mercoledì 4 gennaio 2012

Diversamente vive

Fu la falsa notizia di una sua prematura scomparsa a costringere lo scrittore Mark Twain a definire ironicamente «oltremodo esagerate» le voci sulla sua morte. La frase in sé potrebbe benissimo essere ribaltata per attagliarsi alla situazione di Maria di Nazareth, sulla cui morte il senso comune dei fedeli ha avuto sempre la certezza opposta: la madre di Gesú in realtà non è mai morta.

Questa convinzione non dipende dal fatto che nel Nuovo testamento non c'è scritto che lo sia; neanche la morte di san Giuseppe è stata raccontata nei Vangeli, ma per lui non si è sentito il bisogno di inventare dogmi e narrazioni suppletive. È piuttosto una questione di sensibilità dello spirito religioso popolare: passi la morte di Cristo, che era necessaria al nostro riscatto, ma che anche Maria debba morire è cosa che il devoto nei secoli non ha mai potuto nemmeno immaginare. Sulla morte di Maria è calato da tempo un velo di nebbia anche dal punto di vista dottrinale. Da un lato la teologia non ha mai negato che la madre di Cristo fosse defunta, e del resto se è morto Gesú perché non sarebbe dovuta morire Maria? Ma dall'altro i predicatori e i pastori si son sempre guardati dall'offendere la sensibilità popolare rilasciando una troppo esplicita certificazione di decesso.

Dalla concezione immacolata fino alla nascita, dall'annunciazione fino all'assunzione, sul calendario gregoriano esiste una ricorrenza liturgica per ogni momento della vita di Maria tranne che per la sua morte; persino il dogma che ne sancisce l'assunzione al cielo, avvenuta senza dubbio post mortem, non dice mai esplicitamente che la Madonna è deceduta, preferendo affermare con prudenza che l'assunzione ebbe luogo solo dopo che ebbe «terminato il corso della sua vita terrena». Comunque la si voglia presentare, Maria per il cattolicesimo risulta, piú che morta, diversamente viva.

Sebbene la tradizione popolare posizioni la presunta tomba di Maria a Gerusalemme, le agenzie specializzate in turismo religioso la inseriscono tra le mete facoltative nei tour devozionali. Non è tanto la non storicità il motivo del disinteresse - altrove prosperano culti di ben piú imbarazzante infondatezza - quanto la scarsa attrazione verso un luogo dove, almeno nella percezione dei fedeli cattolici, Maria di Nazareth non è in realtà mai stata seppellita.
P
er i cristiani ortodossi la questione è se possibile ancora piú radicale, perché della teorizzazione della non morte della madre di Gesú sono state proprio le Chiese d'Oriente a dare la poetica definizione di Dormitio Mariae, assimilando lo stato di morte al massimo grado di passività che sia possibile raggiungere restando in vita: il sonno. Per questo anche in Italia tutti i territori che sono stati a lungo sotto l'influenza bizantina venerano la Madonna Assunta in posizione orizzontale, dormiente, incoronata come una regina e distesa su un letto sontuoso vegliato discretamente da angeli oranti.

La sensibilità popolare ha idee molto chiare in merito allo stato di questa particolare tipologia di bella addormentata. Nel mio paese d'origine, dove la chiesa patronale è dedicata proprio a questa specifica raffigurazione dell'Assunta, la preghiera popolare afferma senza tentennamenti che «morta no, ma ses dormída, santamente reposende». Dormída, cioè addormentata. Non esistono raffigurazioni artistiche di Maria morta che abbiano mai avuto qualche fortuna popolare. Quando Caravaggio provò a rompere il tabú, dipingendo il capolavoro Morte della Vergine, che la leggenda vuole ispirato al corpo esanime di una prostituta annegata nel Tevere, si vide rimandare indietro l'opera dai frati committenti, offesi dal realismo blasfemo di quel corpo gonfio e livido. L'assunzione al cielo di Maria ha infatti nella devozione popolare, o anche solo nell'immaginario culturale, una raffigurazione del tutto diversa, che nega implicitamente che la Vergine sia mai dovuta passare attraverso l'umiliazione del decesso corporeo: viva e vegeta, Maria sale al cielo incoronata in una profusione di luce, circondata da angeli e santi in una solenne cornice di nubi.

Laddove Cristo ancora oggi muore simbolicamente mille volte al giorno su tutti i muri delle nostre scuole, nell'intimità delle nostre case di credenti, dietro i banchi dei tribunali e sui petti siliconati delle soubrette, la morte di Maria è stata cancellata e sottratta alla rappresentazione, cristallizzando per tutte le donne un modello divinizzato a cui nessuna può accostarsi con qualche speranza di identificazione.

Nell'iconografia dominante, quella che ha fondato il nostro immaginario collettivo, la madre di Cristo ha con la morte un rapporto di sola contemplazione: è la Mater Dolorosa ai piedi della croce, icona del dolore permanente al capezzale della fine di un altro. Questo silenzioso Stabat è la pietra miliare della costruzione dell'idea di Maria come vestale afflitta e funzionale, predestinata a divenire il modello ferreo per la femminilità di quasi venti secoli. La donna ai piedi della croce non è solo l'eterna testimone della morte altrui.

Una Madonna che non conosce la propria fine offre alle donne credenti un patto di mimesi insostenibile, perché stipulato con un soggetto simbolico dal corpo intangibile, sottratto al tempo e in definitiva privo di limite. Se la «Maria che non muore» rappresenta la perfezione a cui non giungeremo mai, se è lei - l'Eternamente giovane - l'obiettivo a cui tendere, significa che in questo gioco siamo destinate a perdere comunque, a meno di non ricorrere a espedienti per ridurre la distanza dal modello. Per questo l'ossessione sociale del «restare in forma» deve spingerci a domandarci nella forma di cosa (o di chi) viene chiesto di riconoscersi. La chirurgia estetica in continuo sviluppo, la cosmetica antiage che ci lusinga dagli scaffali e la maniacale manutenzione da palestra a cui ci sottoponiamo non sono solo l'effetto del martellamento pubblicitario che denigra le nostre normalità, ma sono segnali di un desiderio di trasformare il corpo in santuario immutabile, l'indizio dell'incapacità di fare pace con la morte, la nostra.

Il processo di riappropriazione della propria complessità per le donne deve passare attraverso la costruzione di un sano immaginario del limite. È una questione di sopravvivenza, e non solo in rapporto a se stesse, perché la donna rappresentata da Maria offre anche all'uomo un modello inaccessibile e frustrante con cui rapportarsi. Impossibile da possedere, intangibile al tempo e alla sua consunzione, la donna-santuario resta un mistero davanti al quale o ci si inginocchia o si bestemmia.

Michela Murgia, Ave Mary -  Einaudi, Torino, 2011