martedì 31 gennaio 2012

Deserti della nostra epoca


Anno 1986. Discorso su una mareggiata che ha investito e distrutto lunghi tratti di litorale adriatico. Dal volume Traversate del deserto, Edizioni Essegi, Ravenna, curato da Vilmes Rabboni, Gianni Celati, Luigi Ghirri, Roberto Papetti, Giovanni Zaffagnini, Guido Mazzara e altri.
Scrive Max Frisch in Stiller(1): «Quanto deserto vi è su questo pianeta che ci ospita non l'avevo mai saputo prima, l'avevo soltanto letto; né mai avevo saputo fino a qual punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d'una piccola oasi, inverosimile come la grazia».

Tra questa intuizione e la mareggiata che recentemente ha investito il litorale adriatico, facendoci scoprire ad un tratto che trenta o quaranta chilometri di costa, già devastati dal turismo e dalle speculazioni, sono un puro deserto senza ripari – tra queste due illuminazioni c'è un filo di pensiero che, se sviluppato, ci porta a vedere il deserto sulla soglia d'ogni luogo abitato, d'ogni nostra casa, e alla fine ci porta anche a vedere il carattere illusorio d'ogni addomesticamento del pianeta.

Questo filo di pensiero dice anche che noi non siamo i padroni del pianeta, benché questa sia la nostra convinzione più profonda. Ci dice che la nostra dimora è sempre precaria, benché lo sforzo delle civiltà moderne consista nel far scordare agli uomini la precarietà della loro presenza. Ci dice infine che, in questa tarda fine d'epoca, non c'è alcun lavoro di ricerca con qualche autenticità, senza riferimento all'emblema del deserto. Perché è il deserto che alla fine poeti e fotografi, narratori e filosofi, hanno sempre di fronte, quando mandano richiami verso il mondo.

Questo è un emblema non solo della nostra miseria epocale, ma anche dell'enorme sforzo immaginativo che è richiesto da ogni attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto che ci avvolge, miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si negano a vicenda: e avremo allora deserti che sono immagini di pienezza, la grazia della piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all'orizzonte, la parola ritrovata per mezzo del silenzio, gli uomini come piante, le ere mitiche come paesaggio quotidiano, e il vento volatore che attraversa la valle.

Ma quando miseria e immaginazione, deserto e pienezza, parole e silenzio, vengono forzatamente separati per operare delle «chiare ripartizioni» (cosa si chiede, infatti, agli esperti, se non di operare delle «chiare ripartizioni»?), allora inizia la devastazione senza ripari, nei terreni, nell'aria, nelle acque e nella mente.

La miseria incosciente comincia a prendere se stessa per ricchezza: e comincia a sostituire l'immaginazione con surrogati rappresentativi, in cui il deserto e il vuoto sono negati, dimenticati, man mano che cresce la desertificazione del mondo e l'esposizione a una grande precarietà – come sul litorale adriatico. Grazie a tanta incoscienza, man mano che la precarietà non è più ricordata come qualità originaria della nostra dimora, ma pensata come insufficienza momentanea e rimediabile, allora perde valore: perché «l'inverosimile grazia della piccola oasi», di cui parla Max Frisch, viene data per scontata come il funzionamento d'una lavatrice.

Sono i segni di un'epoca in cui il deserto diventa sempre più il cammino da riprendere, la via da ritrovare, il silenzio da attraversare per poter ancora parlare con gli altri. Negli scrittori e fotografi qui presentati, il deserto è questo cammino: è la via del silenzio, la celebrazione della piccola oasi, la scoperta di qualche traccia mitica baluginante, o accecante, o commovente, la presenza d'un fiore, d'un animale, d'un sasso, nell'indifferente deserto planetario – ciò che comunque si chiama Natura.

Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Ed. Quodlibet, Macerata, 2011


(1)    Max Frisch, Stiller, Mondadori, Milano, 1991