lunedì 13 gennaio 2014

Ci vengo con la rosa bianca


Non riesco a sciogliere un nodo di silenzio che sento premere dall’inizio dell’anno. Come se tutta la tensione dei mesi passati (mesi difficili per il Paese, mesi difficili per la Sinistra, mesi difficili per chi lavora e chi non lavora, i secondi sempre più numerosi), si sia coagulata in una sorta di privatissimo smarrimento a cui fa eco la vicinanza a persone care che vivono e reggono, nel perimetro delle loro vite, tutta l’insufficienza sociale, economica e sentimentale dei nostri anni.
Persone che fanno i conti spiccioli della necessità quotidiana di dover reggere assenze sociali sempre più forti, sempre più intense. Lì dove lo tsunami di un non pensiero collettivo ha coagulato cumuli di macerie, e non si vedono le ali di alcun Klee a marcare lo sguardo.
Il desiderio di fare fuori la collusione della politica al malcostume non sembra, ad oggi, aver prodotto che insufficienti raggruppamenti che somigliano tanto a tutto quanto è stato il passato recente, e nel migliore dei casi se ne allontano senza comprendere che proprio nulla di quanto abbiamo pensato, patito, sognato e immaginato regge lo scontro con la deflagrazione del capitalismo dentro se stesso. Il buco nero di una economia che non produce più e la sua sorellastra, la stella implosa di una alternativa che non comprendiamo come generare.

Ed ogni volta che penso, ogni volta che sogno, ogni volta che scrivo e che parlo, sempre più mi risale dentro la necessaria cautela del pellegrinaggio nelle vite degli altri, nella speranza di poter trovare un barlume di approdo, un appiglio, un puntello.  Sono persino un po’ stanca di raccogliere storie, come se volessi almeno intravedere che un’idea di futuro possa essere oggi. Da qui in avanti.

Si va per negazioni ed omissioni: si dà sussidio, e non si dà lavoro, si dà lavoro e non si dà contrattazione, si dà servizio senza nessuna etica del darsi (dove il riflessivo dovrebbe, potrebbe e saprebbe beneficiare di questo persino per sé).

Abbiamo disimparato, credo, molte forme d’amore. L’amore per noi stessi, quando ci definiamo giovani, non più giovani, occupati, disoccupati, meridionali, omosessuali, indignati, uomini e donne, confusi. Non riusciamo a dirci nella nostra unità, temporale e locale. Qui e ora siamo a caccia di categorie da difendere, in un contesto che cerca appena di sopravvivere sulle spalle di ognuno. Sempre più centrati sull’odio e sul minimo, non vediamo la bellezza che riluceva quando si poteva dire “minore" nella bellezza profonda della potenzialità e vicinanza alla persona di questo aggettivo.

Oggi, in particolare, penso al personalissimo dolore di un’amica che si è scontrata per anni (con lucidità, intelligenza, polmoni e cuore) con la necessità di conciliare la sua attenzione al giusto (al buono, al costruttivo, al libertario) nel pensare sociale sulla malattia mentale, con la consapevolezza di come tutto un versante di pensiero giusto è stato poi disatteso da un tessuto sociale incapace di dare risorse, pensiero, luoghi e azioni politiche a un fiore nato fra le pieghe della Legge Basaglia, e calpestato nei fatti da tutto quanto dopo ha agito per cancellazione e fraintendimento strumentale.

Questa amica saluta domani una parte della sua vita che è stata dedicata, nell’affetto dei legami familiari, anche a una personale battaglia di comprensione dei “confini” che possiamo dare alle cose, facendo un lavoro di pura epistemologia ogni volta che ha dovuto dialogare con strutture, comprendere indicazioni normative, confrontarsi con il concetto di limite e di distanza nella vicinanza. Lo ha fatto con l’intelligenza tutta femminile di chi conosce e svela l’ossimoro di una sanità malata e di una società isolante, di una estraneità consanguinea che raggela ogni calore e scalda ogni scontento inverno.

Allora ecco, la prima cosa di cui voglio scrivere oggi, ad inizio d’anno, è per salutare questa forma di amorosa intelligenza e trafitta com-passione, perché sono certa che di futuro e di oggi ne avremmo molti di più se ci fossero più signore della riflessione, più maternali carichi di provvidenza che sanno essere e andare oltre il confine stretto del bisogno personale.

Guardare a sé mentre si guarda l’altro, e poi dall’altro andare oltre, e ritornare. Un flusso. Una coscienza. Una amorosa conoscenza. Il mio diario è oggi qui per S. ed S., per tutto quello che ho imparato nel conoscerne la storia. Ci vengo con la Rosa bianca, a salutare tuo fratello. Perché è il tuo amore che fa rivoluzione, tutti i giorni un po’.


Nerina Garofalo , Facebook 10 gennaio 2014 alle ore 13.02