martedì 14 maggio 2013

Dove sono gli uomini?

La prima cosa che ti cattura è il titolo “Dove sono gli uomini?” e già si immagina il tipico romanzo sull’eterna ricerca dell’uomo ideale!

Nulla di tutto ciò. Niente caccia al principe azzurro, o donne sull’orlo di una crisi di nervi, ma storie vere, autentiche, e un osservatore d’eccezione, Simone Perotti, scrittore e blogger, già autore di best seller che, dalla copertina del suo ultimo libro lancia una provocazione ai potenziali lettori.

Dove sono gli uomini? è una domanda che lui per primo si è posta, registrando nella vita di tutti i giorni un’allarmante latitanza del sesso maschile nel tessuto sociale, di cui è un acuto osservatore.

Oggi, secondo Perotti, le donne socializzano, viaggiano, vanno al cinema, frequentano corsi di danza, yoga, vela, si buttano a capofitto in nuove avventure sentimentali e professionali, senza paura di mostrarsi per quello che sono, mentre i rappresentanti del sesso forte, viaggiano sempre più in solitaria, indeboliti e autoreferenziali.

Partendo da qui, il libro diventa un viaggio nell’universo femminile, in cui l’autore si addentra con delicata curiosità, raccontando una grande varietà di materiale umano che oggi sembra dialogare sempre meno con i partner maschili.

Ma come si fa a raccontare in un libro la crescente assenza degli uomini?

Continua a leggere su:



mercoledì 8 maggio 2013

Il capitalismo come religione di Walter Benjamin - Un commento oggi di Giorgio Agamben

Benjamin e il capitalismo
di Giorgio Agamben

Lo Straniero N. 155 - Maggio 2013 1.
www.lostraniero.net


1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire.

Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso. Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.

Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.

2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.

Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”). Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri: 1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea. 2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto. 3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.

martedì 7 maggio 2013

Similitudine e somiglianza

Sia per l’anonimo autore della Sacra Bibbia che per il saggista di Questa non è una pipa, all’inizio c’era il caos. O forse ce n’erano due: il caos del diverso, dove ogni cosa è diversa da ogni altra; e il caos dell’uguale, dove ogni cosa è uguale a ogni altra.

Entrambi sono refrattari all’idea di ordine, che può solo esistere sulla soglia fra la differenza e la similitudine. Là dove tutto è uguale, o dove tutto è disuguale, non è possibile imporre le categorie della conoscenza, quindi ordine. L’autore della Bibbia suddivide il creato secondo un codice binario (luce/tenebra; mondo/cielo; terra/mare; sole/luna; animali che nuotano/animali che volano, e così via). Michel Foucault suddivide il creato secondo le categorie delle cose e delle parole, la cui partizione è necessaria perché il mondo diventi comprensibile (attraverso tutto ciò si manifesta nella duplice articolazione un fatto e del resoconto di un fatto).

Per avere il concetto di ordine bisogna avere il concetto di differenza e di similitudine (tra cosa e cosa, o tra parola e parola). La storia del mondo è anche l’Histoire du Même, cioè la storia della stessità. La cosa uomo diventa uomo solo quando si accorge di opporsi all’altro, cioè all’inumano: quando l’uomo si accorge di essere lo stesso di un altro uomo. Questa stessità non è la statica stessità del caos dell’uguale, che ruota eternamente nella propria in-differenza, bensì la dinamica stessità del mondo, dove il simile e il diverso si confrontano si oppongono si urtano. La storia della stessità non è più un artistico rimando di specchi, bensì un vorticare di immagini.

In questa storia cosmica e umana ci sono delle fratture, degli intervalli, dei momenti di crisi; per esempio la frattura tra il mondo come scrittura divina (cioè il mondo visibile come espressione interpretabile della propria essenza) e la scrittura come trascrizione del mondo.

Questa è la grande crisi post-rinascimentale che Foucault ha analizzato nel suo libro maggiore, Les Mots et les Choses. Nel momento topico denunciato da Foucault, le parole e le cose interrompono la loro antica ed arcana corrispondenza. Da allora, le parole hanno dovuto affannarsi per rincorrere le alienità delle cose. Il reticolo di similitudini che reggeva l’armonia del mondo e la concordia della lingua del mondo è spezzato: tra l’uomo e la stella che regola il suo destino non esiste più la similitudine essenziale che garantiva la collaborazione tra il macrocosmo e il microcosmo (il modo in cui l’uno rifletteva specularmene l’altro); anzi, il concetto stesso di similitudine esce dal dominio della conoscenza.

Da allora in poi avremo somiglianza (l’uomo può avere una faccia porcina, quindi assomigliare a un maiale), non similitudine (l’uomo dalla faccia porcina non ha più nulla da condividere con la porcinità del porco). Il linguaggio, nell’arte e nelle lettere, si impoverisce in uno sforzo mimetico di raccontare il miracolo della somiglianza, non più convalidato dalla necessità della similitudine: cioè come l’uomo dal naso raccorciato, dalle narici dilatate, dagli occhi piccoli e ravvicinati e dalle mandibole sporgenti possa avere un volto che sembra quello di un maiale.

È l’estetica del come se: l’uomo è come se fosse un maiale. Contro la documentazione anatomica (bipide/quadrupede), la classificazione zoologica (homo/sus), le abitudini gastronomiche (l’uomo non mangia ghiande) e le convenzioni linguistiche (il suono nella voce umana differisce dal grugnito), la somiglianza tra uomo e porco cerca invano di rintracciare l’eco di antiche metamorfosi, di significanti similitudini, di fatali sovrapposizioni. Il diverso è ormai meno problematico del somigliante.

