venerdì 28 settembre 2012

Corpo Celeste


Col nome di corpi celesti venivano indicati, nei testi scolastici di anni lontanissimi, tutti que­gli oggetti che riempiono lo spazio intorno alla Terra. E anche il nome oggetto, riferendo­si a quello spazio, allora incontaminato, pu­rissimo, si colorava pallidamente di azzurro. Noi — che sfogliavamo quei testi e ammirava­mo quelle carte della volta celeste — eravamo invece sulla Terra, che non era un corpo cele­ste, ma era data come una palla scura, terro­sa, niente affatto aerea. Perciò, durante tut­ta una vita, poteva accadere che, guardando di sera, nella luce tranquilla della campagna, quel vasto spazio sopra di noi, pensassimo va­gamente: « Oh, potessimo anche noi trovarci las­sù!». Le leggende e i testi scolastici parlava­no di quello spazio azzurro e di quei corpi celesti quasi come di un sovramondo. Agli abitanti della Terra essi aprivano tacitamente le grandi mappe dei sogni, svegliavano un confuso senso di colpevolezza. Mai avremmo conosciuto da vicino un corpo celeste! Non era­vamo degni!, pensava l'anonimo studente. In­vece, su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio, proveniente da lonta­no, o immobile in quel punto (cosi sembrava) da epoche immemorabili, vivevamo an­che noi: corpo celeste, o oggetto del sovra­mondo, era anche la Terra, una volta sollevato delicatamente quel cartellino col nome di pianeta Terra. Eravamo quel sovramondo.

Quando ho compreso questo, non subito, a poco a poco, nel continuo terremoto del cre­scere, nell'amarezza di scoperte inattese (del­la infelicità, del passare delle cose), sono sta­ta presa da un senso di meraviglia, di emozio­ne indicibile. L'emozione si faceva reveren­za, diveniva la sorpresa e la gioia di una più grande scoperta, quella di un destino impa­reggiabile. Mi trovavo anche io sulla Terra, nello spazio, e il mio destino non era molto dissimile da quello degli oggetti e corpi ce­lesti tanto seguiti e ammirati. Dove avrebbe portato non sapevo: forse su, forse giù, forse nel buio, forse nella luce. Una cosa era cer­ta, era nozione ormai incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il paese dove abitavo; e la collocazione, o ve­ra patria di tutti, era quel sovramondo!

Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Adelphi 1997

lunedì 24 settembre 2012

Le pochissime cose in cui dura l'eterno



Roma, 29 ottobre 1903

A Roma arrivammo circa sei settimane fa, in una stagione ch'era ancora la vuota, brucia­ta, febbricosa Roma, e questa circostanza con altre difficoltà pratiche di assetto protrasse senza fine l'inquietudine intorno a noi e il paese straniero gravava su noi col peso del­l'esilio. Si deve anche aggiungere che Roma (se ancora non la si conosce) nei primi gior­ni opprime di tristezza: per l'aria morta e torbida di museo, che respira, per la moltitudine delle sue età trascorse ripescate e te­nute in piedi faticosamente (di cui si nutre un piccolo presente), per l'indicibile vanteria, sostenuta da dotti e filologi e imitata dagli abituali visitatori d'Italia, di tutte quelle sfi­gurate e guaste cose, che in fondo non sono più che resti casuali d'un altro tempo e di un'altra vita, che non è la nostra e non de­v'essere la nostra. Finalmente, dopo settimane di quotidiana difesa, si ritrova — benché an­cora un po' confusi — la via a se stessi e ci si dice: no, qui non c'è più bellezza che in qualche altro luogo e tutti questi oggetti sem­pre ammirati dalle generazioni in catena, cor­retti e restaurati da mani di manovali, non significano nulla, non sono nulla e non han­no né cuore né valore; ma molta bellezza c'è qui, perché dovunque è molta bellezza.
Acque infinitamente piene di vita entrano per gli antichi acquedotti nella grande città e danzano nelle molte piazze su bianche tazze di pietra e si spandono in ampi bacini e scro­sciano il giorno e alzano il loro scroscio la notte, che qui è grande e stellata e tenera di venti. E giardini ci sono, indimenticabili via­li e scalinate, scalinate inventate da Miche­langelo, scalinate costruite a immagine delle acque cadenti, che ampie generano nella ca­duta gradino da gradino come onda da on­da.
Tali impressioni giovano a raccogliersi, a recuperarsi dalle molte cose piene di presun­zione, che ivi parlano e ciarlano (e quanto sono loquaci!) e si impara lentamente a cono­scere le pochissime cose, in cui dura l'eterno, che si può amare, e la solitudine, a cui som­messamente si può partecipare.
Ancora abito in città, sul Campidoglio, non lontano dalla più bella figura equestre che ci sia stata conservata dall'arte romana, la statua di Marco Aurelio; ma tra alcune settimane passerò in un luogo semplice e tranquillo, una vecchia terrazza perduta nel profondo di un grande parco, celata alla citta, al suo frastuo­no e al caso. Abiterò là tutto l'inverno e go­drò della grande quiete, da cui attendo il dono di buone e ricche ore...

