venerdì 6 settembre 2013

Un anello geniale

Anche se molte delle cose di cui ci serviamo sono diventate immateriali, invisibili, o digitali, le chiavi continuano a essere uno strumento indispensabile per la nostra vita pratica. L’elenco di quelle che possediamo è ampio: casa, seconda casa, macchina, ufficio, cassetta della posta, lucchetto della bicicletta, ecc. Non si vedono in giro, salvo negli hotel, le nuove chiavi elettroniche, con password o mezzi d’identificazione personale.

L’oggetto che resta fondamentale per il loro uso è l’anello portachiavi. Si tratta di uno strumento che tutti usano, ma nessuno vede. È probabilmente il più umile oggetto che utilizziamo ogni giorno. Composto di un doppio giro in metallo, prodotto ingegneristico geniale, è costituito da una spirale d’acciaio con due spire chiuse una sull'altra. In apparenza sembra un anello chiuso, in realtà, come tutti sanno, si può aprire forzando la spirale, aprendola appena, per inserire una nuova chiave o estrarne una. Non presenta nessun meccanismo, né parti mobili, e la sua maggior qualità è l’elasticità. 

Gli studiosi di oggetti reputano che la tecnologia per realizzare l’anello a spirale sia stata prodotta centinaia di anni fa, mentre l’oggetto in uso oggi è più recente, ed è entrato nel mercato negli Anni Settanta del XX secolo sostituendo la catenella a pallini di metallo utilizzata sino a quel periodo. Non c’è oggetto che possa gareggiare con l’anello portachiavi per essenzialità e persino eleganza. Si trova in vendita nelle ferramenta a pochi centesimi, o al massimo a un euro, a seconda del tipo di metallo o della sua grandezza.


Quelli comunemente in circolazione contengono cinque o sei chiavi, cui, nel caso di mazzi più ampi, vengono agganciati altri anelli più piccoli. Nel tempo l’anello è diventato il supporto di gadget pubblicitari o turistici, souvenir e portachiavi promozionali, ma restando sempre quasi invisibile. Lo troviamo inserito nel moschettone in ottone d’origine marinara, di moda negli Anni Settanta e Ottanta, o in quello più tecnico usato in montagna che ancora si vede in giro. Come ha scritto un esperto di tecnologia, il piccolo e banale anello è il custode di una parte consistente della nostra vita, garantendo l’accesso sicuro a luoghi chiusi, dall'auto alla casa, dalla cantina al garage. 

In quanto oggetto di design non ha autore e rientra in quello che Munari definiva il design anonimo. Come molte altre cose importanti, non è coperto da copyright. Perfetto.

Marco Belpoliti La Stampa 22/07/2013

lunedì 2 settembre 2013

verità


La verità che di rado si rivela si presenta come una Patria che, anche quando siamo svegli, ci chiama.

Sono la menzogna o il semi-inganno delle rappresentazioni ad aver bisogno di essere creduti. Mente il richiamo della verità è l’ultimo a sentirsi, con un’immagine accennata appena, deserto del pensiero, mare dell’anima, montagna del cuore.

Perciò, quando la verità è proferita sembra menzogna e non suole essere creduta, mentre la menzogna e l’inganno sono avidamente elevati a cosa certa e perciò l’innocente, l’accusato, l’idiota, l’esiliato, tacciono. Tacciono perché fuori da tale Patria la loro parola sembrerebbe menzogna e in patria non c’era nulla da dire.

Mostra il sognare, dunque, che la verità, prim’ancora che oggetto della scoperta o della rivelazione – la celebre aletheia -, si fa sentire come la patria che chiama. Come campo gravitazionale di certi sogni chiari, come muta condanna dei sogni d’ingannevole giustificazione; come attualizzazione dell’orizzonte ultimo. 

Chiama facendosi sentire semplicemente, e in silenzio, e in musica e in pace. E con qualche parola in libertà, senza significato alcuno; la parola che manifesta solamente l’umana predestinazione.

