venerdì 30 maggio 2014

L'erba è verde


Dicono che certi batteristi rock degli anni Settanta si rinchiudessero intere settimane nei magazzini della Zildian o della Paiste per scegliere i piatti migliori. Mi immagino, che so, quel matto di John Bonham (Led Zeppelin) o Ginger Baker (Cream) giornate a provare i piatti, a farli cantare per scegliere la fusione più riuscita, quella dal suono perfetto. Poi, alla fine, tutto viene scartato, rimane solo il piatto, il suono.

Come i batteristi anche Goffredo Parise con i Sillabari è andato alla ricerca del suono migliore, perfetto, nel quale la realtà si compie. Lo ha fatto dopo un lungo percorso, anzi una complessa peregrinazione che lo ha portato ad “ascoltare” tanti suoni, dai romanzi non neorealisti in epoca neorealista, ai grandi reportages dai mondi socialmente e politicamente più impervi del pianeta, alle polemiche civili in cui, se partecipavi, farsi male era un rischio concreto, sino a giungere all’individuazione delle essenze quasi minerali dei Sillabari. Quando uscì il primo, 1972, era un’epoca di turbolenze in ogni piano della realtà, ma un giorno, scrive Parise, “nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l’erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel l’erba è verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia. Pensai a Tolstoj che aveva scritto un libro di lettura non soltanto per bambini e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini, pensai che essi avevano scordato che l’erba è verde,che i sentimenti dell’uomo sono eterni e che le ideologie passano”. Di qui nascono quelle piccole prose fatte di versi, tratti lievi e nitidissimi, con cui Parise racconta le emozioni più complesse e sottili. È il suono perfetto che si produce quando percuote il mondo, toccandolo o sfiorandolo appena, e ne fa scaturire una sorta di sintesi assoluta. Come alla ricerca dell’armonico naturale, sempre per restare nella metafora musicale, quel suono che scaturisce dallo sfiorare appena la corda della chitarra con la mano sinistra, un suono lungo e calmante, usato spesso come conclusivo e definitivo, “un amalgama in cui al suono fondamentale se ne aggiungono altri più acuti e meno intensi” (Wikipedia).

Quando fu pubblicato Sillabario n.1 l’autore fu maltrattato, agli intellettuali “in lotta” lui appariva come un inutile gagà, un personaggio dei romanzi di Maugham, uno che amava le lenzuola di seta del Ritz di Parigi. E lo diceva pure. E scriveva di cose evanescenti, sfumate, impercettibili, di sentimenti, di atmosfere inutili e vaghe. I suoi personaggi e i paesaggi in cui si muovevano erano dei disadorni un uomo, una donna, un bambino, una città italiana, una località di mare, dei campi, i tempi erano un giorno, un inverno. D’altro canto lo aveva dichiarato, il suo programma “non politicizzato” era di “scrivere dei racconti e dei libri possibilmente buoni, fare con estrema coscienza e sincerità e amore il mio lavoro. Tendere sempre con tutte le mie forze alla tanto disprezzata ‘poesia’, cioè a quella parte ‘alta’ dell’uomo in cui credo e su cui ho fondato la mia vita, perché essa è servita a lenire tanti dolori nella passata e presente storia dell’uomo” (“Il Gazzettino”, 31.10.1972).


È molto probabile che diversi tra quegli intellettuali che “militavano” leggessero Parise sotto le coperte per non farsi vedere da nessuno, è possibile che quel richiamo alle cose fondamentali degli uomini non sfuggisse proprio a tutti, non è pensabile che un tale amore per le delicatezze degli esseri umani passasse e andasse così stupidamente perduto. Ma non si poteva dire, non si poteva sostenere, quella di cui parlava Parise semmai era la strategia, il fine, il che cosa a cui tendere, ma in quel momento, nel fuoco sociale dei Settanta, era la tattica a dominare, il come “battere il nemico di classe”. C’è voluto almeno un decennio prima che i Sillabari fossero capiti. Così Giovanni Giudici, un poeta, non per caso, di Sillabario n. 2,“testo non labile in un’era dominata dalla labilità”, diceva: “Niente [...] è più ‘bello’ di una scrittura (e quella di Parise mi sembra tale) che nel mare della lingua umiliata dalla chiacchiera, mortificata dalla retorica, ridicolizzata dalla muscolarità dei mattatori, riesca a carpire, a ‘tradurre’, a incidere nel cuore del lettore il segno delle sue pur lievissime unghiate. Quanto meno pretende di ‘dire’, anzi ‘stradire’, tanto più essa ‘è’” (“L’Espresso”, 27.6.1982).

Tratto da Moretti e Parise, cercatori di suoni di Mauro Portello

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