Rainer Maria Rilke, Lettere a un Giovane Poeta, Adelphi, 1980



venerdì 21 settembre 2012

Semplice, facile, difficile, complesso. Una riflessione sull'origine di alcune parole


Semplice non vuole affatto dire facile; e complesso non vuole dire difficile, né, tanto meno, la complessità è sicuro indizio di «profondità», «ricchezza di significati» o «verità»: a volte è solo complicazione. Fermiamoci per un attimo su queste parole e sul loro significato più antico, e dopo sarà più facile capirsi.
Semplice deriva dal latino «simplex», contrazione dell'espressione «semel (una volta) + plectere (piegare)»: perciò «semplice» è ciò che è piegato una volta: solo una volta, non due.
Invece complesso o complicato - la differenza c'è ed è più marcata di quanto in apparenza possa sembrare - derivano da «cum (con) + plectere (piegare)», che significa «piegare insieme»; ma potremmo anche dire «con-torcere», che dà origine al contorto, dunque piegare non una volta sola, ma più volte, così come si può dire di un nodo composto.
Si può provare a spiegare ciò che è semplice, cioè piegato una volta sola; ma, come si fa con un nodo, bisogna impegnarsi a sciogliere ciò che è complesso.
Facile, da parte sua, è una parola contratta che deriva da «facibilem» (fattibile) e originariamente significa «che si può fare», poi nel tempo acquista una sfumatura particolare e va a indicare, sì, ciò che si può fare, ma in modo agevole, senza ostacolo, senza opposizione; mentre difficile non è il contrario del suo significato originario, ma di quello acquisito nel tempo e vuole dire che qualcosa «non si può fare agevolmente», che per farla occorre superare ostacoli, opposizioni, occorre abilità o fortuna.
Semplice e complesso sono collegati al modo di essere di una cosa, ne sono una caratteristica; facile e difficile sono collegati al modo di fare qualcosa o di rapportarsi con quella cosa. Sono piani di significato differenti.
Per questo non è contraddittorio - anzi è piuttosto sensato! - affermare che parlare semplice è difficile, mentre per chi ha a disposizione un ricco vocabolario e abbia voglia di non farsi capire (o abbia un po' di confusione nel pensiero) è certamente facile parlare in modo complesso e usare le parole come fumo per nascondere, e nascondersi.

da La recinzione degli spazi comuni della parola di Massimo Angelini
http://mondodomani.org/dialegesthai
 

lunedì 17 settembre 2012

Ecologia Profonda

La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che va molto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati hanno cominciato a fare una distinzione fra ‘ecologia profonda’ e ‘ambientalismo superficiale’.

Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato a un controllo e a una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a beneficio dell’uomo, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà una nuova base filosofica e religiosa.

L’ecologia profonda è sostenuta dalla scienza moderna e in particolare dal nuovo approccio sistemico, ma è radicata in una percezione della realtà che va al di là della cornice scientifica per attingere a una consapevolezza intuitiva dell’unità di ogni forma di vita, dell’interdipendenza delle sue molteplici manifestazioni e dei suoi cicli di mutamento e di trasformazione.

Quando il concetto dello spirito umano è inteso in questo senso, come il modo di coscienza in cui l’individuo si sente connesso al cosmo nella sua totalità, diventa chiaro che la consapevolezza ecologica è veramente spirituale. In effetti l’idea che l’individuo sia connesso al cosmo si esprime nella radice latina della parola religione, religare (‘legare’, ‘fissare’), oltre che nel sanscrito yoga che significa unione.

F.Capra – Il punto di svolta – Feltrinelli 1980-2008

venerdì 14 settembre 2012

Clessidra filosofica di settembre.

lunedì 17 settembre dalle 20,30 Il tema del mese è "Carne"

Clessidra è' un'idea di Silvana Kuhtz e Mariarosa Pappalettera (www.poesiainazione.it) che si realizza con successo a Bari ormai da due anni. Sulla base del tema del mese, ogni partecipante sceglie il “testo” di un grande autore da proporre a tutti gli altri: potrà essere costituito da parole, immagini, suoni, scene di film, brani musicali, canzoni, movimento di corpi ed esperienza dei sensi e anche processo del fare; può prevedere il coinvolgimento degli altri partecipanti all’incontro. La durata massima di ogni intervento è di 5 minuti. Se il numero dei partecipanti è cospicuo, i minuti scendono a 3-4, lo si concorda insieme. Non è possibile intervenire all'incontro solo come spettatore. Clessidra filosofica è la versione che realizziamo a Roma in "contatto" con il corrispondente incontro di Bari. Lo "specifico romano", una piccola pratica filosofico-poetica da fare insieme nella seconda parte: così vi proponiamo di sperimentare Clessidra all'interno della nostra Scuola popolare di filosofia. Un nuovo modo di condividere le nostre passioni e di produrre insieme nuovi pensieri.

Per partecipare prenota via mail (info@spazidellanima.it ) la tua partecipazione all’evento e anticipa in poche righe la natura del tuo intervento.

giovedì 13 settembre 2012

Cose

Le monete, il bastone, il portachiavi,
la pronta serratura, i tardi appunti
che non potranno leggere i miei scarsi
giorni, le carte da giunco e gli scacchi,
un libro e tra le pagine appassita
la viola, monumento d'una sera
di certo inobliabile e obliata,
il rosso specchio a occidente in cui arde
illusoria un'aurora. Quante cose,
atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi,
ci servono come taciti schiavi,
senza sguardo, stranamente segrete!
Dureranno piú in là del nostro oblio;
non sapran mai che ce ne siamo andati.