Marìa Zambrano - Il sogno creatore - Bruno Mondadori, Milano 2002 - pp. 44-45

venerdì 2 agosto 2013

Dimenticare


Ti racconto un episodio. Un pomeriggio a Mantova di alcuni anni fa una scrittrice sudafricana presentava il suo libro. Si parlava di riconciliazione, della fine dell'apartheid. Dal pubblico venivano domande sulla politica, sulla storia. Poi una vocina, una donna minuta: «Sono una madre» dice, «come lei e sono israeliana. I nostri paesi hanno molte cose in comune. Mi chiedo tutti i giorni e le chiedo, come fa ogni sera a spiegare ai suoi figli che i cattivi siamo noi, che noi siamo il male». Silenzio. Più nessun discorso intellettuale sul ruolo della letteratura, più nessun proclama politico ottimista. Silenzio, Dragan, silenzio.

Aveva ragione Thomas Eliot a dire che «il genere umano non può sopportare troppa realtà». Dobbiamo fingere di essere diversi da quello che siamo, dimenticare, Dragan, dimenticare. E mentire.

Dimenticare significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sentire il peso del lavoro e della fatica dei nostri avi. Non sopportare le rughe della storia. Poggiamo i piedi sui frutti di quelle fatiche, ma alziamo gli occhi al cielo per non vederle.

Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno specchio e non vedere nulla dietro la nostra immagine. Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio.

Dimenticare significa anche non avere niente davanti. Tutto finisce allo specchio, che rimanda indietro ciò che vede. Non c'è futuro. Il futuro è modifica del passato, in meglio o in peggio, ma è un cambiamento. A volte è rottura, è virata secca, ma per cambiare occorre un punto di riferimento. Devo sapere cosa voglio cambiare, per decidere come.
Dimenticare significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile. E già sarebbe triste, ma mentire, Dragan, mentire è ancora peggio. Vuol dire colorare quello sfondo nero di arcobaleno, dipingerlo di ciò che vorremmo essere. Truccare il nostro viso, come si fa con il computer, cancellarne i difetti, inventarci una storia, un volto, chiamare le cose con il nome di cose diverse. Dare spessore a ciò che non ne ha.

Sì, Dragan, tutti vogliamo essere buoni e per esserlo mentiamo due volte. La prima, quando diciamo di essere ciò che non siamo. La seconda, quando diciamo che gli altri sono come invece non sono. Perché, per sembrare buoni a noi stessi, abbiamo bisogno dei cattivi. Sono i buoni a decidere chi è cattivo e sono i più forti a credere di essere buoni, solo perché possono decidere chi non lo è.

Noi buoni, noi brava gente abbiamo bisogno di specchiarci negli occhi dei malvagi. E tu, Dragan, sei uno di loro. Abbiamo bisogno di te. Come quei greci che avevano bisogno dei barbari per sentirsi civili. «Erano una soluzione quella gente» ha scritto Costantino Kavafis.

Non importa se poi tu sei solo un bambino di undici anni, che abita in una roulotte, che va a scuola, magari non sempre, ma ci va. Sei una soluzione, Dragan.



Marco Aime, La Macchia della Razza - Storie di ordinaria discriminazione, Eleuthera, Milano, 2013

giovedì 25 luglio 2013

Psicometropoli




Che cos’è Astana? Una città utopica? Un sogno di metallo, vetro e cemento? Un incubo post-sovietico? La sede del futuro regno massonico mondiale? O ancora: Dubai sottozero proprio nel centro della steppa asiatica? Difficile dire a cosa somigli, o cosa ricordi la capitale del ricco stato del Kazakhstan dotato d’immense ricchezze sotterranee (petrolio, gas naturale, uranio, manganese, rame, oro, acciaio, carbone) e grande più dell’Europa intera. Questa Shangri-La del XXI secolo è la capitale edificata ex novo da un visionario capo dell’ex Impero sovietico, il Presidente Nazarbaev. Indipendente dal 1991, il Kazakhstan è governato dal 1994 mediante una costituzione emanata ad hoc dal suo Sovrano democraticamente eletto, che le ha imposto un nome kazako: Astana significa infatti “la capitale”. Ovvero: “il posto dove si prendono le decisioni”; in antico persiano è invece il nome del luogo dove si adora la tomba del santo.

