Nessun ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da una
narrazione che glielo fornisca. Questo vale anche per il diritto di proprietà:
il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito in una narrazione
che gli dia legittimità e validità universale (appunto, una narrazione
proprietaria), o che invece sia interpretato a partire da un racconto che lo
rappresenti come violento e ingiusto.
Un esempio può forse aiutare a comprendere meglio. Nel settembre 2002,
Benetton intenta causa contro i Mapuche, una popolazione amerinda stanziata tra
Cile e Argentina, rei secondo la nota azienda italiana di "occupazione violenta
e occulta", per aver abbattuto di notte i recinti che delimitavano alcuni
possedimenti argentini di Benetton, occupandoli poi "abusivamente". Il fatto era
che quei terreni costituivano parte del territorio atavico dei Mapuche, svenduto
nel 1896 dal presidente Uribe e acquistato nel 1991 dalla compagnia italiana, ma
su cui gli indigeni continuavano a rivendicare i loro ancestrali diritti. Il
loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio Nobel argentino per la pace
Adolfo Pérez Esquivel, che decide di scrivere direttamente a Luciano Benetton:
Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il
dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso
del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra
ai fratelli Mapuche [...]. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli
nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all'oblio. Ma deve
anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle
avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come
popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché sono i
legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in
possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro
che hanno denaro [...]. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra
in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa
mentalità dei conquistatori [...]. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è
legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale [...]. Vorrei farle
una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei si sta
comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione e di potere
nei loro latifondi.
Insomma, Esquivel contrapponeva ai diritti "legali" di Benetton i diritti
"legittimi" dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro delle conquiste
coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio alla modernità, misero
fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di
proprietà privata. La risposta di Benetton non si fa attendere:
Chiedendomi 'Chi ha comprato la terra a Dio?', lei riapre un dibattito sul
diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso
della società civile [...]. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai
globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può
costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il
miglioramento degli altri [...]. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di
sviluppo [...]. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito
per portare l'azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che
questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i
suoi abitanti [...]. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui
crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a
investire per il futuro.
Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno espliciti:
la proprietà privata, fisica o intellettuale, "rappresenta il fondamento stesso
della società civile", e come tale "è necessaria" al mantenimento e allo
sviluppo produttivo dell'ordine sociale; viceversa, dove il regime proprietario
è assente, ci sono solo "terre desertiche e inospitali". E questa serie di
assunti che costituisce quel tipo particolare di narrazione che abbiamo definito
proprietaria: il diritto di proprietà è associato a efficienza, lavoro,
produttività; tutto il resto non è che abbandono, degrado e rovina.
L'idea della proprietà come luogo per eccellenza dell'efficienza e del buon
funzionamento della società ha una storia antica, ma non antichissima. Per
quanto una "lunga cottura" possa farcela apparire oggi come una verità oggettiva
e, per così dire, naturale, essa si afferma in un momento preciso, in una fase
storica ben determinata che coincide all'incirca col passaggio alla modernità.
Semplificando al massimo, si può dire (pur con molta approssimazione) che prima
della modernità il proprietario era limitato nei suoi diritti dal ruolo che si
pensava egli dovesse svolgere nei confronti della collettività: come scrive per
esempio Tommaso, la proprietà delle ricchezze può essere privata, ma l'uso che
se ne fa deve necessariamente essere collettivo, e questo perché "secondo il
diritto naturale tutto è comune, e la proprietà privata è incompatibile con tale
comunanza". Viceversa, a partire almeno dalla seconda metà del Cinquecento, la
proprietà tende a diventare un incondizionato ius utendi et abutendi, il
diritto cioè di escludere chiunque dal godimento del bene in questione e di
disporre di esso a pieno titolo (anche se nei limiti stabiliti dalle leggi
civili).
(...)
oggi le recinzioni non colpiscono più esclusivamente i beni comuni materiali
(terre, boschi, laghi) ma si rivolgono anche a quelli immateriali (saperi,
affetti, relazioni). Non è un caso allora che il tema dei commons stia
acquistando sempre più rilievo non solo a livello accademico, ma anche
all'interno dei movimenti sociali che si oppongono al dilagare dell'ideologia
neoliberista. Tornare oggi a rivendicare i beni comuni contro íl saccheggio
sistematico del capitale significa, tra le altre cose, "espropriare gli
espropriatori", riappropriarsi cioè di quei mezzi di produzione e sussistenza
(tanto materiali quanto immateriali) che possano consentirci di riconquistare
spazi di autonomia all'interno dei rapporti di produzione capitalistici.
In un
documento del 1847, Tocqueville profetizzava che "è tra coloro che possiedono e
coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta politica; il
grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]". Oggi questa profezia pare
esser divenuta realtà, e in un senso assolutamente radicale.
di Lorenzo Coccoli in Oltre il pubblico e il privato -
Per un diritto dei beni comuni, a
cura di Maria Rosaria Marella, Edizione Ombre Corte, Verona,
2012,