lunedì 4 marzo 2013

Irreversibilità


È chiaro che l'universo si evolve col passare del tempo – l'universo dei primi istanti era caldo e denso, quello attuale è freddo e rarefatto. Ma il collegamento che farò è molto più profondo. L'aspetto più misterioso del tempo è che ha una direzione: il passato è diverso dal futuro. È la cosiddetta freccia del tempo: diversamente da quanto accade per le direzioni spaziali, che nascono tutte uguali, l'universo ha indiscutibilmente una direzione preferita per il tempo. Uno dei principali motivi conduttori di questo libro è che la freccia del tempo esiste perché l'universo evolve in un certo modo.

La ragione per cui il tempo ha una direzione è che l'universo è pieno di processi irreversibili, cose che avvengono in una direzione temporale, ma mai in direzione opposta. Possiamo trasformare un uovo in frittata ma non una frittata in uovo. Il latte si mescola col caffè; i combustibili bruciano e si trasformano in gas di scarico; le persone nascono, invecchiano e muoiono. Ovunque in natura troviamo successioni di eventi in cui un certo tipo di evento accade sempre prima e un altro dopo; sono queste successioni, tutte insieme, a definire la freccia del tempo.

È piuttosto notevole che alla base della nostra comprensione dei processi irreversibili vi sia un singolo concetto: una quantità chiamata entropia, che misura il grado di disordine di un oggetto o di un conglomerato di oggetti. L'entropia ha un'ostinata tendenza ad aumentare, o almeno a rimanere costante, col passare del tempo: è il famoso secondo principio della termodinamica. È il motivo per cui l'entropia vuole aumentare è ingannevolmente semplice: ci sono più modi di essere disordinati che ordinati, quindi (a parità di altre condizioni) una configurazione ordinata tenderà naturalmente verso un maggiore disordine. Non è così difficile rimescolare le molecole dell'uovo per farne una frittata, ma risistemarle con delicatezza una per una nella configurazione dell'uovo va oltre le nostre possibilità.
La storia che i fisici sogliono ripetere a sé stessi normalmente finisce qui. Ma c'è un ingrediente assolutamente cruciale che non ha ricevuto sufficiente attenzione: se nell'universo tutto evolve verso un disordine maggiore, la configurazione iniziale doveva per forza essere estremamente ordinata. L'intera catena logica che pretende di spiegare perché non si può trasformare una frittata in uovo a quanto pare si regge su un'ipotesi molto importante riguardante l'universo al momento del suo inizio, cioè che esso si trovasse in uno stato di entropia molto bassa, dunque molto ordinato.

La freccia del tempo collega l'universo primordiale a qualcosa che sperimentiamo letteralmente in ogni momento della nostra vita. Non si tratta solo di sbattere le uova o di altri processi irreversibili, come mescolare il latte al caffè, o il fatto che una stanza non ben tenuta diventa sempre più disordinata. La freccia del tempo è la ragione per cui il tempo sembra scorrere o, se preferite, per cui ci sembra di muoverci nel tempo. Quella per cui ricordiamo il passato e non il futuro, quella per cui cresciamo, invecchiamo e da ultimo moriamo. È il motivo per cui crediamo in causa ed effetto, ed è fondamentale per il nostro concetto di libero arbitrio.

E tutto questo a causa del big bang.

Sean Carroll, Dall’Eternità a Qui - La ricerca della teoria ultima del tempo -Adelphi, Milano, 2011, Biblioteca scientifica 49


venerdì 1 marzo 2013

lo spirito del tempo



Un altro ideale ci precede correndo […]: l’ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino; uno spirito per il quale il termine supremo, in cui il popolo ragionevolmente ripone la sua misura di valore, significherebbe già qualcosa come pericolo, decadenza, abiezione, o per lo meno diversivo, cecità, effimero oblio di sé; è l’ideale di un umano-sovrumano benessere e benvolere, un ideale che apparirà molto spesso disumano, se lo si pone, ad esempio, accanto a tutta la serietà terrena fino a oggi esistita […] – un ideale con cui, nonostante tutto ciò, comincia forse per la prima volta la grande serietà, è posto per la prima volta il vero punto interrogativo, con cui il destino dell’anima ha la sua svolta, la lancetta si muove, la tragedia comincia…


