lunedì 27 maggio 2013

Comunanza di destino

Abbiamo appreso che siamo venuti da una evoluzione biologica e che siamo anche degli animali, ma abbiamo occultato questo sapere. Lo si sa, ma lo si ignora. Operiamo un vero e proprio black-out della nostra coscienza. Allo stesso tempo, non riusciamo a sentire la nostra comunanza di origine di Homo cosiddetto sapiens. Ciò che voi affermate su questa comunanza di origine è capitale. Gli umani non sentono a sufficienza la sostanza comune che li lega e i problemi pressanti che devono mobilitarli. In Terra-patria, ho voluto evidenziare che esisteva una comunanza di destino fra tutti gli umani perché essi condividono gli stessi pericoli vitali. Ma questo resta non percepito. Infine, il nostro modo di conoscenza ci impedisce di concepire insieme l'unità e la diversità umane. Oppure, si percepisce l'unità umana, e si dimentica la diversità delle culture; o, ancora, si percepisce la diversità delle culture senza comprendere l'unità umana. Tuttavia è ciò che ci permetterebbe di sviluppare una coscienza planetaria, una coscienza umana legata al pianeta pur riconoscendo le singolarità culturali e nazionali. È vitale sviluppare questa coscienza planetaria, così come di mettere radici nella Terra. Perché la nostra Terra non è soltanto una cosa fisica. È una realtà geo-psico-bio-umana.

Certo, bisogna essere capaci di distinguere questi diversi aspetti, ma bisogna saperli collegare. Il pensiero complesso che io difendo parte dal latino complexus, che vuol dire "ciò che è tessuto insieme", al fine di operare una tensione permanente tra l'aspirazione a un sapere non parcellare, non compartimentato, non riduttivo, e il riconoscimento dell'incompiutezza e dell'incompletezza di ogni conoscenza. 

Edgar Morin  L'anno I dell'era Ecologica - La Terra dipende dall'uomo che dipende dalla Terra - Armando, Roma, 2007

giovedì 23 maggio 2013

Orlo, bordo, confine


Qui è sempre il confine che domina, il confine tra un paese e l’altro, tra una porta e l’altra, il confine che corre adesso tra l’inverno e la primavera, il confine che mi costituisce, il confine in me, il confine dei miei confini, il non avere altro che confini, il mio essere confine, mangiare confini, prendere aria e forza dai confini, agitarmi sul confine, correre sui confini, tornare sui confini.



Il mio confine tra salute e malattia: l’ipocondria.



Pure l’ansia è un confine, l’ansioso è un animale di confine.



Io vivo di avvistamenti come una sentinella, sono sul bordo, nella mia vita non ho mai frequentato nessun centro.



Aprile è un mese di confine.



Contro la crisi abbiamo solo due armi: il sacro e la poesia. Sta finalmente arrivando il tempo dei percettivi. È un tempo che viene da sud e dai margini. Il centro del mondo e’ al buio. A noi ci fa luce il batticuore.



Orlo bordo confine selve monti mare alberi zolla cane vigna nuvole vacca Lucania San Fele Latronico Trevico panchina sole alba tramonto e vento neve pioggia e altro vento e altra neve e aprile e il verde di maggio e il nero di settembre silenzio senza opinioni luce senza commenti non ho più voglia di parlare di me di dire cosa faccio dove vado non ho voglia di vincere di passare avanti di essere il migliore non ho più voglia di essere qualcuno di arrivare a qualcosa voglio solo che la vita sfili se ne vada da dove è venuta non la trattengo non voglio trattenere niente camminare guardare gli alberi non dire e non fare nient’altro che il giro dei confini andare sempre più dentro a certi confini non superarli non mirare al centro non mirare alle passioni di tutti disertare prendere confidenza col cielo ma farlo senza vantarsene non sputare parole sul mondo e sugli altri camminare uscire perché è uscito il sole uscire prendere un paese passarci dentro non dire nulla del giorno non accostare niente alla solitudine lasciarla intatta lasciare che la solitudine faccia la sua vita svolga la sua storia e così pure la tristezza e la stanchezza essere stanchi tristi e soli è comunque una fortuna, i buoni sentimenti rigano il mondo come quelli cattivi come le parole che diciamo e quelle che non diciamo meglio andarsene in silenzio davanti al mare in mezzo a un bosco davanti al muso di un gatto pensare alle volpi morte sotto la neve alle fatiche delle formiche al verde lucidato dal vento alle nuvole dissolte a quelle che arriveranno guardare il cielo sul confine tra il giorno e la notte guardare il cielo molte volte al giorno è strano che la gente esca fuori e non abbia come primo pensiero quello di guardare il cielo è strano questo andare verso gli altri a guerreggiare meglio sarebbe andarsene dove c’è silenzio passarsi la luce del giorno tra le dita sentire la notte prendersi cura della malattia ma senza che questo diventi un’altra malattia parteggiare per la propria gioia e per quella degli altri andare alzarsi e salire verso la montagna scalare la montagna annusarla prendere il sole che prende la montagna guardare le vacche i cavalli guardare le spine le foglie i ruscelli guardarli senza pensare che siano altro che spine foglie ruscelli non commerciare col mistero con l’ecologia col silenzio con la pace stare sul bordo omettere il centro attraversarlo senza fermarsi c’è un solo centro possibile nella nostra vita questo centro è la morte dunque fin quando siamo vivi è solo questione di orlo di bordo di confine.



