Ti racconto
un episodio. Un pomeriggio a Mantova di alcuni anni fa una scrittrice
sudafricana presentava il suo libro. Si parlava di riconciliazione, della fine
dell'apartheid. Dal pubblico venivano domande sulla politica, sulla storia. Poi
una vocina, una donna minuta: «Sono una madre» dice, «come lei e sono
israeliana. I nostri paesi hanno molte cose in comune. Mi chiedo tutti i giorni
e le chiedo, come fa ogni sera a spiegare ai suoi figli che i cattivi siamo
noi, che noi siamo il male». Silenzio. Più nessun discorso intellettuale sul
ruolo della letteratura, più nessun proclama politico ottimista. Silenzio,
Dragan, silenzio.
Aveva
ragione Thomas Eliot a dire che «il genere umano non può sopportare troppa
realtà». Dobbiamo fingere di essere diversi da quello che siamo, dimenticare,
Dragan, dimenticare. E mentire.
Dimenticare
significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno
addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sentire il peso del
lavoro e della fatica dei nostri avi. Non sopportare le rughe della storia.
Poggiamo i piedi sui frutti di quelle fatiche, ma alziamo gli occhi al cielo
per non vederle.
Dimenticare
significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi.
Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine. Nulla.
Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella
del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profondità,
sottili lamine di luce su uno specchio.
Dimenticare
significa anche non avere niente davanti. Tutto finisce allo specchio, che
rimanda indietro ciò che vede. Non c'è futuro. Il futuro è modifica del
passato, in meglio o in peggio, ma è un cambiamento. A volte è rottura, è
virata secca, ma per cambiare occorre un punto di riferimento. Devo sapere cosa
voglio cambiare, per decidere come.
Dimenticare
significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile. E già sarebbe triste,
ma mentire, Dragan, mentire è ancora peggio. Vuol dire colorare quello sfondo
nero di arcobaleno, dipingerlo di ciò che vorremmo essere. Truccare il nostro
viso, come si fa con il computer, cancellarne i difetti, inventarci una storia,
un volto, chiamare le cose con il nome di cose diverse. Dare spessore a ciò che
non ne ha.
Sì, Dragan,
tutti vogliamo essere buoni e per esserlo mentiamo due volte. La prima, quando
diciamo di essere ciò che non siamo. La seconda, quando diciamo che gli altri
sono come invece non sono. Perché, per sembrare buoni a noi stessi, abbiamo
bisogno dei cattivi. Sono i buoni a decidere chi è cattivo e sono i più forti a
credere di essere buoni, solo perché possono decidere chi non lo è.
Noi buoni,
noi brava gente abbiamo bisogno di specchiarci negli occhi dei malvagi. E tu,
Dragan, sei uno di loro. Abbiamo bisogno di te. Come quei greci che avevano
bisogno dei barbari per sentirsi civili. «Erano una soluzione quella gente» ha
scritto Costantino Kavafis.
Non importa
se poi tu sei solo un bambino di undici anni, che abita in una roulotte, che va
a scuola, magari non sempre, ma ci va. Sei una soluzione, Dragan.
Marco Aime, La Macchia della Razza - Storie di ordinaria discriminazione,
Eleuthera, Milano, 2013