F. Nietzche La Gaia Scienza – Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari,  V, II, 262-263, Adelphi, Milano 

mercoledì 27 febbraio 2013

Ciclo di seminari: Individuo e società


L’eguaglianza democratica sembra generare, in modo affatto paradossale, un serio indebolimento del legame sociale. L’altro da sé assumerebbe progressivamente i connotati di una figura sempre più estranea e opaca, disinvestita di ogni anelito relazionale e di ogni tensione emotiva. D’altro canto, con il prevalere delle passioni livide e de-socializzanti dell’individualismo liberale, si assiste parimenti a un indebolimento dell’identità individuale: ovvero all’emergenza del conformismo e dell’omologazione egualitari. E il rischio per la vita associata cresce inesorabile: da masse di individui senza legami, da atomi irrelati e uniformati, può infatti scaturire un nuovo e inquietante bisogno di autorità; un’inclinazione alla soggezione che è sorella di quel bisogno di libertà, oggi apparentemente relegato nelle anguste stanze del consumismo economico contemporaneo.

Il corso prevede quattro lezioni partecipate con cadenza settimanale, ciascuna di due ore ogni giovedì dalle 18,30 alle 20,30, in cui il docente interagirà con i partecipanti invitandoli a esprimere anche i loro pensieri e le loro teorie in merito agli argomenti trattati. La prima lezione sarà giovedì 7 marzo e si terranno nella sede di Via Carlo Denina 72 (Metro A Furio Camillo - Roma).
Le lezioni saranno curate da Luca Cianca.

Min. 6 partecipanti

Per info e prenotazioni scrivere a info@spazidellanima.it o lasciare un messaggio in segreteria allo 06 7801665 e sarete richiamati quanto prima.

martedì 19 febbraio 2013

Meteoriti



I meteoriti che hanno colpito la Russia sembrano un messaggio che un Dio stanco ha pensato di spedire alla sue creature accanite sul contingente. 

La piccola terra tonda è sempre più gremita di esseri umani e delle loro creazioni e sempre più priva di quello che una volta si chiamava sacro, spirito, religione. Le dimissioni del papa hanno ufficialmente sancito la stanchezza degli umani, il loro ripiegarsi sulle piccole vicende del proprio corpo e della propria psiche.

La pioggia cosmica è sempre in corso. Forse i lunatici, gli ipocondriaci sono persone colpite da meteoriti invisibili. Ormai il pianeta sembra una vasta infermeria, un ambulatorio in cui ognuno porta i suoi mali a un medico che non c’è. La malattia del mondo è aver perso sensibilità all’universo. Abbiamo dimenticato il mistero in cui siamo immersi, scambiando le misure che prendiamo alle cose con le cose stesse. Quello che accade nella nostra atmosfera, dalle campagne elettorali agli uragani, ormai non basta. Abbiamo bisogno d’altro per rinvigorire il senso della nostra presenza. Possiamo anche riprendere a produrre e consumare merci, avremo sempre più la sensazione di un gioco piccolo, asfittico.

Siamo ormai foderati dalla nostra cecità che ci impedisce di vedere e di sentire la vibrazione che ha acceso la materia e dentro la materia quel mistero ulteriore che è la coscienza.

I meteoriti dovrebbero cadere più spesso, squarciare questo lenzuolo di chiacchiere con cui abbiamo coperto la salma del mondo. Stiamo qui da mezzi addormentati, abbiamo bisogno di qualcosa che ci svegli. Altro che cacciabombardieri, dovremmo demolire ogni nascondiglio, ogni prigione. E dovremmo concordare una tregua alla guerra in atto tra le persone. Non ci prendiamo in giro. Dopo le guerre tra le tribù, dopo le guerre tra gli Stati, abbiamo inaugurato le guerre dell’io: ognuno contro tutti nella giostra dell’autismo corale.

La pioggia russa è venuta a ricordarci che siamo tutti orfani e senza un tetto. Siamo la terra, siamo gli affreschi del respiro, non gli stropicciati fantasmi che portiamo in giro.