Dalla prefazione di Guido Almansi in “Questo non è una pipa” di Michel Foucault, Serra e Riva Editori 1973 Milano, pp. 9-11.

venerdì 3 maggio 2013

Linguaggio e realtà


In un certo senso, come dice Husserl, tutta la filosofia consiste nel restituire un potere di significare, una nascita del senso o un senso selvaggio…

E in un certo senso, come dice Valery, il linguaggio è tutto, perché esso non è la voce di nessuno, perché è la voce stessa delle cose, delle onde e dei boschi.

Si deve altresì comprendere che dall'una all'altra cosa non c'è rovesciamento dialettico, noi non abbiamo il compito di riunirle in una sintesi: esse sono due aspetti della reversibilità che è la verità ultima.


Merleau Ponty Il Visibile e l'Invisibile, Bompiani, 2007, pag. 170

mercoledì 24 aprile 2013

Comunésta



La scorsa settimana, ero in ospedale, a Bologna, nella stanza di fronte alla mia c’era una ragazza di Rimini e suo babbo, dopo avermi preso un po’ in giro perché non son tanto capace di fare le cose pratiche, non al livello che chiamo l’elettricista per cambiare le lampadine ma quasi, quando gli ho detto che era vero, ero un po’ imbranato con le cose pratiche, e dopo che mi sono sentito, inspiegabilmente, in dovere di aggiungere “Ho altre qualità”, lui, questo signore di Rimini con una ragazza all’ospedale di Bologna mi ha detto “Lo sappiamo”. E mi ha raccontato che suo fratello, quand’era stato lì in ospedale il giorno prima mi aveva riconosciuto da certi servizi che aveva visto in una trasmissione che c’era quest’inverno che si chiamava Volo in diretta e gli aveva raccontato che genere di cose faccio “L’è un comunésta” aveva detto alla fine. E l’aveva detto con un tono, come se fosse un complimento, difatti l’avevo poi detto al fratello di questo che mi aveva dato del comunésta, “Sembra un complimento”, e il fratello mi aveva risposto dicendo “Ah, be’, a casa nostra”, con un tono come per dire che era normale, a casa loro, che essere un comunésta fosse considerato un complimento. E, al di là del fatto che credo di non essere, un comunésta, soprattutto nel senso che a questa parola mi sembra desse il fratello di quel signore che ha parlato con me l’altro giorno a Bologna, mi è piaciuto questo fatto linguistico che vince le svolte della Bolognina, il tribunale della storia, mi è piaciuto scoprire una parola come intatta, che si pronuncia ancora con l’intonazione con cui la si pronunciava cento anni fa.

Paolo Nori – su Libero - venerdì 19 aprile 2013

venerdì 19 aprile 2013

Memoria



Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi, nel soffio d'un vento di pioggia, nell'odor di rinchiuso di una camera o nell'odore d'una prima fiammata, ovunque ritroviamo di noi stessi quel che la nostra intelligenza, non sapendo come impiegarlo, aveva disprezzato: l'ultima riserva del passato, la migliore, quella che, quando tutte le nostre lagrime sembrano esaurite, sa farci piangere ancora.

M. Proust - Alla ricerca del tempo perduto – La strada di Swann. Einaudi

venerdì 12 aprile 2013

Come si dice Audiobook in polacco


Dal 15 al 20 di marzo son stato in Polonia, a Cracovia, ad Auschwitz e a Birkenau, con un gruppo di 630 persone la maggioranza delle quali erano ragazzi e ragazze degli ultimi due anni delle scuole superiori della provincia di Modena. Siamo andati con un treno che partiva da Fossoli, il campo dal quale partivano, alla fine della seconda guerra mondiale, i deportati del nord Italia.

Ci abbiamo messo, a arrivare, venti ore. Il giorno dopo, nell’andare a Birkenau, sull’autobus la guida ci ha detto che la Polonia ha una forma più o meno regolare, rotonda quadrata. E tutto il giorno abbiamo camminato sulle ossa dei morti. E aspettavamo che tacesse la guida, e ci mettevamo a ascoltare il silenzio. E pensavamo che era un silenzio da registrare.

E a un certo punto è stato chiaro che è vero quello che dice una botanica che lavora al museo di Auschwitz, che dice che il senso del lavoro che, da decenni, stanno facendo gli storici per ricostruire quel che veramente è successo, comparando testimonianze e dati documentali, lavorando sui ritrovamenti di nuovo materiale sul sito archeologico e sui ritrovamenti di nuovi documenti negli archivi di mezzo mondo, un lavoro inesausto e disperato, che ha portato Franciszek Piper a scrivere: «il est évident que la reconstruction de la tragédie d’Auschwitz dans son intégralité est irréalisable», il senso di tutto questo lavoro sarebbe rivoluzionato, ha detto quella botanica, se ci si rivolgesse a dei testimoni oculari imparziali, le betulle di Birkenau, che – e ci siamo voltati tutti a guardarle – sono le stesse betulle che c’erano allora, settant’anni fa.

E il giorno dopo, alla mensa sovieticomorfa del museo di Auschwitz, quando ho ordinato un espresso, la barista mi ha chiesto «Piccolo?» e io le ho risposto «Piccolo». E il giorno dopo, a Cracovia, in un bar che dà sulla piazza, ho sentito tre tedeschi che ordinavano uno un caffè, uno un cappuccino, un altro una pizza, e ho pensato che noi italiani avevamo inventato tutto, anche la parola Ghetto. E sapevo che dieta in polacco si dice Dieta, e che farmacia in polacco si dice Apteka. E subito dopo, in una libreria di Cracovia, ho scoperto che audiobook si dice Audiobooki. E poi basta.

Paolo Nori – articolo su Libero 22 marzo 2013