Autocritica
C’è stato un momento, non so come mai, forse studiavo tanto, ma la cosa non era lo studiar tanto, la cosa era il volere che questo studiare fosse riconosciuto dal mondo, pretendere di avere indietro dei riconoscimenti, per questo studiare, come quelli che stan male, mi ricordo una volta c’era un’obesa, faceva l’università con me, si lamentava con una sua compagna di corso che qualcuno le era andato a dire che lui stava male. Capito? diceva, È venuto a dire a me, che lui sta male, come se io invece non stessi male, non si vede, che sto male? Era come se lei nella classifica di chi stava male non potesse concepire che qualcuno fosse più avanti di lei era un po’ carrierista, quella studentessa obesa di lingue dell’università di Parma, nella carriera del malessere, e c’è stato un momento che io ero un po’ un carrierista, nella carriera dell’essere intelligente, e è stato quando avevo appena finito l’università e mi preparavo al dottorato e intanto lavoravo e mettevo da parte i soldi per andare in Russia dove avrei studiato per prepararmi a un esame che ci sarebbe poi stato a gennaio.
È stato il periodo che mi interessavano solo le cose che avevano un rapporto diretto con le mie convinzioni, ero pieno di convinzioni, allora, e tra le mie convinzioni spiccava la convinzione che le mie convinzioni fossero utili ai miei conoscenti ero sempre pronto a dare un parere anche se non richiesto ero d’un peso. È stato un periodo che un libro non mi piaceva se era scritto bene, ma se diceva delle cose che si accordavano alle mie convinzioni, se aveva il coraggio di dir quelle cose, pensavo, avevo un’idea del coraggio stranissima per esempio l’idea che tacere ci vuol del coraggio non mi sfiorava neanche m’indignava, anzi, il silenzio.
Un libro che mi faceva molto arrabbiare era il Tractatus di Wittgenstein, che non avevo letto proprio tutto ma che credevo di avere capito. Era un libro, com’è noto, costruito su sette proposizioni o otto proposizioni non mi ricordo, e le prime sei o sette, che erano commentate in modo anche abbastanza complicato per non dire astruso servivano tutte per dimostrare la settima o l’ottava che non era commentata e diceva, più o meno: Ciò che non può essere detto, dev’essere taciuto.
Io mi ricordo che quando avevo avuto tra le mani il Tractatus avevo pensato a mio babbo mi ero immaginato che mi chiedesse Cosa stai leggendo? Eh, gli avrei detto, sto leggendo un libro di logica piuttosto complicato che ci sono sette proposizioni che devono dimostrare l’ottava, gli avrei risposto. E cose dice l’ottava? Che quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, avrei detto a mio babbo, e mio babbo nella mia immaginazione mi avrebbe guardato malissimo come per dire Non c’è mica bisogno di studiare dei libri, per saper quelle cose lì.
Invece probabilmente mio babbo, che era una persona intelligente ma d’una intelligenza vera, di quella intelligenza che vien su nei cantieri e ti fa capire la meravigliosa utilità del filo a piombo, probabilmente mio babbo non mi avrebbe detto così per via che lui lo sapeva che non era una cosa semplice, da capire, quello che a me mi è venuto in mente un fracasso di volte questi ultimi otto anni quando leggevo dei libri o quando sentivo della gente parlare di argomenti artistici Quello che non può essere detto, dev’essere taciuto, m’è venuto in mente un fracasso di volte in questi ultimi otto anni.
Invece all’epoca tra il novantacinque e il novantasei, io ero convinto che un’opera d’arte non solo doveva essere eloquente e coraggiosa, complicata, doveva essere, e se qualcuno per caso mi parlava del quadrato nero di Malevič io pensavo Ma poveretto, e se c’ero in confidenza arrivavo magari anche a dirgli Il quadrato nero di Malevič? Una gran cagata.
Ecco, io non so cos’è successo, questi ultimi otto anni, noioso son sempre noioso, peso son sempre peso, ma se oggi sentissi qualcuno che dice che il quadrato nero di Malevič è una cagata, a me mi sembrerebbe un coglione.
Paolo Nori, Una cosa del 2003