Un autore privato. Non si può usare un aggettivo diverso, a
misurare la differenza di Emidio Greco rispetto al cinema italiano
contemporaneo.
L’uomo privato, proprio, s’intitola il penultimo degli
otto lungometraggi che ci ha lasciato (sabato scorso, morendo a Roma dopo una malattia che lo aveva illuso, ci aveva illuso, di essere stata sconfitta). Il penultimo, ma – dichiarava alla sua uscita – «mi
piacerebbe che venisse ricordato come naturalmente l’ultimo». Notizie degli
scavi – tre anni dopo, nel 2010 – ha rappresentato una “postuma” chiusura
del circolo: col racconto di Franco Lucentini che Emidio aveva sceneggiato,
allora appena uscito, all’atto di entrare al Centro Sperimentale di
Cinematografia. Era il 1964, l’anno di Deserto rosso.
Ed è da lì che
Emidio proveniva. Dalla Torino “concettuale” dei primi Sessanta, dei quadri
specchianti di Pistoletto, dell’amico carissimo Alighiero Boetti (all’opera del
quale, nel ’78, dedicò Niente da vedere niente da nascondere). Del
Gruppo 63 degli altri amici e suoi occasionali collaboratori – Enrico Filippini, Andrea
Barbato. Veniva da quell’Italia; ed era, di tutti loro, il più giovane.
Condizione che si rivela, alla lunga, controproducente: consegnandosi, alla
generazione che segue, come il fossile di un tempo infinitamente più ricco e
consapevole. E infatti, nel cinema degli anni Ottanta e Novanta e Zero, è stato un revênant, un diverso, un
alieno. Come tale veniva percepito dai suoi colleghi e dal pubblico. Ma come
tale, soprattutto, percepiva se stesso.
Per questo L’uomo privato – «naturalmente ultimo» –
rappresenta insieme il suo testamento e il suo autoritratto. Un professore di
Diritto, uomo di successo dall’eleganza asciutta e riservata, dall’alto dei
suoi privilegi guarda il mondo in modo disincantato, quasi entomologico. Nelle
interviste Emidio lo paragona all’Ulrich dell’Uomo senza qualità (perché
sullo sfondo si lavora all’Azione Parallela d’un insensato mega-convegno cultural-mondano
che si celebrerà, infine, nella cornice sfarzosa della Villa della Regina:
sulle colline della “sua” Torino, cioè, ma vista dall’alto e da lontano), a me
ricorda piuttosto Hans Karl Bühl, L’uomo difficile d’un altro cantore
della finis Austriæ, Hugo von Hofmannsthal. Come lui l’uomo privato è
desiderato da tutti, e soprattutto da tutte; ma non si concede mai, davvero, a
niente e a nessuno. Come lui l’uomo privato non partecipa all’agitazione
di chi lo circonda; non
dà risposte, non esprime opinioni. Alla fine lo dice, l’uomo
difficile di Hofmannsthal: «tutto quel che si esprime è indecente […], gli
uomini non mettono rigore in nulla, c’è addirittura una certa impudenza nel
fatto stesso che gli uomini osino vivere certe cose!». Questo schermo che l’uomo
privato frappone fra sé e la vita è simboleggiato da una metafora
eloquente, per un uomo di cinema. Lo dice a lezione, il professore. La vita non
ha forma se non è illuminata dal diritto: «la norma giuridica getta un fascio
di luce sulla vita. E la vita è l’ombra che resta oltre il cono di quella
luce».
Personaggio-riflettore, come lo avrebbe definito Henry James, l’uomo
privato pensa di poter illuminare il mondo fuori di sé senza mai esserne
coinvolto. Ma qualcosa incrina il suo progetto. Un suo studente – che poi s’è suicidato
– a sua insaputa lo ha seguito, lo ha spiato, ha ripreso la sua vita privata
come farebbe, appunto, un occhio privato. Quello sguardo di rimando,
che imprevisto gli si ritorce contro, da quel momento gli rende impossibile il
distacco, il dominio che prima esercitava su tutto e tutti. Come succede anche
negli altri film del suo autore, l’uomo privato si aggira in una festa,
guarda gli altri ballare senza poter prendere parte a quel ballo, senza capirlo.
Alla fine torna nel suo appartamento privato e guarda quella cornice, in
cui prima s’incastonava a perfezione, per la prima volta dall’esterno:
aziona un interruttore, accende le luci di casa in ogni possibile combinazione.
Ma non c’è più traccia di forma, non c’è più rigore: in quella luce. Un finale
che ripete in forma disforica quello dell’opera prima, L’invenzione di Morel
del ’74: che alla trama di Bioy Casares – ancorché «perfetta», come l’aveva
designata Borges, mai rinnegato phare di Emidio – appone una clausola
che è un capovolgimento: col naufrago che infrange la macchina congela-tempo,
il «fascio di luce» metafisica che ha fissato la realtà, sull’isola,
paralizzandola in una forma splendida quanto priva di vita.
Com’è ovvio, è lo stesso autore ad aver rivolto su di sé quello
sguardo indiscreto. Come nell’unico Film realizzato da Samuel Beckett,
l’occhio che ci insegue è il nostro stesso occhio. L’uomo che con tanta
efficacia ha forcluso il suo privato agli sguardi indiscreti del prossimo, ha
sofferto anche una privazione. Lo schermo di estraneità che ha frapposto
fra sé e il mondo ha separato lui stesso dal vivo di un’esistenza con la quale
in effetti Emidio, spesso, dava l’impressione di avere poco a che fare.
Cauterizzato dalla nascita, così appariva, nei confronti dei trasporti e degli
affetti, delle illusioni della vita sociale, pubblica.