martedì 2 luglio 2013

Bene Comune


Nessun ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da una narrazione che glielo fornisca. Questo vale anche per il diritto di proprietà: il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito in una narrazione che gli dia legittimità e validità universale (appunto, una narrazione proprietaria), o che invece sia interpretato a partire da un racconto che lo rappresenti come violento e ingiusto.

Un esempio può forse aiutare a comprendere meglio. Nel settembre 2002, Benetton intenta causa contro i Mapuche, una popolazione amerinda stanziata tra Cile e Argentina, rei secondo la nota azienda italiana di "occupazione violenta e occulta", per aver abbattuto di notte i recinti che delimitavano alcuni possedimenti argentini di Benetton, occupandoli poi "abusivamente". Il fatto era che quei terreni costituivano parte del territorio atavico dei Mapuche, svenduto nel 1896 dal presidente Uribe e acquistato nel 1991 dalla compagnia italiana, ma su cui gli indigeni continuavano a rivendicare i loro ancestrali diritti. Il loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio Nobel argentino per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che decide di scrivere direttamente a Luciano Benetton: 



Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra ai fratelli Mapuche [...]. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all'oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché sono i legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro che hanno denaro [...]. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori [...]. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale [...]. Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere nei loro latifondi. 



Insomma, Esquivel contrapponeva ai diritti "legali" di Benetton i diritti "legittimi" dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro delle conquiste coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio alla modernità, misero fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di proprietà privata. La risposta di Benetton non si fa attendere: 



Chiedendomi 'Chi ha comprato la terra a Dio?', lei riapre un dibattito sul diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso della società civile [...]. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il miglioramento degli altri [...]. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo [...]. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito per portare l'azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti [...]. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro. 



Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno espliciti: la proprietà privata, fisica o intellettuale, "rappresenta il fondamento stesso della società civile", e come tale "è necessaria" al mantenimento e allo sviluppo produttivo dell'ordine sociale; viceversa, dove il regime proprietario è assente, ci sono solo "terre desertiche e inospitali". E questa serie di assunti che costituisce quel tipo particolare di narrazione che abbiamo definito proprietaria: il diritto di proprietà è associato a efficienza, lavoro, produttività; tutto il resto non è che abbandono, degrado e rovina. 


L'idea della proprietà come luogo per eccellenza dell'efficienza e del buon funzionamento della società ha una storia antica, ma non antichissima. Per quanto una "lunga cottura" possa farcela apparire oggi come una verità oggettiva e, per così dire, naturale, essa si afferma in un momento preciso, in una fase storica ben determinata che coincide all'incirca col passaggio alla modernità. Semplificando al massimo, si può dire (pur con molta approssimazione) che prima della modernità il proprietario era limitato nei suoi diritti dal ruolo che si pensava egli dovesse svolgere nei confronti della collettività: come scrive per esempio Tommaso, la proprietà delle ricchezze può essere privata, ma l'uso che se ne fa deve necessariamente essere collettivo, e questo perché "secondo il diritto naturale tutto è comune, e la proprietà privata è incompatibile con tale comunanza". Viceversa, a partire almeno dalla seconda metà del Cinquecento, la proprietà tende a diventare un incondizionato ius utendi et abutendi, il diritto cioè di escludere chiunque dal godimento del bene in questione e di disporre di esso a pieno titolo (anche se nei limiti stabiliti dalle leggi civili). 

(...)

oggi le recinzioni non colpiscono più esclusivamente i beni comuni materiali (terre, boschi, laghi) ma si rivolgono anche a quelli immateriali (saperi, affetti, relazioni). Non è un caso allora che il tema dei commons stia acquistando sempre più rilievo non solo a livello accademico, ma anche all'interno dei movimenti sociali che si oppongono al dilagare dell'ideologia neoliberista. Tornare oggi a rivendicare i beni comuni contro íl saccheggio sistematico del capitale significa, tra le altre cose, "espropriare gli espropriatori", riappropriarsi cioè di quei mezzi di produzione e sussistenza (tanto materiali quanto immateriali) che possano consentirci di riconquistare spazi di autonomia all'interno dei rapporti di produzione capitalistici. 

In un documento del 1847, Tocqueville profetizzava che "è tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta politica; il grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]". Oggi questa profezia pare esser divenuta realtà, e in un senso assolutamente radicale. 


di Lorenzo Coccoli in Oltre il pubblico e il privato - Per un diritto dei beni comuni, a cura di Maria Rosaria Marella, Edizione Ombre Corte, Verona, 2012,