martedì 19 novembre 2013

Cambiare le cose


Buongiorno.

Grazie dell’invito. Io mi chiamo Paolo Nori, sono di Parma, abito a Casalecchio di Reno, vicino a Bologna, e scrivo dei libri, dei romanzi, prevalentemente, ma anche dei discorsi, e oggi mi hanno chiesto di scrivere un piccolo discorso che abbia come tema il tema di questo incontro che chiude la festa di Left, che è Le cose si cambiano, cambiandole.

Ecco, Left è una rivista politica, quelli che parteciperanno al dibattito son tutte persone che, in diversi modi, sono tutti, come di dice, attivi in politica, e noi siamo abituati a pensare che la politica sia il posto dove, per antonomasia, si cambian le cose, e mi vengono in mente due cose, mia nonna, che, quando io mi son laureato a lei le sembrava una cosa così grande, il fatto che mi fossi laureato, le sembrava che io fossi diventato così bravo, laureandomi, che mi diceva che senz’altro sarei andato in parlamento e io le dicevo No nonna, farò poi dell’altro, e infatti è andata così, ho poi fatto dell’altro, e la seconda cosa che mi viene in mente è Pietro Nenni, che, come si sa, quando i socialisti sono entrati per la prima volta al governo e gli hanno chiesto cosa succedeva nella stanza dei bottoni lui ha detto che, entrando al governo, lui si era accorto che, nella stanza dei bottoni, non c’eran bottoni e io, adesso, una cosa che vorrei chiedere, a quelli che parteciperanno al dibattito dopo, cioè Pippo Civati, Giulio Cavalli, Adriano Zaccagnini,Mirko Tutino, Paola Natalicchio, Giovanni Tizian, che ciascuno dal suo punto di osservazione ne sanno molto più di me, volevo chiedergli se ce li hanno messi, i bottoni, nella stanza dei bottoni, perché io, l’impressione che ho, di politica io ne so molto poco ma se il motivo per cui vale la pena di fare politica è cambiare le cose, io vorrei capire in che senso vi sembra che si possano cambiare le cose.

Allora, io, come ho detto, ne capisco poco, ma per quel poco che ne capisco, un grande libro politico è un libro di Tolstoj che si intitola Che fare? e è un libro che racconta cosa succede a Tolstoj quando si accorge che al mondo ci sono un sacco di poveri, e si mette in testa di provare a aiutarli.

Comincia a dargli dei soldi, ma si accorge che questi soldi, loro, li bevono, in Russia bevono, hanno questa abitudine che bevono e le cose, dopo un po’, Tolstoj, si accorge che non sono cambiate e allora, non se la prende con le cose, né se la prende con quelli che bevono, ma a un certo momento si chiede, dentro il suo libro: Chi sono io, io che voglio aiutare gli uomini? Voglio aiutarli, e mi alzo a mezzogiorno, dopo un’interminabile partita di whist, infiacchito, molle, bisognoso dei servigi e dell’aiuto di centinaia di persone; e vengo ad aiutare – chi poi? Uomini che si alzano alle cinque; che dormono su tavole, che mangiano pane e cavoli, che sanno arare, falciare, immanicare la scure, squadrare, aggiogare cucire; uomini che per padronanza di sé, per forza, per abilità, per temperanza, valgono cento volte più di me, e io voglio aiutarli! Cosa altro, se non vergogna, posso provare quando entro in rapporto con loro? Tutta la mia vita passa così: mangio, parlo, ascolto; mangio, scrivo e leggo, cioè ancora parlo e ascolto; mangio, gioco, mangio, di nuovo parlo, e ascolto, mangio e di nuovo vado a dormire, e così ogni giorno, e non posso e non so fare altro. E perché possa permettermi di fare tutto questo, occorre che dalla mattina alla sera lavorino per me il portiere, l’inserviente, la cuciniera, il cuoco, il lacchè, il cocchiere, la lavandaia; per non parlare degli operai necessari a produrre gli oggetti di cui questi cocchieri, cuochi, lacchè hanno bisogno per lavorare per me: martelli, botti, spazzole, vasellame, legname, carne di bue. Ognuno di loro lavora duramente tutto il giorno e tutti i giorni perché io possa parlare, mangiare, dormire; e proprio io, questo individuo gramo, ho immaginato di poter aiutare gli altri, quegli stessi uomini che mi nutrono.

Non è straordinario che io non abbia aiutato nessuno e che abbia provato vergogna; la cosa più straordinaria è che mi possa essere venuta in mente un’idea tanto assurda scriveva Tolstoj nel 1886 e a me vien da pensare, ogni volta che penso a questo passaggio, che se lui, Tolstoj, che era Tolstoj, sapeva di non esser capace di fare niente, a me mi viene da chiedermi, come possiamo noi, che non siamo Tolstoj, pensare di essere capaci di fare qualcosa? Io, parlo per me, mi sento ridicolo, a pensare così, e mi viene da chiedermi Non siamo tutti ridicoli, noi, se pensiamo di esser capaci di fare qualcosa? Cioè che magari siam capaci, di farla, io per esempio, nel mio piccolo, recentemente, una cosa che ho fatto, un paio di anni fa, ho smesso di fumare, e ho smesso poco dopo che sono state emanate, come si dice, le leggi antifumo, ma se mi chiedo perché ho smesso, mi vien da pensare che non ho smesso per le leggi antifumo, né perché hanno aumentato il prezzo delle sigarette, ho smesso perché me l’ha chiesto mia figlia, e me l’ha chiesto in un modo che ho capito che, questa cosa che fumavo, la faceva star male, e la cosa che mi vien da pensare è che quelli che mi governano, quelli che schiacciano i miei bottoni, ha molti più bottoni mia figlia, del parlamento, o della corte costituzionale, è molto più importante, per guidare il mio comportamento, per indicarmi una strada, la testa di mia figlia, che la testa di Enrico Letta, o di Giorgio Napolitano e di Laura Boldrini, con tutto il rispetto per Enrico Letta e anche per gli altri, e allora la cosa che mi viene da chiedermi, in una situazione del genere, non credete che la vostra capacità di cambiare le cose sia indipendente dal fatto che voi, con ruoli diversi, siete nelle istituzioni?


Mi viene in mente quel passo di Guerra e Pace di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, è stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, e è lì, di notte, nel recinto dei prigionieri, prigioniero dei francesi, i francesi hanno in mano tutta la sua bottoniera, sono arbitri della sua vita e della sua morte, come si dice, e lui è lì, che guarda il cielo stellato e, tutto d’un tratto, scoppia a ridere. E ride forte, e a lungo. E ride per questo pensiero, che gli è venuto: Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera? Che è una bella domanda, mi sembra, dopo la quale andare avanti è difficile ma io ci vado lo stesso.



Da "Una regola" discorso pronunciato a Roma, alla Città dell’altra economia il 14 settembre del 2013 come introduzione al dibattito che chiude
 la festa di Left-avvenimenti al quale partecipano Pippo Civati, Adriano Zaccagnini, Mirko Tutino, Giulio Cavalli, Paola Natalicchio e Giovanni Tizian
e poi ripronunciato a Cagliari, nella sede dall’associazione Asibiri il 16 novembre 2013