Nel viale centrale dell’immaginifica città s’erge una torre alta alcune centinaia di metri sulla cui sommità è collocata una sfera: il globo d’oro. Disegnata da sir Norman Foster, celebre architetto inglese, rappresenta l’albero magico su cui è assiso l’uccello della felicità: Samkur. Secondo una leggenda locale il globo è il suo uovo. Il tutto in realtà appare simile a un trofeo dall’esorbitante altezza, sottile e astruso, simbolo di un potere che si vuole assoluto e soprattutto capace di produrre quella che Anthony Vidler, in Il perturbante dell’architettura (Einaudi), chiama la psicometropoli. Dall’alto dell’uovo si può osservare il panorama della città, e porre la propria mano nella “cosa”, un tavolo magico ricoperto di simboli sincretici, su cui è impressa l’impronta della mano del Presidente.

La popolazione della capitale è ancora sotto il milione di abitanti, poiché si trova in una delle zone più fredde del pianeta, con escursioni di anche 70 gradi tra estate e inverno, ma è prevedibile che presto i suoi grandi palazzi, simili ai grattacieli eretti da Stalin tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta nel centro di Mosca, saranno abitati da migliaia di persone che affluiranno dalle varie parti del paese. Astana è però una psicometropoli non solo per i suoi simboli, ma prima di tutto per l’eclettismo delle sue forme, cui non corrisponde un contenuto preciso, bensì una evidente forza psichica bizzarra e stordente. La capitale kazakha è un’utopia regressiva, una distopia, rivolta verso il passato, eretta con la volontà di stupire, affascinare, e soprattutto ammonire.

I palazzi ultramoderni, disegnati da Kisho Kurokawa, si mescolano alle riprese dell’architettura viennese del Karl Marx Hoff, ai templi sincretici che ibridano stili persiani e fantasie hollywodiane, alle cupole geodetiche, alle svettanti torri in vetro e acciaio che lasciano il visitatore a bocca aperta nella Pyongyang del capitalismo post-sovietico. Norman Foster ha progettato una gigantesca tenda, Khan Shatyr, di oltre 150 metri di altezza, che ricopre un parco, un fiume, un centro commerciale e una spiaggia. Astana è l’effetto del post-urbanesimo, che nei paesi emergenti dell’Asia si esplica nella costruzione di città-fantastiche, frutto del disegno di autocrati, come è accaduto a Singapore, prototipo delle città cinesi del XXI secolo di cui racconta Rem Koolhaas.

La città kazaka è figlia non solo delle fantasie di un sovrano cripto-massonico, che adora la forma-piramide, ma anche della volontà inconscia di creare sempre nuove città-utopiche, città impossibili, eppure esistenti, come Brasilia di Niemeyer e Chandigarth di Le Corbusier. Gli architetti europei e asiatici hanno trovato alla corte di Nazarbaev il clima giusto per produrre quella tabula rasa del nuovo che nel post-postmodernismo non ha più la preoccupazione di rispondere a forme date, a un progetto organico. Il masterplan della capitale kazaka contempla il succedersi di architetture sempre diverse.

Se ci si aggira tra le piramidi massoniche, centri di forza astrale, e le torri ritorte dei nuovi grattacieli, ci si rende conto che qui l’architettura “prova nostalgia per un momento proiettato in avanti verso un evento che non si è mai verificato” (Vidler). Astana c’è, esiste, ma è allo stesso tempo anche una città fantasma, la realizzazione in materiali nobili e pregiati di un sogno in 3D uscito dallo schermo cinematografico: Las Vegas e la città di Blade Runner, le città invisibili di Calvino e una nuova Brasilia nel gelo asiatico. Una città di simboli e magie, d’incubi e potenze occulte, città giardino e insieme Disneyland massonica, tentativo di concentrare su di sé un potere magico sfuggendo con le proprie simbologie alle strettoie della Storia, per entrare direttamente nel Mito.




