccia — è tutto quello che, in piena umiltà, io chiedo al pittore e all'amante. "Ogni volto non è che un punto di partenza." Giusto, ma avete un'idea della mia (della sua) direzione? Di quello che sarebbe realmente stato di me, di dove sarei realmente arrivata, se... Riuscite a seguirmi — voi che mi volete superare per indicarmi la direzione giusta? Un grande maestro può creare l'ideale: ciò che doveva essere, la realtà in potenza. Alta realtà. Gli altri, i petits-maîtres dell'arte e dell'amore, possono fare (dipingere, amare) soltanto dal vero. E voi — voi fate me, se potete.
Ho sempre preferito essere conosciuta e odiata piuttosto che inventata e amata. Fissatemi con tutta la forza del vostro sguardo, oppure andate a ‘creare' una donna qualunque, la vicina di casa, che potrà esservi solo riconoscente e si riconoscerà in ognuno dei vostri `ritratti' perché lei — lei non si conosce, per il semplice motivo che in lei non c'è nulla da conoscere. È il nulla che si presta a tutte le forme. Quanto a me, sono già creata, ed è stato Dio a crearmi. È sufficiente un'unica creazione. È sufficiente quel Creatore.
Io mi identificherei unicamente nell'amore di chi mi avesse scelta fra tutte le creature passate, presenti, future, maschili, femminili — creature dell'acqua, del fuoco, dell'aria, della terra, del cielo. E fra tutte le altre ancora, giacché esistono altri pianeti!
Così sono io. Se vi do pena — perdonatemi di essere.
Marina Cvetaeva  da “ Le Notti Fiorentine”  a cura di. Serena Vitale,  Voland Roma 2011

sabato 4 febbraio 2012

Il pescatore e il turista

In un porto della costa occidentale europea un uomo vestito poveramente se ne sta sdraiato nella sua barca da pesca e sonnecchia.
Un turista vestito con eleganza sta appunto mettendo una nuova pellicola a colori nella sua macchina fotografica per fotografare quella scena idillica: cielo azzurro, mare verde con pacifiche, candide creste di spuma, barca nera, berretto da pescatore rosso. Clic. Ancora una volta: clic, e siccome non c’è due senza tre, ed è sempre meglio essere sicuri, una terza volta: clic. Quel rumore secco, quasi ostile sveglia il pescatore mezzo addormentato, che si drizza pieno di sonno, cerca, pieno di sonno, il suo pacchetto di sigarette, ma prima di averlo trovato lo zelante turista gliene mette già un altro sotto il naso, gli ha infilato una sigaretta non proprio in bocca ma tra le dita, e un quarto clic, quello dell’accendino, conchiude quella sollecita cortesia. Quell’eccedenza quasi impercettibile, assolutamente indimostrabile di scattante cortesia ha provocato un irritato imbarazzo che il turista, il quale conosce la lingua locale, cerca di superare entrando in conversazione.
- Oggi lei farà una buona pesca.
Il pescatore scuote la testa.
– Perché? Non uscirà al largo? Il pescatore scuote la testa; crescente nervosismo del turista. Deve stargli proprio a cuore il bene di quell’uomo poveramente vestito, e certo lo tormenta il pensiero di quell’occasione perduta. – Oh, lei non si sente bene?

Finalmente il pescatore passa dal linguaggio dei segni alla parola articolata. – Mi sento benone, – dice. – Non mi sono mai sentito meglio. Si alza, si stira come per far vedere l’atleticità del suo fisico. – Mi sento una cannonata. Il volto del turista assume un’espressione sempre più infelice, non può più reprimere la domanda che, per così dire, minaccia di fargli scoppiare il cuore: – Ma allora perché non esce al largo?
La risposta arriva subito, asciutta. – Perché l’ho già fatto stamattina.- - E’ stata una buona pesca?- - Talmente buona che non ho bisogno di uscire un’altra volta, ho preso quattro aragoste, quasi due dozzine di maccarelli… Il pescatore, finalmente sveglio, ora si scioglie e dà qualche rassicurante pacca sulla spalla al turista. La sua faccia preoccupata gli sembra l’espressione di un’ansia magari fuori posto ma commovente. – Ne ho persino abbastanza per domani e dopodomani, – dice per sollevare l’animo dello straniero. – Fuma una delle mie sigarette? – Sì, grazie. I due mettono in bocca le sigarette, un quinto clic, lo straniero si siede scotendo la testa sul bordo della barca, mette da parte l’apparecchio fotografico perché adesso gli servono tutte e due le mani per dare forza al suo discorso.
– Io non voglio immischiarmi nei suoi affari privati, – dice, – ma immagini di uscire al largo, oggi, una seconda, una terza, magari una quarta volta e di pescare tre, quattro, cinque, forse addirittura dieci dozzine di maccarelli… se lo immagini un po’. Il pescatore annuisce. – Faccia conto,– continua il turista, – che non solo oggi, ma domani, dopodomani, in ogni giorno favorevole lei esca al largo due, tre, magari quattro volte… Lo sa che cosa succederebbe? Il pescatore scuote la testa.
- In un anno al massimo lei potrebbe comprarsi un motore, entro due anni una seconda barca, fra tre o quattro anni lei potrebbe forse avere un piccolo cutter, con le due barche o il cutter lei naturalmente pescherebbe molto di più. Un bel giorno lei avrebbe due cutter, e allora… – L’entusiasmo gli strozza la voce per qualche istante. – Allora lei si costruirebbe una piccola cella frigorifera, magari un affumicatoio, più tardi una fabbrica di pesce in salamoia, andrebbe in giro nel suo elicottero personale, scoprirebbe dall’alto le schiere di pesci e lo comunicherebbe via radio ai suoi cutter. Potrebbe acquistare il diritto alla pesca del salmone, aprire un ristorante specializzato in pesce, esportare direttamente a Parigi, senza intermediari, le aragoste; e poi… – Ancora una volta l’entusiasmo impedisce allo straniero di parlare. Scotendo il capo, afflitto nel profondo del cuore, avendo già quasi perso il piacere delle vacanze, guarda le onde che avanzano dolcemente e dove è tutto un allegro guizzare di pesci non pescati.- E poi, – dice, ma ancora una volta l’eccitazione lo rende muto.

Il pescatore gli batte sulla schiena come a un bambino a cui sia andato un boccone di traverso. - Che cosa? – gli chiede sottovoce. - E poi, – dice lo straniero con un entusiasmo estatico, – e poi lei potrebbe starsene in santa pace qui nel porto, sonnecchiare al sole… e contemplare questo mare stupendo.

- Ma questo lo faccio già, – dice il pescatore, – me ne sto in santa pace qui nel porto e sonnecchio, è solo il suo clic che mi ha disturbato.

Il turista così ammaestrato se ne andò via pensoso, perché un tempo anche lui aveva creduto di lavorare per non dover più lavorare un giorno, e in lui non restava traccia di compassione per quel pescatore poveramente vestito, solo un poco d’invidia.

Heinrich Böll da Il nano e la bambola. Racconti 1950 1970, Einaudi