giovedì 20 giugno 2013

La memoria del corpo


Un uomo che dorme tiene in cerchio attorno a sé il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi. Svegliandosi, li consulta istintivamente e vi legge in un attimo il punto della terra che occupa […]. 

Il fatto è che, quando mi svegliavo in quello stato, mentre il mio spirito si agitava per cercare, senza riuscirci, di sapere dove fossi, tutto, le case, i paesi, gli anni, girava intorno a me nel buio. […] Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava, a seconda della forma della sua stanchezza, di ritrovare la posizione delle proprie membra per dedurne la direzione della parete, la disposizione dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla dimora in cui si trovava.

La memoria di sé, la memoria delle sue costole, delle sue ginocchia, delle sue spalle, gli presentava una dopo l’altra parecchie delle camere in cui aveva dormito […]. E, prima ancora che il mio pensiero, esitante sulla soglia dei tempi e delle forme, avesse riconosciuto l’abitazione accostando i dettagli, lui – il mio corpo – ricordava per ognuna il tipo di letto, la disposizione delle porte, l’esposizione delle finestre, l’esistenza di un corridoio, e insieme le cose che avevo pensato addormentandomi là e che ritrovavo al risveglio.


Marcel Proust, Dalla parte di Swann [1913], I, I, Roma, Newton Compton, 1990

martedì 18 giugno 2013

Cavalli


In una manciata di millenni l'uomo ha costruito la propria storia, l'ha voluta Civiltà; ha sviluppato la propria dimensione psichica e comportamentale avvalendosi della complicità di un animale che facendosi cavalcatura ne ha potenziato le doti fisiche: l'ha fatto più alto, più veloce, più potente: l'ha fatto cavaliere.

Una linea di frattura ha diviso l'umanità che ha potuto fare affidamento sui cavalli da quella che ha dovuto farne a meno. Cavalcare ha modificato la forma mentale dell'uomo e l'Era delle Macchine non è che lo stadio terminale di uno sviluppo abbastanza cosciente da siglare cavallo\vapore l'unità di misura della potenza meccanica. Era ieri e sembra preistoria.

Un buco nero da cui affiora il vuoto. Come pestilenza un anonimo delirio da contatto per connessione copia e incolla, scarica e mixa, propaganda un vuoto di esperienza e conoscenza stipato di notizie ed intimità esibite. Digitare. Invio.

Ai cavalli è rimasta la dimensione sportiva, l'agonismo sfrenato, la selezione genetica; una funzione alimentare sempre più osteggiata ma che permette la sopravvivenza di tipologie e razze altrimenti scomparse o in via di estinzione. Quanti e quali disagi dovrà curare l'ippoterapia?

Un teatro barbarico, sodalizio di uomini cavalli e montagne, è ardua impresa. Doverosa per la salvaguardia di una condizione umana non riducibile ad uno schermo sia pure tridimensionale, fragrante e pieghevole. Necessaria anche se destinata al fallimento.

Dei cavalli è la bellezza delle forme e nel movimento. La storia dell'Arte lo dimostra e la Letteratura certifica complessità e complicità del sodalizio uomo cavallo. I nostri cavalli sono Maremmani e cavalli d'Appennino: cavalli da lavoro, da basto, da sella , da slitta; residuali di ondate barbariche migratorie, incroci da rimonte militari e, adesso, materiale inconsapevole per progetti di salvaguardia tesi a un miglioramento che li sta estinguendo o mostrificando.
Se li perdessimo ci negheremmo alla memoria che possiede valenze futuribili, impoverendo i nostri giorni. I nostri cavalli sono specchio in cui rimirarci, uno sguardo di luci ed ombre. Il nostro teatro è racconto, visione, musica e canto, doma e monta tradizionali; barbarico per definizione tende all'epica, vive nella luce del sole scegliendo l'imbrunire e mentre calano le tenebre accende quel fuoco da cui tutto è cominciato.

di  Giovanni Lindo Ferretti Appennino Tosco Emiliano, 11 giugno 2013

mercoledì 12 giugno 2013

Mysterium disiunctionis


Per chi intraprenda una ricerca genealogica sul concetto di «vita» nella nostra cultura, una delle prime e più istruttive osservazioni è che esso non viene mai definito come tale. Ciò che resta così indeterminato viene, però, di volta in volta articolato e diviso attraverso una serie di cesure e di opposizioni che lo investono di una funzione strategica decisiva in ambiti così apparentemente lontani come la filosofia, la teologia, la politica e, soltanto più tardi, la medicina e la biologia. Tutto avviene, cioè, come se, nella nostra cultura, la vita fosse ciò che non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso.

[...]

Ma, se questo è vero, se la cesura fra l'umano e l'animale passa innanzi tutto all'interno dell'uomo, allora è la questione stessa dell'uomo - e dell'«umanesimo» - che dev'essere posta in modo nuovo.

Nella nostra cultura, l'uomo è stato sempre pensato come l'articolazione e la congiunzione di un corpo e di un'anima, di un vivente e di un logos, di un elemento naturale (o animale) e di un elemento soprannaturale, sociale o divino.
Dobbiamo invece imparare a pensare l'uomo come ciò che risulta dalla sconnessione di questi due elementi e investigare non il mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della separazione. Che cos'è l'uomo, se esso è sempre il luogo - e, insieme, il risultato - di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo - nell'uomo - l'uomo è stato separato dal non uomo e l'animale dall'umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella - più oscura - che ci separa dall'animale.


Giorgio Agamben, L'aperto - Luomo e l'animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002