giovedì 18 luglio 2013

Melancolia e futuro



Ritorno al futuro è il titolo di un film di successo che narra di una moderna macchina del tempo. Nel cuore degli anni Ottanta, un adolescente della classe media americana e un inventore scombinato si ritrovano nel 1964 col problema di tornare indietro, all'epoca cui appartengono. La pellicola, nella sua semplicità, dà corpo a una sensazione che nell'Occidente capitalistico durante gli ultimi decenni si è sempre più rafforzata: la storia è finita, il picco umano dell'evoluzione tecnico-economica è stato raggiunto, l'unico modo per cambiare il futuro è tornare sui propri passi. La necessità di tornare indietro e fare diversamente, sulla cui realizzazione fantastica ruota l'intera pellicola, è terreno fertile per la coltura delle passioni melanconiche. Le cito al plurale per sottolineare le molte sfumature e le vesti cangianti sotto le quali la melanconia appare: in un paesaggio serale, in una canzone senza pretese, in un odore che riporta indietro verso tempi lontani. La varietà delle forme sensoriali che travestono la melanconia stona però con un dato altrettanto appariscente: la melanconia gode oggi di una reputazione melliflua e stantia. 

Le maldicenze circa questo stato d'animo riguardano gli ambiti più diversi: dall'articolo del quotidiano al saggio filosofico, dalla teoria politica alla critica d'arte il termine "melanconia" è di solito considerato sinonimo, perlomeno parente prossimo, di "triste", "nostalgico", "bloccato nell'agire e nel dire".
Anche le ricerche che negli ultimi cinquant'anni hanno tentato di riabilitarne la storia e mostrarne la complessità hanno rischiato, loro malgrado, di peggiorare la situazione. Saturno e la melanconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1964) ha contribuito a legare in modo indissolubile questa passione alla celebre incisione di Dürer con la sua protagonista alata ma immobile.

[…] mentre oggi "melanconia" è divenuto sinonimo di "depressione" e "tristezza nostalgica", alle sue radici la passione che si credeva fosse legata all'azione di una sostanza specifica, la nera bile (la mélaina cholé, da qui il termine italiano), era propria di un temperamento completamente differente. Il melanconico era colui che, messo di fronte a trasformazioni repentine, non riusciva a rendersi subito conto di quel che lui stesso era riuscito a compiere. Nel bene e nel male: nel salvare la città o nell'uccidere i propri compagni, la melanconia è protagonista di una dinamica fatta di azioni e parole volta al cambiamento di una forma di vita.


Marco Mazzeo Melanconia e rivoluzione - Antropologia di una passione perduta, Editori Riuniti, Roma, 2012, Navigazioni

giovedì 11 luglio 2013

Filosofia e mondo del lavoro si possono incontrare?



La Scuola Superiore di Filosofia in Pratica organizza a Roma il Master in Filosofia in pratica nelle organizzazioni complesse.  Inizio: 27 settembre 2013.

Il titolo di questo Corso di alta formazione può suscitare una sorta di duplice spiazzamento. Da una parte sembra veramente strano pensare a una filosofia che sia “pratica” e che si realizzi in attività pratiche e, dall’altra, ancora più strano potrebbe sembrare il fatto di accostare la filosofia alla realtà che tutti noi viviamo quotidianamente nei luoghi di lavoro. 

Ne parliamo con Myriam Ines Giangiacomo presidente della Scuola Superiore di Filosofia in Pratica e direttore didattico del percorso formativo.

VV: Puoi spiegarci prima di tutto che cos’è la “filosofia in pratica”?

