Benjamin e il capitalismo
di Giorgio Agamben
Lo Straniero N. 155 - Maggio 2013 1.
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1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire.
Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.
Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.
2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.