mercoledì 12 giugno 2013

Mysterium disiunctionis


Per chi intraprenda una ricerca genealogica sul concetto di «vita» nella nostra cultura, una delle prime e più istruttive osservazioni è che esso non viene mai definito come tale. Ciò che resta così indeterminato viene, però, di volta in volta articolato e diviso attraverso una serie di cesure e di opposizioni che lo investono di una funzione strategica decisiva in ambiti così apparentemente lontani come la filosofia, la teologia, la politica e, soltanto più tardi, la medicina e la biologia. Tutto avviene, cioè, come se, nella nostra cultura, la vita fosse ciò che non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso.

[...]

Ma, se questo è vero, se la cesura fra l'umano e l'animale passa innanzi tutto all'interno dell'uomo, allora è la questione stessa dell'uomo - e dell'«umanesimo» - che dev'essere posta in modo nuovo.

Nella nostra cultura, l'uomo è stato sempre pensato come l'articolazione e la congiunzione di un corpo e di un'anima, di un vivente e di un logos, di un elemento naturale (o animale) e di un elemento soprannaturale, sociale o divino.
Dobbiamo invece imparare a pensare l'uomo come ciò che risulta dalla sconnessione di questi due elementi e investigare non il mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della separazione. Che cos'è l'uomo, se esso è sempre il luogo - e, insieme, il risultato - di divisioni e cesure incessanti? Lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo - nell'uomo - l'uomo è stato separato dal non uomo e l'animale dall'umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella - più oscura - che ci separa dall'animale.


Giorgio Agamben, L'aperto - Luomo e l'animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002