MIG: In generale, l’espressione “filosofia in pratica” fa riferimento a un operare in stile filosofico – ad esempio adottando l’analisi critica e le pratiche dialogiche, riflessive e argomentative, e dando attenzione alle tonalità affettive del pensare e dell’agire - nelle situazioni problematiche della vita quotidiana, personale e professionale. Possiamo descrivere la FiP come un’attività specificamente orientata alla riflessione, all’interrogazione e al riconoscimento dei presupposti impliciti che governano la vita, il lavoro e la società. Usa uno stile di riflessione argomentativo e rigoroso per comprendere e affrontare frangenti problematici singolari, e si avvale di competenze disciplinari specifiche per intervenire nelle situazioni complesse.

La FiP ha un ruolo cruciale nello spazio dell’agire sociale, organizzativo e professionale e una generale vocazione “politica” che prende corpo nell’ideale di comunità di ricerca, un ambiente relazionale in cui il dialogo filosofico si propone come esercizio di cittadinanza attiva e responsabile e come via per dare corpo e sangue alla “democraticità” nella sua doppia determinazione etica ed epistemologica.

VV: E in che modo, secondo te, e con quale utilità la “filosofia in pratica” può entrare in organizzazioni di natura diversa come aziende, istituzioni, associazioni, cooperative, ecc?

MIG: Gli ambienti di lavoro oggi sono “contesti a elevata complessità” caratterizzati da una molteplicità di relazioni intra e inter-organizzative in cui il clima di incertezza e la pressione sui risultati hanno accentuato l’enfasi sul “fare” e reso la comunicazione ipertrofica ma nei quali ci si trova, spesso, davanti a un vuoto di senso. Quando tutto appare imprevedibile e impalpabile, diventano necessari approcci diversi e mentalità nuove e nuove organizzazioni animate da leader e manager capaci di visione e di pensiero critico e in grado di “generare senso” e di integrare in chiave evolutiva i saperi.

Attraverso un approccio trasversale e multidisciplinare, la FiP favorisce lo sviluppo della capacità di costruire ampie cornici di senso nelle quali gli individui possano inscrivere la loro esperienza, gestire situazioni complesse, analizzare i saperi, le “teorie in uso” e i modelli mentali messi in campo nell’affrontare la realtà, e apprendere dall’esperienza. La FiP si realizza mediante pratiche grazie alle quali è possibile affrontare le implicazioni filosofiche della vita organizzativa senza dimenticare temi - centrali per la teoria e la pratica manageriale - che presentano una evidente natura filosofica quali i presupposti del management, i suoi concetti chiave come leadership, sense-making, efficacia, strategia, ecc., i suoi miti e rappresentazioni, le metodologie adottate per il decision-making e il controllo, per l’analisi e la progettazione organizzativa, per la definizione degli obiettivi e la misurazione delle performance, ecc, i temi etici e quelli legati ai diritti dei lavoratori.
Rispetto a temi come questi, l’impiego di tecniche e metodi specificamente filosofici può aiutare a creare i presupposti teorici e pratici dell’agire, a problematizzare i concetti fondamentali, a elaborare la visione che i manager hanno di se stessi e delle organizzazioni e a strutturare specifiche metodologie. Tutto questo nella direzione dell’apprendimento individuale e organizzativo insieme.

VV: Mi sembra di capire, stando a quello che hai detto fino ad ora, che la FiP possa dare a chi lavora in un’organizzazione, magari in posizioni manageriali, competenze “filosofiche”, che tu hai descritto molto bene, che vanno ad affiancare altre competenze più specialistiche. Mi piacerebbe però sapere se il master forma alla professione del “filosofo pratico” e, se sì, cosa andrà a fare quindi il filosofo pratico in un’organizzazione?