Franco Arminio "la pioggia russa"  www.doppiozero.it

lunedì 18 febbraio 2013

Desiderare



Desiderare è la cosa piú semplice e umana che sia. Perché, allora, proprio i nostri desideri sono per noi inconfessabili, perché ci è cosí difficile portarli alla parola? Cosí difficile che finiamo col tenerli nascosti, costruiamo per essi in noi da qualche parte una cripta, dove rimangono imbalsamati, in attesa.
Non possiamo portare al linguaggio i nostri desideri, perché li abbiamo immaginati. La cripta contiene in realtà soltanto delle immagini, come un libro di figure per bambini che non sanno ancora leggere, come le images d'Epinal di un popolo analfabeta. Il corpo dei desideri è una immagine. E ciò che è inconfessabile nel desiderio, è l'immagine che ce ne siamo fatta.
Comunicare a qualcuno i propri desideri senza le immagini è brutale. Comunicargli le proprie immagini senza i desideri è stucchevole (come raccontare i sogni o i viaggi). Ma facile, in entrambi i casi. Comunicare i desideri immaginati e le immagini desiderate è il compito più arduo. Per questo lo rimandiamo. Fino al momento in cui cominciamo a capire che rimarrà per sempre inevaso. E che quel desiderio inconfessato siamo noi stessi, per sempre prigionieri nella cripta.
Il messia viene per i nostri desideri. Egli li divide dalle immagini per esaudirli. O, piuttosto, per mostrarli già esauditi. Ciò che abbiamo immaginato, lo abbiamo già avuto. Restano – inesaudibili – le immagini dell'esaudito.
Con i desideri esauditi, egli costruisce l'inferno, con le immagini inesaudibili il limbo. E con il desiderio immaginato, con la pura parola, la beatitudine del paradiso.

Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005

lunedì 11 febbraio 2013

Un convegno sul nulla


Un convegno sul nulla. L’idea è venuta allo scrittore Paolo Nori, che l’ha organizzato, con la complicità della rassegna CentoCage, promossa dal comune di Bologna per i cento anni dalla nascita di John Cage, nella biblioteca Sala Borsa del capoluogo emiliano. Si è parlato di tutto e di niente, entro confini che Nori aveva così sfrangiato: “Quando non c’è niente da dire, o quando non si sa cosa dire, o quando non si sa cosa fare, o quando non si vede niente, o quando non si capisce niente, o quando non si sente niente, o quando non si riesce a dormire, o quando non si vuole mangiare: le astensioni di tutti i tipi, le scene mute, le fotografie sbagliate, le macchine che restano senza benzina, i sans papier, i sanculotti, i frigo vuoti, i film muti, i buchi neri, la menopausa, le notti in bianco, quando si cerca in tutte le tasche e non c’è neanche una sigaretta; i digiuni, gli anestetici, gli astemi, gli anoressici, gli scioperi; le pianure, le steppe, i deserti, la siccità, la crisi energetica, i black out, gli annulli filatelici, le amnesie, la crescita zero, le tinte unite. La calvizie. La sterilità. Il celibato e il nubilato. L’inappetenza e l’incontinenza. Il buio. Il silenzio. Il niente. Il nulla”.
(…)
Perché l’inno del convegno era 4’ 33’’di John Cage, il pezzo in cui il musicista o l’ensemble non suona ma fa ascoltare il silenzio?


“Noi dovevamo eseguirlo in apertura dei lavori. Poi Carlo Boccadoro aveva un altro impegno sul lago di Garda e quindi è arrivato solo alla sera e lo abbiamo fatto in chiusura. È stato per me un momento bellissimo: è stato una specie di preghiera. L’abbiamo suonato nella versione per clarinetto. L’ha eseguito, per così dire, Mirco Ghirardini, un clarinettista che ha anche fatto un intervento sulla musica da ballo. Lui suona alla Scala, suona in Sentieri selvaggi, che è il gruppo di Carlo Boccadoro, e poi suona in un gruppo di liscio. Ha fondato e dirige un gruppo che rifà il liscio delle origini, e però son talmente veloci quei valzer lì che non li balla più nessuno. Lui suona una musica da ballo che in tutti questi anni non ha mai ballato nessuno nei loro concerti. Il pezzo di Cage sono stati 4 minuti e 33 secondi di silenzio in cui abbiamo sentito i rumori della Sala Borsa – è quella la funzione di quel pezzo – ed è stato un momento proprio quasi meditativo. È stato proprio la chiusura ideale”.

