lunedì 24 settembre 2012

Le pochissime cose in cui dura l'eterno



Roma, 29 ottobre 1903

A Roma arrivammo circa sei settimane fa, in una stagione ch'era ancora la vuota, brucia­ta, febbricosa Roma, e questa circostanza con altre difficoltà pratiche di assetto protrasse senza fine l'inquietudine intorno a noi e il paese straniero gravava su noi col peso del­l'esilio. Si deve anche aggiungere che Roma (se ancora non la si conosce) nei primi gior­ni opprime di tristezza: per l'aria morta e torbida di museo, che respira, per la moltitudine delle sue età trascorse ripescate e te­nute in piedi faticosamente (di cui si nutre un piccolo presente), per l'indicibile vanteria, sostenuta da dotti e filologi e imitata dagli abituali visitatori d'Italia, di tutte quelle sfi­gurate e guaste cose, che in fondo non sono più che resti casuali d'un altro tempo e di un'altra vita, che non è la nostra e non de­v'essere la nostra. Finalmente, dopo settimane di quotidiana difesa, si ritrova — benché an­cora un po' confusi — la via a se stessi e ci si dice: no, qui non c'è più bellezza che in qualche altro luogo e tutti questi oggetti sem­pre ammirati dalle generazioni in catena, cor­retti e restaurati da mani di manovali, non significano nulla, non sono nulla e non han­no né cuore né valore; ma molta bellezza c'è qui, perché dovunque è molta bellezza.
Acque infinitamente piene di vita entrano per gli antichi acquedotti nella grande città e danzano nelle molte piazze su bianche tazze di pietra e si spandono in ampi bacini e scro­sciano il giorno e alzano il loro scroscio la notte, che qui è grande e stellata e tenera di venti. E giardini ci sono, indimenticabili via­li e scalinate, scalinate inventate da Miche­langelo, scalinate costruite a immagine delle acque cadenti, che ampie generano nella ca­duta gradino da gradino come onda da on­da.
Tali impressioni giovano a raccogliersi, a recuperarsi dalle molte cose piene di presun­zione, che ivi parlano e ciarlano (e quanto sono loquaci!) e si impara lentamente a cono­scere le pochissime cose, in cui dura l'eterno, che si può amare, e la solitudine, a cui som­messamente si può partecipare.
Ancora abito in città, sul Campidoglio, non lontano dalla più bella figura equestre che ci sia stata conservata dall'arte romana, la statua di Marco Aurelio; ma tra alcune settimane passerò in un luogo semplice e tranquillo, una vecchia terrazza perduta nel profondo di un grande parco, celata alla citta, al suo frastuo­no e al caso. Abiterò là tutto l'inverno e go­drò della grande quiete, da cui attendo il dono di buone e ricche ore...

Rainer Maria Rilke, Lettere a un Giovane Poeta, Adelphi, 1980