Che cosa mi affascina, mi tiene incantato, nelle fotografie che amo? Credo si tratti semplicemente di questo: la fotografia è per me in qualche modo il luogo del Giudizio Universale, essa rappresenta il mondo come appare nell'ultimo giorno, nel Giorno della Collera. Non è certamente una questione di soggetto, non intendo dire che le fotografie che amo sono quelle che rappresentano qualcosa di grave, di serio o perfino tragico. No, la foto può mostrare un volto, un oggetto, un evento qualunque. È il caso di un fotografo come Dondero, che, come Robert Capa, è sempre rimasto fedele al giornalismo attivo e ha spesso praticato quella che si potrebbe chiamare la flânerie (o la "deriva") fotografica: si passeggia senza meta e si fotografa tutto quello che capita. Ma "quello che capita" – il volto di due donne che passano in bicicletta in Scozia, la vetrina di un negozio a Parigi – è convocato, è citato a comparire al Giorno del Giudizio.
Che ciò sia vero sin dall'inizio della storia della fotografia, un esempio lo mostra con assoluta chiarezza. Conoscete certamente il celebre dagherrotipo del Boulevard du Temple, che viene considerato come la prima fotografia in cui compaia una figura umana. La lastra d'argento rappresenta il boulevard du Temple fotografato da Daguerre dalla finestra del suo studio in un'ora di punta. Il boulevard doveva essere stracolmo di gente e di carrozze e, tuttavia, dal momento che gli apparecchi dell'epoca esigevano un tempo di esposizione estremamente lungo, di tutta questa massa in movimento non si vede assolutamente nulla. Nulla, tranne una piccola sagoma nera sul marciapiede, in basso a sinistra della foto. Si tratta di un uomo che si stava facendo lucidare gli stivali ed è dunque rimasto immobile abbastanza a lungo, con la gamba appena sollevata per poggiare il piede sul banchetto del lustrascarpe.
Non saprei fantasticare un'immagine piú adeguata del Giudizio Universale. La folla degli umani – anzi l'umanità intera – è presente, ma non si vede, perché il giudizio concerne una sola persona, una sola vita: quella, appunto, e non altra. E in che modo quella vita, quella persona è stata colta, afferrata, immortalata dall'angelo dell'Ultimo Giorno – che è anche l'angelo della fotografia? Nel gesto piú banale e ordinario, nel gesto di farsi lustrare le scarpe! Nell'istante supremo, l'uomo, ogni uomo, è consegnato per sempre al suo gesto piú infimo e quotidiano. E tuttavia, grazie all'obiettivo fotografico, quel gesto si carica ora del peso di un'intera vita, quell'atteggiamento irrilevante, persino balordo compendia e contrae in sé il senso di tutta un'esistenza.
Io credo che vi sia una relazione segreta fra gesto e fotografia. Il potere del gesto di riassumere e convocare interi ordini di potenze angeliche si costituisce nell'obiettivo fotografico ed ha nella fotografia il suo locus, la sua ora topica. Benjamin ha scritto una volta a proposito di Julien Green che egli rappresenta i suoi personaggi in un gesto carico di destino, che li fissa nell'irrevocabilità di un'aldilà infernale. Credo che l'inferno che è qui in questione sia un inferno pagano e non cristiano. Nell'Ade, le ombre dei morti ripetono all'infinito lo stesso gesto: Issione fa girare la sua ruota, le Danaidi cercano inutilmente di portare acqua in una brocca bucata. Ma non si tratta di una punizione, le ombre pagane non sono dei dannati. L'eterna ripetizione è qui la cifra di una apokatastasis, dell'infinita ricapitolazione di un'esistenza.
Da G. Agamben, Il Giorno del Giudizio, Roma, Ed. Nottempo