Come per i processi biologici, anche per spiegare la coscienza è stato invocato un “miracolo”,
o un anti-miracolo, che negli ultimi anni ha preso diverse forme: da una parte
si nega l’esistenza stessa della coscienza, dall’altra si nega piuttosto che
possano esistere teorie in grado di spiegarla.
Ed anche i fisici hanno dato il
loro contributo al bazaar della coscienza, ipotizzando teorie quantistiche che
poco hanno a che fare con i dati concreti delle neuroscienze (a meno che non si
voglia lasciare il rasoio d’Occam dentro il cassetto), ma soddisfano piuttosto
l’esigenza, come ha osservato ironicamente Stephen Hawking, di voler spiegare
un mistero con un altro mistero.
Nel frattempo il termine “coscienza” si è ampliato fino ad assumere
proporzioni imbarazzanti e decisamente confuse. Destino inevitabile dei
processi, per loro natura difficilmente zippabili in una definizione. Come
abbiamo visto è già accaduto ai concetti di tempo, di vita, evoluzione,
intelligenza. Eppure non possiamo negare che la coscienza esiste ed ha un
impatto formidabile nelle nostre vicende cognitive.
Ci riferiamo in particolare ai “qualia”, ben definiti nei lavori di
G. Edelmann e di J. Humphreys, quella bussola cognitiva di stati individuali
che dipendendo dal “qui” ed “ora” della nostra interazione con il mondo. Ci
limiteremo qui a dire, o meglio: indicare, per evitare il rischio di definizioni pericolose o
ingannatrici, che i qualia sono il motivo per cui vi svegliate la mattina ed
avete voglia di sentire la pastorale di Beethoven piuttosto che I Rolling
Stones. E non una Pastorale qualunque ma
una particolare incisione di Furtwangler.
Da dove vengono questi stati? Recentemente Leonard Mlodinow ha
suggerito che l’emergere dei qualia, e del comportamento che ne deriva, è
l’effetto di una causalità di cui non siamo “coscienti”, introducendo così una
salutare distinzione tra consapevolezza, pluralità e “peso” emotivo degli stati
cognitivi. Questo è del tutto accettabile.
Proprio come l’evoluzione non può far emergere forme incompatibili
con le sue premesse e vincoli o troppo distanti da queste, così la nostra mente
non può valutare o anche soltanto sentire possibilità che in qualche modo non
facciano già parte della nostra storia con e nel mondo. Per i sostenitori del
libero arbitrio credo sia accettabile ammettere che il nostro sforzo,
individuale e collettivo, di ampliare le storie possibili si scontra
continuamente con la sezione d’urto che misura “quanto mondo” riusciamo a
contenere nelle nostre rappresentazioni.
Come scrive efficacemente G.
Edelmann, “dove in origine c’era la capacità di distinguere l’acqua dal vino,
oggi c’è quella più sofisticata di gustare la differenza tra un Cabernet ed un Pinot”.
Ancora una volta, collettivamente ed individualmente, è la
complessificazione la chiave della
diversità. Nicholas Humprehys nel suo saggio “la privatizzazione delle
sensazioni” propone una convincente analisi sul significato evolutivo dello
sviluppo della coscienza, come ottimizzazione del rapporto del flusso
informativo di un sistema con l’ambiente.
Ed è questo flusso, in cui ad ogni istante diversamente siamo
immersi, che rende possibile il miracolo delle risposte diverse al mondo. I
nostri sensi – scusate l’apparente gioco di parole- non sono sensori. Il nostro
rapporto con il mondo non è mai neutro, proprio come i dati della scienza anche
le nostre osservazioni empiriche sono
sempre “theory laden”, cariche di teoria, aspettativa, anticipazione. Ed è
questo che ci rende profondamente diversi da una macchina di Turing. La storia
dei vincoli e codici che regolano il nostro rapporto con il mondo rende
possibile continuamente un diverso “ora lo sai”, un “peso” dell’istante che non
è mai soltanto astratto e razionale ma concreto, incarnato, emotivo. Ed è
questo il (falso) problema delle teorie della coscienza.
Come abbiamo visto, una teoria è la descrizione di una classe di
eventi strutturati in modo simile. Una qualunque teoria della coscienza può
dirci qual è il suo significato evolutivo, può indagare i processi neurali o
persino neuro-quantistici che la rendono
possibile, ma quel “qui” ed “ora” soggettivo resta il frutto più prezioso della
coscienza.
E su quello nessuna teoria può dire nulla di scientificamente
significativo, non perché sia fuori dalla portata della scienza, ma perché non
riguarda una classe ma un evento unico, l’incontro singolare ed irripetibile,
irreversibile, tra una mente ed un mondo attraverso un gioco privato di storie,
memorie e vincoli.
Nessuna teoria può darsi dell’incontro tra una Madeleine e Proust.
Il linguaggio d’elezione per parlare di quel momento “lì” non è quello della
scienza, è quello dell’arte. Come scrive Giorgio de Chirico, un’opera d’arte è
l’incontro di più solitudini, da quella plastica, della recezione delle forme,
a quella onirica, metafisica, per la quale è esclusa a priori ogni possibilità
logica d’accesso. Ed è peculiare preoccupazione dell’arte della buona scienza
non confondere una classe di spiegazioni generali con il qui e l’ora della
singolarità.
da Ignazio Licata Tempo e Coscienza
http://samgha.wordpress.com/
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