Franco Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, maggio 2013

lunedì 20 maggio 2013

Per la prima volta

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Questo libro è nato quando Annita Malavasi, la partigiana «Laila», ha incominciato a parlare d'amore. Era entrata nella Resistenza come staffetta a ventidue anni, a Reggio Emilia, dopo l'8 settembre 1943. Il nome di battaglia lo aveva preso da un romanzo che raccontava di una ragazza sudamericana in guerra al posto del fidanzato ucciso. Non ricordava il titolo. Probabilmente era uno di quei libri edificanti per fanciulle, pieni di avventure, slanci d'amore e atti di eroismo che andavano di moda negli anni Trenta e di cui oggi si è persa la memoria e l'abitudine. Ci teneva a dire una cosa, soprattutto: fu tra i partigiani che, per la prima volta, uomini e donne ebbero pari dignità e che l'uguaglianza, sancita dalla Costituzione a guerra finita, non fu un regalo, ma una conquista e un riconoscimento.

Raccontò che per passare in bici ai posti di blocco mostrava le gambe ai tedeschi e quelli, «fessacchiotti», fischiavano. Per diventare partigiana aveva lasciato il fidanzato. Non si era più risposata. Poi disse: - In montagna, avevo trovato un ragazzo... lui sí, lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso -. Fece una pausa, quasi per ricordare, e quando ricominciò a parlare il suo tono di voce era diverso: - Si chiamava Trolli Giambattista, nome di battaglia «Fifa», anche se era coraggiosissimo. È morto nella battaglia di Monte Caio nel 1944, a ventitré anni. L'ho saputo solo sei mesi dopo, quando a primavera la neve si sciolse e il corpo fu ritrovato. Gli porto ancora i fiori. Dev'essere stato importante per me, se anche adesso me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio -.
La testimonianza di Laila fu pubblicata su «D - la Repubblica» il 24 aprile 2010. Arrivarono molte lettere. Alcune erano di vecchi partigiani, e parlavano d'amore. Erano ricordi che riaffioravano a quasi settant'anni dai fatti, un attimo prima di perdersi per sempre. La storia di Annita Malavasi aveva rivelato che la guerra partigiana è una miniera di storie tragiche e meravigliose in procinto di essere dimenticate. E aveva mostrato che la Resistenza è stata soprattutto una rivolta di giovani. Per questo ascoltare, oggi, la voce di chi c'era significa adottare lo sguardo di chi in quegli anni aveva piú o meno vent'anni.

Gli ultimi testimoni diretti della guerra di Liberazione nel biennio '43-45 erano ragazzi e ragazze poco più che adolescenti che, come Laila, sceglievano il nome di battaglia nei libri di avventure, e avevano appena smesso di giocare, persone a cui capitò di innamorarsi e dare il primo bacio, mentre erano in guerra. Nel corso di quei due anni, per la prima volta nella storia d'Italia, maschi e femmine si trovarono a dormire insieme all'aperto, a dividere la paura, l'entusiasmo, il coraggio, a combattere, uccidere e morire fianco a fianco.
[...]
All'inizio del 2012 i partigiani italiani viventi sono qualche migliaio. L'intervista ad Annita Malavasi - quella da cui questo libro è nato - si concludeva cosí: «Sarebbe bello se, per legge, ognuno fosse obbligato ad ascoltarne uno».


Stefano Faure, Io sono l'ultimo - Lettere di partigiani italiani - Einaudi, Torino, 2012, Stile Libero Extra.
Testo tratto dall’Introduzione di GIACOMO PAPI 

martedì 14 maggio 2013

Dove sono gli uomini?

La prima cosa che ti cattura è il titolo “Dove sono gli uomini?” e già si immagina il tipico romanzo sull’eterna ricerca dell’uomo ideale!

Nulla di tutto ciò. Niente caccia al principe azzurro, o donne sull’orlo di una crisi di nervi, ma storie vere, autentiche, e un osservatore d’eccezione, Simone Perotti, scrittore e blogger, già autore di best seller che, dalla copertina del suo ultimo libro lancia una provocazione ai potenziali lettori.

Dove sono gli uomini? è una domanda che lui per primo si è posta, registrando nella vita di tutti i giorni un’allarmante latitanza del sesso maschile nel tessuto sociale, di cui è un acuto osservatore.

Oggi, secondo Perotti, le donne socializzano, viaggiano, vanno al cinema, frequentano corsi di danza, yoga, vela, si buttano a capofitto in nuove avventure sentimentali e professionali, senza paura di mostrarsi per quello che sono, mentre i rappresentanti del sesso forte, viaggiano sempre più in solitaria, indeboliti e autoreferenziali.

Partendo da qui, il libro diventa un viaggio nell’universo femminile, in cui l’autore si addentra con delicata curiosità, raccontando una grande varietà di materiale umano che oggi sembra dialogare sempre meno con i partner maschili.

