giovedì 24 gennaio 2013

Coscienza, "qualia" e singolarità


Come per i processi biologici, anche per spiegare  la coscienza è stato invocato un “miracolo”, o un anti-miracolo, che negli ultimi anni ha preso diverse forme: da una parte si nega l’esistenza stessa della coscienza, dall’altra si nega piuttosto che possano esistere teorie in grado di spiegarla.

Ed anche i fisici hanno dato il loro contributo al bazaar della coscienza, ipotizzando teorie quantistiche che poco hanno a che fare con i dati concreti delle neuroscienze (a meno che non si voglia lasciare il rasoio d’Occam dentro il cassetto), ma soddisfano piuttosto l’esigenza, come ha osservato ironicamente Stephen Hawking, di voler spiegare un mistero con un altro mistero.

Nel frattempo il termine “coscienza” si è ampliato fino ad assumere proporzioni imbarazzanti e decisamente confuse. Destino inevitabile dei processi, per loro natura difficilmente zippabili in una definizione. Come abbiamo visto è già accaduto ai concetti di tempo, di vita, evoluzione, intelligenza. Eppure non possiamo negare che la coscienza esiste ed ha un impatto formidabile nelle nostre vicende cognitive.

Ci riferiamo in particolare ai “qualia”, ben definiti nei lavori di G. Edelmann e di J. Humphreys, quella bussola cognitiva di stati individuali che dipendendo dal “qui” ed “ora” della nostra interazione con il mondo. Ci limiteremo qui a dire, o meglio: indicare, per evitare  il rischio di definizioni pericolose o ingannatrici, che i qualia sono il motivo per cui vi svegliate la mattina ed avete voglia di sentire la pastorale di Beethoven piuttosto che I Rolling Stones. E  non una Pastorale qualunque ma una particolare incisione di Furtwangler.

Da dove vengono questi stati? Recentemente Leonard Mlodinow ha suggerito che l’emergere dei qualia, e del comportamento che ne deriva, è l’effetto di una causalità di cui non siamo “coscienti”, introducendo così una salutare distinzione tra consapevolezza, pluralità e “peso” emotivo degli stati cognitivi. Questo è del tutto accettabile.

Proprio come l’evoluzione non può far emergere forme incompatibili con le sue premesse e vincoli o troppo distanti da queste, così la nostra mente non può valutare o anche soltanto sentire possibilità che in qualche modo non facciano già parte della nostra storia con e nel mondo. Per i sostenitori del libero arbitrio credo sia accettabile ammettere che il nostro sforzo, individuale e collettivo, di ampliare le storie possibili si scontra continuamente con la sezione d’urto che misura “quanto mondo” riusciamo a contenere nelle nostre rappresentazioni.

Come scrive efficacemente  G. Edelmann, “dove in origine c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino, oggi c’è quella più sofisticata di gustare la differenza tra un Cabernet ed un  Pinot”.

Ancora una volta, collettivamente ed individualmente, è la complessificazione  la chiave della diversità. Nicholas Humprehys nel suo saggio “la privatizzazione delle sensazioni” propone una convincente analisi sul significato evolutivo dello sviluppo della coscienza, come ottimizzazione del rapporto del flusso informativo di un sistema con l’ambiente.

Ed è questo flusso, in cui ad ogni istante diversamente siamo immersi, che rende possibile il miracolo delle risposte diverse al mondo. I nostri sensi – scusate l’apparente gioco di parole- non sono sensori. Il nostro rapporto con il mondo non è mai neutro, proprio come i dati della scienza anche le nostre osservazioni empiriche  sono sempre “theory laden”, cariche di teoria, aspettativa, anticipazione. Ed è questo che ci rende profondamente diversi da una macchina di Turing. La storia dei vincoli e codici che regolano il nostro rapporto con il mondo rende possibile continuamente un diverso “ora lo sai”, un “peso” dell’istante che non è mai soltanto astratto e razionale ma concreto, incarnato, emotivo. Ed è questo il (falso) problema delle teorie della coscienza.

Come abbiamo visto, una teoria è la descrizione di una classe di eventi strutturati in modo simile. Una qualunque teoria della coscienza può dirci qual è il suo significato evolutivo, può indagare i processi neurali o persino neuro-quantistici  che la rendono possibile, ma quel “qui” ed “ora” soggettivo resta il frutto più prezioso della coscienza.

E su quello nessuna teoria può dire nulla di scientificamente significativo, non perché sia fuori dalla portata della scienza, ma perché non riguarda una classe ma un evento unico, l’incontro singolare ed irripetibile, irreversibile, tra una mente ed un mondo attraverso un gioco privato di storie, memorie e vincoli.

Nessuna teoria può darsi dell’incontro tra una Madeleine e Proust. Il linguaggio d’elezione per parlare di quel momento “lì” non è quello della scienza, è quello dell’arte. Come scrive Giorgio de Chirico, un’opera d’arte è l’incontro di più solitudini, da quella plastica, della recezione delle forme, a quella onirica, metafisica, per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica d’accesso. Ed è peculiare preoccupazione dell’arte della buona scienza non confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e l’ora della singolarità.

da Ignazio Licata Tempo e Coscienza
http://samgha.wordpress.com/