Nel nostro immaginario, e per quel che attiene alla nostra esperienza quotidiana, le ombre e i fantasmi costituiscono due polarità percettive: le prime ci appaiono sempre come veli scuri e intangibili che scivolano silenziosi sopra ogni cosa, mentre i secondi si “presentano” con un diafanico e lattescente biancore, la cui evanescenza li rende inafferrabili quanto i primi. Il fatto presenta più di una curiosità (i fantasmi non proiettano ombre scure e le ombre non possono essere più chiare della luce che le proietta) se si considera che al di là delle loro proprietà percettive, il bianco e il nero rappresentano una coppia di contrari la cui portata semantica include anche significati più universali, caratterizzati dall’impossibilità dello loro coesistenza: la presenza dell’uno nega l’esistenza dell’altro, e sono esemplarmente corrispondenti alla contrapposizione vita e morte, bene e male, bello e brutto… Ciononostante, le ombre e i fantasmi rappresentano due forme di presenza fenomenica, fisica la prima e psichica la seconda, di un’assenza: entrambe manifestano la visibilità di un ente, di una cosa o di un corpo che non possono essere presenti né nello stesso spazio (là dove appare l’ombra proiettata non vi può essere il corpo che la proietta), né nello stesso tempo (il fantasma appare dopo che il corpo ha cessato di vivere).
La pittura, racconta Plinio il Vecchio, ha avuto origine dal ricalco dell’ombra proiettata sul muro dal corpo dell’amante della figlia di Butade, un vasaio di Sicione, ed è stata quindi successivamente perfezionata dai pittori Philokles Egizio e Kleanthes Corinzio, il cui stile pittorico è stato tramandato sotto il nome di “pittura lineare”. La prima immagine dipinta, dunque, consisteva nel semplice tracciamento sul muro della linea nera del contorno di una sagoma, anch’essa scura. La figura risultava pienamente visibile in virtù del contrasto tra il tono dello spazio delimitato dall’ombra e quello dello spazio esterno ad essa, la parete pienamente illuminata dalla luce irradiata dalla “lucerna”. L’ombra, in questa circostanza, rappresentava la figura, mentre la parete illuminata ne costituiva lo sfondo, determinando così un contesto in cui ha luogo un ribaltamento dell’originario Fiat lux e/o del cosmico Big bang: dall’eterna nerezza di un silenzioso sfondo di tenebre, irrompe un punto luminoso, la figura, irradiando di luce e di vita il suo intorno.
Bianco e nero, luce e tenebre, fin dalle origini costituiscono i termini di una dualità cosmica la cui valenza simbolica è condivisa da quasi tutte le civiltà umane. Da essa ha forse origine anche la nostra abitudine di codificare qualsiasi segno bianco tracciato su uno sfondo nero come un segno luminoso, come un segno di luce su di uno sfondo di oscurità.
Ma non è sempre così. Un esempio molto “illuminante”, è proprio il caso di dirlo, ci viene fornito dal disegno con gesso bianco eseguito su una lavagna di ardesia grigio scuro. Il disegno a tratti bianchi, tracciato con il gesso sulla superficie della lavagna, è uno strumento didattico utilizzato di frequente nelle aule delle scuole di ogni livello scolastico. Di fatto, i dati fisicamente rilevabili di cui si compone l’immagine disegnata altro non sono che dei tratti chiari disposti su di uno sfondo molto più scuro, quasi nero.
Eppure nessuno direbbe di vedere la forma raffigurata con questi segni come un’immagine in negativo, o in contraddizione rispetto a come siamo di norma abituati a disegnare e a vedere i disegni. Ciò che più sorprende è che questo genere di disegno viene utilizzato con disinvoltura dai bambini fin dalla scuola materna, disegno spesse volte ricopiato con una penna ad inchiostro nero su di un foglio di carta bianca. Una prima spiegazione di questo apparente paradosso percettivo è fornita dalla natura gestaltica della stessa visione: fin quando il disegno è ridotto a linea di contorno la forma dell’oggetto viene percepita correttamente perché per il nostro occhio l’aspetto figurale prevale su quello cromatico. Cosa succede, però, se aggiungiamo al disegno dei tratteggi per indicare le parti in ombra delle figure disegnate? Perché continuiamo a vedere quelle parti come se fossero davvero in ombra, e quindi scure, anche se sono in realtà coperte di gesso bianco, e quindi fisicamente più chiare delle altre? Come fa un bambino, ma anche un adulto, a vedere nella parte tratteggiata con gesso bianco la presenza di un’ombra? Il fatto che la serie di tratti accostati gli uni a ridosso degli altri vengano percepiti come l’intensificazione non della luce, ma dell’ombra scura, a dispetto del fatto di essere del tutto bianchi e quindi luminosi, costituisce un problema cognitivo e percettivo che andrebbe considerato con l’attenzione che merita.
Un fenomeno analogo si riscontrava anche nelle oramai desuete pellicole fotografiche per foto in bianco e nero. Il “negativo”, così viene definita in ambito fotografico la pellicola impressionata dalla luce, presenta anch’esso, come nel caso del disegno a gesso, le zone in ombra più chiare e quelle illuminate più scure, rendendo l’immagine o il volto riprodotto irriconoscibile al primo impatto. Eppure anche in questo caso il nostro occhio, dopo una veloce ricognizione, non confonde le forme, né le ombre con le luci, nonostante l’apparenza fisica della distribuzione della luce contraddica le nostre abitudini percettive. Anche questo caso trova la sua spiegazione nel fatto che per il nostro occhio non conta se i contrasti chiaroscurali che compongono un’immagine sono invertiti: ad essere determinante è, invece, la loro congruenza con la tridimensionalità della forma. Pertanto, il bianco del gesso sulla lavagna viene percepito come ombra, come zona più scura di una forma, perché la gestalt della figurazione prevale sulla referenzialità del valore luminoso riferito al bianco inteso come luce e al nero inteso come ombra. Nondimeno, se isoliamo una porzione di spazio ricoperto di gesso corrispondente alle zone in ombra della figurazione, esso continuerà ad apparirci come un tassello bianco splendente di luce riflessa e mai ci aspetteremmo di vederlo scuro o equivalente a un tono di ombra. Quando il contesto lo consente, e se vengono rispettate le leggi della configurazioni, anche ciò che per natura è bianco può essere percepito come scuro, e viceversa.
Le leggi dell’occhio, che sono leggi della natura, dovrebbero costituire un insegnamento anche alla percezione sociale delle diversità etniche.
Giuseppe Di Napoli www. Doppiozero.it