La scorsa settimana, ero in ospedale, a Bologna, nella stanza di fronte alla mia c’era una ragazza di Rimini e suo babbo, dopo avermi preso un po’ in giro perché non son tanto capace di fare le cose pratiche, non al livello che chiamo l’elettricista per cambiare le lampadine ma quasi, quando gli ho detto che era vero, ero un po’ imbranato con le cose pratiche, e dopo che mi sono sentito, inspiegabilmente, in dovere di aggiungere “Ho altre qualità”, lui, questo signore di Rimini con una ragazza all’ospedale di Bologna mi ha detto “Lo sappiamo”. E mi ha raccontato che suo fratello, quand’era stato lì in ospedale il giorno prima mi aveva riconosciuto da certi servizi che aveva visto in una trasmissione che c’era quest’inverno che si chiamava Volo in diretta e gli aveva raccontato che genere di cose faccio “L’è un comunésta” aveva detto alla fine. E l’aveva detto con un tono, come se fosse un complimento, difatti l’avevo poi detto al fratello di questo che mi aveva dato del comunésta, “Sembra un complimento”, e il fratello mi aveva risposto dicendo “Ah, be’, a casa nostra”, con un tono come per dire che era normale, a casa loro, che essere un comunésta fosse considerato un complimento. E, al di là del fatto che credo di non essere, un comunésta, soprattutto nel senso che a questa parola mi sembra desse il fratello di quel signore che ha parlato con me l’altro giorno a Bologna, mi è piaciuto questo fatto linguistico che vince le svolte della Bolognina, il tribunale della storia, mi è piaciuto scoprire una parola come intatta, che si pronuncia ancora con l’intonazione con cui la si pronunciava cento anni fa.
Paolo Nori – su Libero - venerdì 19 aprile 2013