Quel pezzo vuole dimostrare che il nulla chiamato silenzio è in realtà pieno…
“Che il silenzio non esiste. Così noi quando l’abbiamo suonato abbiamo sentito i rumori che c’erano di sopra, quelli del riscaldamento eccetera, che prima intanto che si parlava non sentivamo. La cosa bella è che quello lì è un pezzo che, a seconda del posto dove lo fai, cambia tutte le sere, a seconda del silenzio che c’è lì. Perché ogni posto, forse, ha il suo silenzio. C’è un racconto di Heinrich Böll, in Racconti satirici e umoristici, dove c’è uno che lavora alla radio e faceva collezione di silenzi registrati. Quando era con la sua fidanzata registrava i loro silenzi e dopo li riascoltava, che era una cosa che alla fidanzata non piaceva tanto, mi sembra di ricordare”.
(…)

Però, la domanda che rimane sospesa, grande, forte, sul convegno sul nulla è: invece di un convegno sul nulla, non sarebbe stato meglio non fare nulla?


“Quella lì è in un certo senso la perfezione. E però noi siamo consapevoli di essere imperfetti, di essere degli esseri limitati. Del resto, quello che forse ha fatto la cosa più bella è stato Alessandro Bonino, che è stato a casa. In fondo la relazione più riuscita è stata la sua, perché priva di errori. Però, io sono anche abbastanza contento che ci sia della gente che accetta il rischio di sbagliare, anche perché, come dicevo, se non avessi i libri non saprei come fare... Questo fatto di parlare, di raccontare, di trovare una forma non per spiegare il mondo ma per raccontarlo, a me sembra proprio bello, e io personalmente ho bisogno di persone che lo facciano per me. Mi ricordo una volta, un po’ di tempo fa, ero in Sardegna, per 5 anni sono andato tutti gli anni a un festival di poesia, il festival di Seneghe. Quel festival lì era bello anche per la società che si creava: ci si trovava, di sera, alla fine di tutto, al bar, in questo paesino che per 3 giorni cambiava faccia. Una volta ero lì con un ragazzo sardo, Diego Zucca, appassionato di palindromi. Io ho fatto la tesi su Chlebnikov, un poeta russo dei primi del novecento che ha fatto diversi versi palindromi. Diego Zucca è appassionato di Georges Perec, che pare abbia fatto il palindromo più lungo del mondo. E c’era un nostro amico, Luciano Marrocu, che è scrittore e docente di storia contemporanea all’università di Cagliari, e che era stato assessore alla cultura della Provincia di Cagliari e militante dell’ex Pci. Dopo un po’ che sentiva, anche con un po’ di fastidio, ci ha detto: ma voi, invece di far dei palindromi, perché non fate la rivoluzione? Che è una domanda molto bella. Ecco, io, la mia impressione, è che far dei palindromi vuol dire fare la rivoluzione. Essere capaci di maneggiare il linguaggio, essere capaci di parlarsi, di raccontarsi delle cose, noi siam messi in un modo che questo è già una rivoluzione. Una giornata di sei ore dove c’è della gente disposta a ascoltare undici persone che raccontano appunto la menopausa, la materia assente, è quello, in piccolo, naturalmente. Io, come ascoltatore, non mi son mai annoiato, se vado a vedere un film che dura un’ora e mezza mi dico: ma io l’ho già vista questa roba, sembra di averla già vista. Ecco, quella lì è una piccola, microscopica rivoluzione, mi sembra. Certo, parlare non serve a niente, come guardare una bella ragazza, a cosa serve?”.

Tratto da “Il nulla a convegno” Una conversazione con Paolo Nori di Massimo Marino

venerdì 1 febbraio 2013

Uno sguardo privato - Su Emidio Greco


Un autore privato. Non si può usare un aggettivo diverso, a misurare la differenza di Emidio Greco rispetto al cinema italiano contemporaneo. 

L’uomo privato, proprio, s’intitola il penultimo degli otto lungometraggi che ci ha lasciato (sabato scorso, morendo a Roma dopo una malattia che lo aveva illuso, ci aveva illuso, di essere stata sconfitta). Il penultimo, ma – dichiarava alla sua uscita – «mi piacerebbe che venisse ricordato come naturalmente l’ultimo». Notizie degli scavi – tre anni dopo, nel 2010 – ha rappresentato una “postuma” chiusura del circolo: col racconto di Franco Lucentini che Emidio aveva sceneggiato, allora appena uscito, all’atto di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Era il 1964, l’anno di Deserto rosso

Ed è da lì che Emidio proveniva. Dalla Torino “concettuale” dei primi Sessanta, dei quadri specchianti di Pistoletto, dell’amico carissimo Alighiero Boetti (all’opera del quale, nel ’78, dedicò Niente da vedere niente da nascondere). Del Gruppo 63 degli altri amici e suoi occasionali collaboratori – Enrico Filippini, Andrea Barbato. Veniva da quell’Italia; ed era, di tutti loro, il più giovane. Condizione che si rivela, alla lunga, controproducente: consegnandosi, alla generazione che segue, come il fossile di un tempo infinitamente più ricco e consapevole. E infatti, nel cinema degli anni Ottanta e Novanta e Zero, è stato un revênant, un diverso, un alieno. Come tale veniva percepito dai suoi colleghi e dal pubblico. Ma come tale, soprattutto, percepiva se stesso.

