Per chi intraprenda una ricerca genealogica sul
concetto di «vita» nella nostra cultura, una delle prime e più istruttive
osservazioni è che esso non viene mai definito come tale. Ciò che resta così
indeterminato viene, però, di volta in volta articolato e diviso attraverso una
serie di cesure e di opposizioni che lo investono di una funzione strategica
decisiva in ambiti così apparentemente lontani come la filosofia, la teologia,
la politica e, soltanto più tardi, la medicina e la biologia. Tutto avviene, cioè,
come se, nella nostra cultura, la vita fosse ciò che non può essere
definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e
diviso.
[...]
Ma, se questo è vero, se la cesura fra l'umano e
l'animale passa innanzi tutto all'interno dell'uomo, allora è la questione
stessa dell'uomo - e dell'«umanesimo» - che dev'essere posta in modo nuovo.
Nella nostra cultura, l'uomo è stato sempre pensato
come l'articolazione e la congiunzione di un corpo e di un'anima, di un vivente
e di un logos, di un elemento naturale (o animale) e di un elemento
soprannaturale, sociale o divino.
Dobbiamo invece imparare a pensare l'uomo come ciò
che risulta dalla sconnessione di questi due elementi e investigare non il
mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della
separazione. Che cos'è l'uomo, se esso è sempre il luogo - e, insieme, il
risultato - di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni,
chiedersi in che modo - nell'uomo - l'uomo è stato separato dal non uomo e
l'animale dall'umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi
questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E, forse, anche la sfera più
luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella - più
oscura - che ci separa dall'animale.
Giorgio Agamben, L'aperto - Luomo e l'animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002