Ma come si fa a raccontare in un libro la crescente assenza degli uomini?

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mercoledì 8 maggio 2013

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin - Un commento oggi di Giorgio Agamben

Benjamin e il capitalismo
di Giorgio Agamben

Lo Straniero N. 155 - Maggio 2013 1.
www.lostraniero.net


1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire.

Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.

Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.

2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.

Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.

martedì 7 maggio 2013

Similitudine e somiglianza

Sia per l’anonimo autore della Sacra Bibbia che per il saggista di Questa non è una pipa, all’inizio c’era il caos. O forse ce n’erano due: il caos del diverso, dove ogni cosa è diversa da ogni altra; e il caos dell’uguale, dove ogni cosa è uguale a ogni altra.

Entrambi sono refrattari all’idea di ordine, che può solo esistere sulla soglia fra la differenza e la similitudine. Là dove tutto è uguale, o dove tutto è disuguale, non è possibile imporre le categorie della conoscenza, quindi ordine. L’autore della Bibbia suddivide il creato secondo un codice binario (luce/tenebra; mondo/cielo; terra/mare; sole/luna; animali che nuotano/animali che volano, e così via). Michel Foucault suddivide il creato secondo le categorie delle cose e delle parole, la cui partizione è necessaria perché il mondo diventi comprensibile (attraverso tutto ciò si manifesta nella duplice articolazione un fatto e del resoconto di un fatto).

Per avere il concetto di ordine bisogna avere il concetto di differenza e di similitudine (tra cosa e cosa, o tra parola e parola). La storia del mondo è anche l’Histoire du Même, cioè la storia della stessità. La cosa uomo diventa uomo solo quando si accorge di opporsi all’altro, cioè all’inumano: quando l’uomo si accorge di essere lo stesso di un altro uomo. Questa stessità non è la statica stessità del caos dell’uguale, che ruota eternamente nella propria in-differenza, bensì la dinamica stessità del mondo, dove il simile e il diverso si confrontano si oppongono si urtano. La storia della stessità non è più un artistico rimando di specchi, bensì un vorticare di immagini.

In questa storia cosmica e umana ci sono delle fratture, degli intervalli, dei momenti di crisi; per esempio la frattura tra il mondo come scrittura divina (cioè il mondo visibile come espressione interpretabile della propria essenza) e la scrittura come trascrizione del mondo.

Questa è la grande crisi post-rinascimentale che Foucault ha analizzato nel suo libro maggiore, Les Mots et les Choses. Nel momento topico denunciato da Foucault, le parole e le cose interrompono la loro antica ed arcana corrispondenza. Da allora, le parole hanno dovuto affannarsi per rincorrere le alienità delle cose. Il reticolo di similitudini che reggeva l’armonia del mondo e la concordia della lingua del mondo è spezzato: tra l’uomo e la stella che regola il suo destino non esiste più la similitudine essenziale che garantiva la collaborazione tra il macrocosmo e il microcosmo (il modo in cui l’uno rifletteva specularmene l’altro); anzi, il concetto stesso di similitudine esce dal dominio della conoscenza.

Da allora in poi avremo somiglianza (l’uomo può avere una faccia porcina, quindi assomigliare a un maiale), non similitudine (l’uomo dalla faccia porcina non ha più nulla da condividere con la porcinità del porco). Il linguaggio, nell’arte e nelle lettere, si impoverisce in uno sforzo mimetico di raccontare il miracolo della somiglianza, non più convalidato dalla necessità della similitudine: cioè come l’uomo dal naso raccorciato, dalle narici dilatate, dagli occhi piccoli e ravvicinati e dalle mandibole sporgenti possa avere un volto che sembra quello di un maiale.

È l’estetica del come se: l’uomo è come se fosse un maiale. Contro la documentazione anatomica (bipide/quadrupede), la classificazione zoologica (homo/sus), le abitudini gastronomiche (l’uomo non mangia ghiande) e le convenzioni linguistiche (il suono nella voce umana differisce dal grugnito), la somiglianza tra uomo e porco cerca invano di rintracciare l’eco di antiche metamorfosi, di significanti similitudini, di fatali sovrapposizioni. Il diverso è ormai meno problematico del somigliante.

Dalla prefazione di Guido Almansi in “Questo non è una pipa” di Michel Foucault, Serra e Riva Editori 1973 Milano, pp. 9-11.

venerdì 3 maggio 2013

Linguaggio e realtà


In un certo senso, come dice Husserl, tutta la filosofia consiste nel restituire un potere di significare, una nascita del senso o un senso selvaggio…

E in un certo senso, come dice Valery, il linguaggio è tutto, perché esso non è la voce di nessuno, perché è la voce stessa delle cose, delle onde e dei boschi.

Si deve altresì comprendere che dall'una all'altra cosa non c'è rovesciamento dialettico, noi non abbiamo il compito di riunirle in una sintesi: esse sono due aspetti della reversibilità che è la verità ultima.


Merleau Ponty Il Visibile e l'Invisibile, Bompiani, 2007, pag. 170