Per questo L’uomo privato – «naturalmente ultimo» – rappresenta insieme il suo testamento e il suo autoritratto. Un professore di Diritto, uomo di successo dall’eleganza asciutta e riservata, dall’alto dei suoi privilegi guarda il mondo in modo disincantato, quasi entomologico. Nelle interviste Emidio lo paragona all’Ulrich dell’Uomo senza qualità (perché sullo sfondo si lavora all’Azione Parallela d’un insensato mega-convegno cultural-mondano che si celebrerà, infine, nella cornice sfarzosa della Villa della Regina: sulle colline della “sua” Torino, cioè, ma vista dall’alto e da lontano), a me ricorda piuttosto Hans Karl Bühl, L’uomo difficile d’un altro cantore della finis Austriæ, Hugo von Hofmannsthal. Come lui l’uomo privato è desiderato da tutti, e soprattutto da tutte; ma non si concede mai, davvero, a niente e a nessuno. Come lui l’uomo privato non partecipa all’agitazione di chi lo circonda; non
dà risposte, non esprime opinioni. Alla fine lo dice, l’uomo difficile di Hofmannsthal: «tutto quel che si esprime è indecente […], gli uomini non mettono rigore in nulla, c’è addirittura una certa impudenza nel fatto stesso che gli uomini osino vivere certe cose!». Questo schermo che l’uomo privato frappone fra sé e la vita è simboleggiato da una metafora eloquente, per un uomo di cinema. Lo dice a lezione, il professore. La vita non ha forma se non è illuminata dal diritto: «la norma giuridica getta un fascio di luce sulla vita. E la vita è l’ombra che resta oltre il cono di quella luce».

Personaggio-riflettore, come lo avrebbe definito Henry James, l’uomo privato pensa di poter illuminare il mondo fuori di sé senza mai esserne coinvolto. Ma qualcosa incrina il suo progetto. Un suo studente – che poi s’è suicidato – a sua insaputa lo ha seguito, lo ha spiato, ha ripreso la sua vita privata come farebbe, appunto, un occhio privato. Quello sguardo di rimando, che imprevisto gli si ritorce contro, da quel momento gli rende impossibile il distacco, il dominio che prima esercitava su tutto e tutti. Come succede anche negli altri film del suo autore, l’uomo privato si aggira in una festa, guarda gli altri ballare senza poter prendere parte a quel ballo, senza capirlo. Alla fine torna nel suo appartamento privato e guarda quella cornice, in cui prima s’incastonava a perfezione, per la prima volta dall’esterno: aziona un interruttore, accende le luci di casa in ogni possibile combinazione. Ma non c’è più traccia di forma, non c’è più rigore: in quella luce. Un finale che ripete in forma disforica quello dell’opera prima, L’invenzione di Morel del ’74: che alla trama di Bioy Casares – ancorché «perfetta», come l’aveva designata Borges, mai rinnegato phare di Emidio – appone una clausola che è un capovolgimento: col naufrago che infrange la macchina congela-tempo, il «fascio di luce» metafisica che ha fissato la realtà, sull’isola, paralizzandola in una forma splendida quanto priva di vita.

Com’è ovvio, è lo stesso autore ad aver rivolto su di sé quello sguardo indiscreto. Come nell’unico Film realizzato da Samuel Beckett, l’occhio che ci insegue è il nostro stesso occhio. L’uomo che con tanta efficacia ha forcluso il suo privato agli sguardi indiscreti del prossimo, ha sofferto anche una privazione. Lo schermo di estraneità che ha frapposto fra sé e il mondo ha separato lui stesso dal vivo di un’esistenza con la quale in effetti Emidio, spesso, dava l’impressione di avere poco a che fare. Cauterizzato dalla nascita, così appariva, nei confronti dei trasporti e degli affetti, delle illusioni della vita sociale, pubblica.