MIG: Il master è nato per rispondere a due esigenze potenzialmente complementari. La prima: aiutare chi già opera nelle aziende e ha una competenza di base filosofica – o più in generale umanistica – a utilizzare appieno una tale formazione universitaria nel contesto organizzativo in cui si trova, coniugandola con le proprie competenze specialistiche, anche ampliandole. La seconda: offrire, a chi ha questa formazione universitaria e desidera candidarsi per l’inserimento all’interno di una organizzazione, una formazione di base in general management per poter essere rapidamente operativo.
In via generale il “filosofo pratico” potrebbe essere definito come un “consulente di processo” (il riferimento è certamente a Schein) anche laddove, dentro un’organizzazione, si ponga come fornitore interno di un cliente interno. La nozione di consulenza di processo implica che il consulente, chiamato a operare in un’organizzazione, non sia visto come un esperto di contenuti ma come un professionista in grado di facilitare il compiersi di un percorso che vede come attore primario il cliente il quale, avendo una conoscenza migliore del proprio problema rispetto al consulente, sarà anche in una posizione migliore per individuare e valutare le diverse possibilità di azione. Il “filosofo pratico” agisce quindi nella relazione, facendola diventare un'opportunità di crescita professionale e personale per i singoli e per l’organizzazione nel suo complesso, in modo da far emergere le soluzioni dal contesto stesso vincendo le resistenze e le difese sempre presenti negli ambienti organizzati, soprattutto nei momenti di cambiamento.
Il “filosofo pratico” spinge la riflessione verso aspetti che sono a monte e che una pratica filosofica può aiutare a portare allo scoperto. Il suo intervento, spesso, affronta una situazione indeterminata in cui il problema è sentito, ma non ancora definito. E il primo passo consiste proprio nell’individuare il problema, articolarlo, analizzarlo ed esplicitarlo, fermo restando il fatto che la sua definizione non è il risultato della diagnosi di un consulente ma il punto di arrivo dell’attivazione di processi individuali e di gruppo proposti e facilitati dal filosofo.

VV: Qual è stato il motivo che vi ha spinto a progettare e proporre questo Master e qual è secondo te il suo valore aggiunto rispetto all’attuale offerta di master in Italia? Ci sono esempi di corsi di questo genere in altri paesi?

MIG: Il Master ha, a mio avviso, un grande valore aggiunto: quello di introdurre nelle organizzazioni una capacità di riflessione articolata all’altezza della complessità del sistema, in grado di guidarle ampliando il loro orizzonte simbolico e arricchendo il loro pensiero. Devo ammettere che ci siamo quasi sentite chiamate a pensarlo e a organizzarlo alla luce di molti anni di esperienza nelle organizzazioni (aziende e non) in posizioni manageriali o come consulenti. Lavorando in particolare sui temi di strategie o di sviluppo organizzativo e delle persone, spesso abbiamo operato filosoficamente ma sostanzialmente “in incognito” e abbiamo potuto apprezzare il plus apportato dalla filosofia sia sui temi di sviluppo del business (anche in senso lato) che su quelli più gestionali.

Penso che adesso i tempi siano maturi per venire allo scoperto e perché la filosofia possa entrare a pieno titolo nelle organizzazioni, a maggior ragione in quelle che presentano un maggior grado di complessità, per dare il proprio contributo nello sviluppo di nuovi modelli di business e organizzativi e in una “costruzione di senso” che aiuti le persone a stare meglio e in modo più consapevole negli ambienti di lavoro e le organizzazioni a essere sempre di più “organizzazioni che apprendono”.
Non mi risulta che all’estero ci siano ancora percorsi di questo tipo, ovvero strutturati e sistematici come un master anche se ci sono molte iniziative più frammentate. Ne ho parlato con colleghi stranieri (alcuni dei quali faranno parte del corpo docente del master) e ho riscontrato il massimo apprezzamento per un’iniziativa che risponde a un’esigenza dei nostri tempi e che è spesso oggetto di articoli anche su autorevoli riviste di business come la Harvard Business Review. D’altra parte da anni, e non solo nel mondo occidentale, si parla di Philosophy for management e si fa ricerca e si organizzano convegni e seminari in tale ambito.

VV: Quali sono i pre-requisiti che consideri fondamentali per trarre il massimo beneficio dalla partecipazione al Master?

MIG: Ci rivolgiamo in particolare a coloro che hanno una formazione filosofica e umanistica proprio perché, per tutto quanto detto finora, chi ha questo tipo di formazione può essere molto prezioso nelle organizzazioni quando abbia integrato questa propria competenza distintiva con le altre competenze necessarie per inserirsi proficuamente in un determinato contesto lavorativo. Riteniamo che acquisire un profilo da "filosofo pratico", che renda pronto a operare concretamente con la propria peculiare "inclinazione filosofica" in un mondo che ha sempre più necessità di un “pensiero nuovo” e che da anni auspica un “cambio di paradigma”, possa essere molto apprezzato sia dal mercato delle imprese innovative sia dai recruiter più aperti al futuro.
Il percorso formativo è articolato in maniera da far conoscere ai partecipanti la complessa e articolata realtà delle organizzazioni attraverso “le lenti” della FiP, valorizzando l’interconnessione tra due fil rouge che percorrono tutto il master intrecciandosi continuamente.

Il primo è quello che potremmo ricondurre alla formazione sui temi del general management. Esperti della vita organizzativa e delle discipline ad essa connesse guideranno i partecipanti nell’esplorazione degli ambiti in cui un filosofo può più proficuamente inserirsi. Una sorta di viaggio all’interno delle aree tematiche di una organizzazione “tipo” per conoscerne gli elementi principali, il linguaggio e le funzioni.
Il secondo è quello della formazione peculiare del “filosofo pratico”. Ogni tematica di cui sopra sarà oggetto di un laboratorio di pratica filosofica nel quale, sottoponendone a un esame critico presupposti e architetture, saranno evidenziate le opacità e le contraddizioni ma anche le possibili nuove luci e gli spazi nei quali seminare pensieri nuovi. Grande attenzione, inoltre, sarà dedicata allo sviluppo della consapevolezza attraverso momenti esperienziali dedicati. 

E’ chiaro che il massimo della potenzialità di un’ offerta del genere viene espresso nella frequenza dell’intero percorso. Abbiamo però voluto prevedere anche una modalità di fruizione diversa. È possibile, infatti, una frequenza parziale, finalizzata all’acquisizione di competenze specifiche in una o più delle aree tematiche. Penso ad esempio alla pubblica amministrazione, dove enti o dipartimenti possono essere interessati a far frequentare specifici moduli del master al proprio personale laureato. Per questo tipo di frequenza sono ammesse anche lauree diverse da quelle umanistiche.

VV: Quali organizzazioni secondo te oggi potrebbero essere più “aperte” a un approccio di questo genere e quindi interessate ad acquisire competenze non solo specialistiche ma anche “filosofiche”?

MIG: Penso in particolare ad aziende e organizzazioni, come ad esempio le imprese green e le ONG, che sono attente alla visione sistemica e desiderose di innovare sia nei modelli di business che in quelli organizzativi e che già mostrano notevole interesse per questa nuova figura professionale capace di integrare l’approccio sistemico e umanistico con una buona conoscenza delle dinamiche organizzative e dei mercati.

Intervista a cura di Valeria Verga - Roma, 10 luglio 2013

venerdì 5 luglio 2013

Ma come sarà la pratica?


Mi stupisce sempre sentir ripetere: sì, va bene in teoria, ma come sarà in pratica? 

Come se la teoria fosse fatta di belle parole, buone solo per la conversazione, ma non per servire da base a tutta la pratica, cioè a tutta l’attività.

Ci deve essere stata nel mondo una quantità spaventosa di teorie stupide, se è potuto entrare nell’uso un ragionamento così incredibile. La teoria è ciò che si pensa di un argomento e la pratica è ciò che si fa.

Ma come può essere che un uomo pensi che bisogna agire in un certo modo e che faccia poi il contrario? Se la teoria della preparazione del pane è che bisogna prima impastare, e poi mettere in forno, nessuno, se non i pazzi, conoscendola potrà fare il contrario.

Ma da noi è di moda dire: questa è la teoria, ma come sarà la pratica?



Lev Tolstoj, Che fare?, Milano, Mazzotta 1979